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April 19th, 2024
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Parvenze difformi

Enzo Santese

Autore: Prof. Fabio Finotti

Il nuovo libro di Enzo Santese ha un titolo di grande suggestione: Parvenze difformi (Venezia, Cominiana Editrice). Il primo significato di “difformi” è “diverse”: il lettore si attende poesie che evochino la molteplicità del reale, la sua conflittualità, la sua articolazione in parti che non coincidono ma collidono. Così, nel modo più tragico, accade nella guerra, e dunque non a caso sono dedicati a Sarajevo i versi che si trovano quasi ad apertura di libro: “L’alba illumina tumuli di macerie / incenerite da bagliori di violenza, / sagome nere s’incurvano su reliquie / nascoste da strati di colpe antiche, / riaccese per colpire il vicino / tanto diverso da mostrarsi uguale / in un vortice di vento che deflagra / sulle teste imperturbate di una città / di fede sconnessa in tanti culti”. La guerra non è un evento isolato, ma rappresenta nel modo più tragico la “sconnessione” della vita, e le sue dissonanze, assunte dalla poesia e dalla musica del Novecento come aspetti sostanziali del loro linguaggio. All’uomo contemporaneo il mondo appare diviso in frammenti che non si riescono a comporre: la loro differenza non è complementarietà ma conflitto, a meno che Dio non torni ad agire, ricomponendo la babele umana in una nuova armonia. La “difformità” di Santese è infatti illuminata dall’attesa di una redenzione, suggerita per esempio dai versi di Cracovia: “Piazza del mercato / brulicante d’anime / in cerca di domani, / giovani impietriti / su palchi mobili / in attesa di compensa / al merito del mimo / rumori confusi e attutiti / dal vento intermittente. / Occhi azzurri tagliana / il continui tran tran / di un andare pieno / fra vie e piazze / che parlano molte lingue / mentre Dio guarda / tra chiese e sinagoghe / sigillando memorie / nelle cadenze lente / di una nuova armonia”. L’armonia che compone le nostre difformità dunque esiste, ma possiamo sentirla? Il canto di Dio è così nascosto, che gli uomini si perdono senza rimedio e senza speranza negli stridori dei loro conflitti, fino a quando nella soglia magica e sospesa, tra giorno e notte, non si dimenticano di se stessi, e sperimentano la pace non nella parola ma nel silenzio. Cosa c’è infatti di meno “difforme” del silenzio?(“Ferma l’aria / in brillio meridiano, / la città si sgrana / in punti mobili / lungo le vie infuocate / dal denso andare. / Brontolio di suoni / e tramestio di segni / nel concerto quotidiano, / fatica e passione / in bella gara / e nel petto / un battito d’ansia al crepuscolo / che ristora. / A sera s’acquieta / vortice di clamori, / attimo di pace / dolce e lieve / in attesa di follie / nell’incanto della notte”:Le voci del giorno). Ma il tema della difformità non si congiunge solo al tema dell’armonia e del sacro. Per chi proviene dalla tradizione italiana, e dalla memoria del nostro rinascimento il “difforme” non è solamente il diverso, ciò che anima il gioco contrastivo del molteplice, ma più radicalmente il brutto. “Difforme” è ciò che è contrario alla “forma”, e dunque il “deforme”. Oltre all’ambito sociale del conflitto, e a quello religioso del peccato, il titolo del libro di Santese tocca dunque l’ambito estetico. Le “parvenze difformi” sono quelle che la poesia accoglie o dovrebbe accogliere facendosi – avrebbe detto Croce – non poesia: la poesia contemporanea rinuncia al sogno della purezza e diviene una poesia impura, mista a prosa, la cui forma  confina continuamente non solo col ‘deforme’ ma con l’informe’. Eppure, proprio a questo punto, Santese si ferma. Certo, il deforme sociale e spirituale è evocato dai suoi versi, talvolta con forza quasi brutale, come in Auschwitz, un’ora: “[...] Panni rigati ad aumentare / la secchezza di corpi / scarni in anime flebili, / case di legno, freddo acuto / e la barbarie spegne / il cielo nero in difetto di sole, /luce ridotta a lume di sepolcro / mentre cani raspano flici / di non essere uomini”. Ma il deforme in senso estetico resta all’esterno della poesia di Santese: una poesia che riesce a portare il peso del male, ma non quello del brutto, e non accetta mai di confondersi con la prosa. La deformità è così non solo rappresentata ma  dominata e vinta, e all’interno del verso passa un’alito di bellezza e di speranza – quella che una volta si chiamava ‘ispirazione’ – che si raffigura nei temi ricorrenti del volo e della leggerezza: “Banchine corrono veloci / rapite da sguardi curiosi, / approdi di anime stanche / in cerca di una vacanza leggera / dove sole senza nuvole / e ossigeno pieno colmano / i polmoni per un sospiro / lungo come l’attesa / di un incontro fortuito / e l’anima ha voglia / di star sola con la necessità / d’essere leggera leggera” (Leggera leggera). Non è poi tanto difficile, in fondo, liberarsi dalle deformità e difformità del reale. Cosa sono infatti? Non verità ma apparenze, fantasmi, illusioni, non diverse dai sogni che ci creiamo quando le dimentichiamo. La vita stessa, se considerata nella memoria, è un flusso di fantasmi, che si accavallano e che sciamano in modo confuso, senza rispettare i battiti degli orologi che noi cotruiamo nell’inutile tentativo di dare un ordine al nostro tempo: “La muffa penetra cuori / disposti al prelievo di memorie / in bauli zeppi d’adolescenza, / giochi, suoni e aromi emersi da cataste di cose / vissute in leggerezza / a lungo dimenticate. / Tornano volti e sorrisi, / parole e rimbrotti, / smorfie e cenni / e danno contorno / a epopee dell’anima. / Nel buio fitto di tabernacoli / chiusi all’abitudine, / rischiara l’amore / il moto che diventa / ancora realtà. / Soffio sulla polvere dell’orologio / che ricomincia a correre / in un ticchettio / senza norma”. Strumenti illusori di dominio della vita anche gli orologi sono prede del tempo, come tutte le altre apparenze che ci circondano e che continuamente fuggono, scompaiono e riappaiono attorno a noi. Giungiamo così all’altra parola del titolo: “Parvenze difformi”.  Di “parvenze” davvero è fatta la nostra vita. Non solo nel senso generico e tradizionale che ogni cosa è labile, ma nel senso attualissimo di una realtà sempre più virtuale, in cui all’apparenza non coicide una sostanza. Viviamo – come notava Baudrillard – non tra segni ma tra “simulacri”, come appunto suggeriscono i versi di Simulacri in cui parvenze diventano gli uomini stessi, e come confermano le parole che sigillano la raccolta (Telecomando): “Immaghini e parole evaporano / in riprese illuminate dall’intelligenza / d’abili manipolatori dell’ascolto. / Guardo e non vedo, / sento il brusio di voci / nell’anticamera del sonno / quando la palpebra diventa / serranda chiusa al solletico / di seduzioni visive”. Se Ulisse tornasse nel nostro mondo, le sirene cercherebbero di catturarlo non solo con i suoni ma con le immagini. I simulacri della realtà virtuale decretano infatti il trionfo dell’occhio  e fanno della parvenza visiva il primo strumento della seduzione e dell’inganno: “Nuovi nati vagiscono la speranza / di un cammino in sentieri percorsi / da filari stillanti di miele. / Dietro a foglie spesse e rugose / si celano spettri di demoni dispettosi / che li accompagnano / nel laghetto delle sirene. // Canti, suoni e luci, magie d’infinito / catturano i piccoli nel fuoco / di un’illusione senza fine, / ma bella come le serate d’agosto / dopo la pioggia mentre la sabbia evapora / nell’incanto di visioni attenuate / nei contorni da lineamenti lontani”. La bellezza delle parvenze è una strada che Santese segue volentieri, con le sue “magie solo pensate e pur vive” (Icone trasparenti). Proprio i fantasmi della realtà possono infatti offrire non solo una via di fuga dalle nostre disarmonie, ma anche i suggerimenti di una verità nascosta nell’oltre-terra: nelle magie del mare, o del cielo. Così torna l’immagine del volo (e a volo è vista anche Trieste) in cui tutto si fa inconsistente e leggero, come nell’alitare dei gabbiano e degli aquiloni: “Andiamo sicuri / seguiti da gabbiani / appesi ad ali tese, / aquiloni di piuma argento / piroettano nell’aria, / indici veri di vento / aggiunto a vento / come grido leggero / in garrulo coro di canti” (Aquiloni). Si capisce dunque perché il mare sia importante quanto il cielo. Se il cielo riduce la pesantezza delle cose a parvenza leggera, il mare la dissolve in mutevole riflesso, sicché l’uno e l’altro si fondono nell’unica realtà del Cielo-mare, con le sue “nuvole-onde”. La bellezza e la felicità diventano così miraggi brevi, come il gioco dei riflessi dell’acqua. Vivere tra le parvenze, insomma, non ha dunque solo un significato critico, negativo, ma in positivo significa imparare a godere dell’attimo, e della infinita varietà dei suoi Respiri brevi: “L’incanto dell’acqua / moltiplica scintille di felicità / ribollente in mille schiume, / richiuse al passaggio / e riaperte nella sequenza / di velieri accarezzati / da refoli intermittenti / che promettono respiri brevi / in cadenze sotto costa”. Che poi la parvenza possa essere anche una profezia, questo Santese lo suggerisce quasi di sfuggita, ma direi che è il punto sostanziale dell’intera sua raccolta, come rivela una tra le poesie che la chiudono, Attese vere: “La nostra voglia d’aurora / divora lentamente la notte / e d’ora in ora la spinge / in un’onda di felicità / dietro gli angoli di sogni / nati apposta per illuminare / la realtà di attese vere”. E viene in mente la definizione dantesca della fede: “Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi” (Paradiso XXIV, 64). Anche in Santese la “parvenze” indicano ciò che non appare ma che è. E allora, come si possono definire le sue “attese vere”, se non col nome sublime di fede?