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Gabriele D Annunzio

La politica adriatica di Gabriele D’Annunzio e l’impresa di Fiume

Protagonisti Giuseppe Parlato e Enrico Serventi Longhi, moderatore Giuseppe de Vergottini

“D’Annunzio aveva nella testa e nei progetti la politica adriatica, nel momento in cui compiva l’impresa di Fiume” è la domanda che Giuseppe de Vergottini affronta nel pieno del dibattito sulla questione posta all’ordine del giorno della tavola rotonda attorno alla figura del poeta soldato, inserita nell’ambito della Bancarella di Trieste.
Il prof. Giuseppe Parlato coglie la provocazione affermando che per D’Annunzio è esagerato porre il problema in questo modo. Era un poeta, con un profondo senso estetico. L’impresa fiumana non è solo azione militare, è anche sentimento umano. La sua azione è una rievocazione storica mitologia, che non ha niente a che fare con la geopolitica. Quando nel settembre del 1919 compie l’impresa di Fiume è convinto che l’Italia sarebbe subito insorta con l’intenzione di fare a Roma quello che si stava facendo a Fiume, ovvero che i politici interventisti si sarebbero sollevati; invece alle elezioni vincono i partiti neutralisti e l’utopia dannunziana ne esce sconfitta. Nella politica italiana la frontiera orientale è una questione presente, l’espansione verso est è una necessità geopolitica, ma principalmente geoeconomica. Filippo Carli – dice Parlato – afferma che si deve andare ad oriente, quando l’Italia va invece in Libia, perché è fondamentale aprire nuovi mercati. La stessa diplomazia italiana ritiene che l’alleanza con l’Austria nella Triplice sia foriera di un’espansione comune, non si guarda mai ad occidente. Difficile capire se questo fosse un lucido disegno o un sogno letterario, visto che ci fu una capillare espansione della Dante Alighieri in quel versante. Quando poi l’Austria sviluppò una sua strategia di intervento nei Balcani, allora emerse in tutta evidenza la contraddizione dell’alleanza con quel paese.
Si può parlare di emarginazione di D’Annunzio da parte di Mussolini o è in realtà una rottura vera e propria; il progetto politico del dittatore cozza con quello “estetico” del poeta. Questo è il vero motivo per cui Mussolini lo molla nella vicenda di Fiume. E’ questo l’abbozzo di analisi che de Vergottini offre, girando la questione ad Enrico Serventi Longhi.
Categorie come destra e sinistra avevano un altro significato da quello che siamo abituati a considerare, soprattutto nell’impresa di Fiume. C’erano invece un’anima militare e una sociale, ed erano forti i partiti che avevano fatto del neutralismo la loro azione. In compenso stava avviandosi una trasformazione e rigenerazione dell’essere umano, “palingenetica”, così è definita tecnicamente, e il soldato era colui che doveva assorbire e compiere la missione dell’Italia in questo contesto. L’interventismo fu visto come la continuazione di questo percorso di trasformazione sociale. Non ci devono essere più gerarchie fredde e rigorose, mentre nel mondo sindacale e sociale si sviluppava un bisogno etico di rivoluzione che D’Annunzio sentì e visse profondamente. Mussolini era già considerato vecchio e immobile. Coloro che andavano a Fiume – ha proseguito Serventi Longhi – per rivendicarne l’annessione alla monarchia italiana erano nazionalisti, non necessariamente fascisti. Molti dei legionari, i più rilevanti, dopo Fiume non cessarono la loro azione ed entrarono nel fascismo, come organizzatori del movimento. Ed è questo il passaggio che produce la militarizzazione del fascismo. Il ritmo partì da lì. Questo movimento sopravvisse trasmettendo “Fiume” dentro il fascismo come modalità di fare politica. Nel mondo del lavoro i sindacalisti portarono il corporativismo della città quarnerina nel fascismo, rinunciando in parte alle aspirazioni da cui partivano; il corporativismo finì infatti completamente sotto il governo dello Stato, perdendo i contenuti di libere aggregazioni.
Fiume e la Carta del Carnaro, aggiunge Parlato, si inseriscono in un processo più ampio di ricerca dell’alternativa a capitalismo e comunismo: pensiamo alla democrazia tedesca che fa saltare l’idea di Marx con il riconoscimento della società borghese, mentre il mondo cattolico porta avanti la sussidiarietà.
Cosa resta di attuale e valido del ruolo di D’Annnunzio e della sua impresa fiumana, chiede de Vergottini a Serventi Longhi. Nell’Europa attuale serpeggiano logiche che cercano il superamento della politica degli interessi economici, che altrimenti rischia di portare indietro interessi e diritti più specifici del popolo. Questo idee sono nello spirito del D’Annunzio di Fiume – aggiunge Parlato. Tra il ’29 e il ’60 si sviluppò in Europa lo stato sociale, l’idea che il progresso industriale non fosse cioè disgiunto dalla questione del lavoro, per permettere lo sviluppo economico. Il welfare diventò centrale. Fu questo il lascito maggiore dell’impresa di Fiume e della Carta del Carnaro, la cui scia arriva fino a noi, nel momento in cui proprio la perdita di rappresentatività del mondo del lavoro rischia di essere uno dei motivi principali della crisi.

L’Osservatore Adriatico