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L’esilio in Friuli, il racconto: «Siamo fuggiti dall’Istria, qui la diffidenza di chi non ci amava»

Gli esuli erano etichettati come rumorosi: «I cantava a vose alta». Secondo alcune testimonianze, ci fu la volontà politica d’insabbiare queste scomode vicende.

Passeggio tra le lapidi del cimitero di Roveredo in Piano. L’aria è gelida e sono da solo. «Se vuoi conoscere la storia di un paese devi andare nei campi santi», mi diceva sempre mio padre da piccolo. C’è silenzio. Negli anni immediatamente successivi al Memorandum di Londra del 1954 in questo comune arrivarono decine di famiglie istriane, che con l’esodo avevano abbandonato la loro terra natìa. Cognomi come Giugovaz, Ladich, Cociancich, Ruzzier, Visintin, Vesnaver e ancora Tomizza, Radin, Muscovich, Coronica e Bosdachin, solo per citarne alcuni. Sono sepolti qui, dopo aver vissuto lo sradicamento dall’Istria ed l’esser stati costretti a ripartire da un’altra parte.

Chiedo a una signora alcune informazioni. Non ha molta voglia di parlare, forse è venuta a trovare qualcuno e comprensibilmente vuole restarsene in silenzio. Continuo a osservare le tombe, cerco di capire cosa potesse significare il dover lasciare tutto e ritrovarsi a vivere una terra diversa da quella istriana. «Inizialmente la diffidenza era tanta», commenta così Silvano Varin,Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Pordenone e esule da Cittanova. «Gli abbracci non c’erano, la gente non ci vedeva di buon occhio. Noi credevamo di aver diritto all’accoglienza ed invece la situazione era molto più complessa» guardando il calice di Malvasia che Corrado Sferco nel frattempo gli ha versato. Il padre di Corrado era giunto qui da Giurizzani, il paese natale di quel Fulvio Tomizza che aveva inaugurato questa osteria nel 1990.

«Gli istriani erano anche etichettati come rumorosi», sorride Sferco. «Tutt’attorno c’erano delle trattorie che venivano frequentate dagli esuli. Un bicchiere dopo l’altro, i cantava a vose alta con i gestori che non erano abituati a fare le ore piccole».

Silvano Varin arrivò a Trieste e la sua prima destinazione fu l’ex caserma Chiarle nel rione di San Giovanni. «Vi rimasi diciassette giorni e poi fummo trasferiti a Villa Carsia a Opicina. Ci sistemarono nel cinema, con le coperte appese a dividere i nuclei famigliari. Solamente negli anni sessanta giunsi qui nel pordenonese».

L’entrata dell’osteria da Sferco – chiamata La casa col mandorlo, come il libro di Tomizza – sembra una bottega ordinata. Ci sono stemmi della Triestina, libri sull’Istria come l’Alberi, le mappe geografiche del comune di Umago, il Pelinkovac, una bandiera di Trieste asburgica. La dilatazione del tempo è reale, le lacrime non si versano più, o non come un tempo.

L’abuso di termini quali identità e memoria non sempre è stato terapeutico per questo popolo. La volontà politica di insabbiare le vicende degli esuli ha fatto sì che non se ne volesse parlare; dall’altro lato, l’utilizzazione dell’esodo quale strumento elettorale ha trasformato le comunità istriane in un naturale bacino di voti. Chi ne subì fu sempre la gente. Oggi sono passati settant’anni dalla firma del Trattato di Parigi. «Il rapporto con il sentirsi istriani è molto forte», mi racconta Flavia Maraston. «Mio padre ne ha sempre parlato in casa ed io sono cresciuta con questo sentimento. Se riusciremo a far riconoscere del tutto queste nostre vicende come appartenenti alla cultura italiana allora, quel giorno, avremo fatto pace con la Storia».

Nel 1960 gli esuli fondarono la Cooperativa Agricola Sociale a Roveredo. Quando giunsero alle Villotte si sentirono spesso ripetere che l’Italia gli aveva “regalato” le case e la terra. Roberto Bessich ai Tornielli mi fa vedere l’impegno di compravendita dei terreni. «L’Ente Tre Venezie cedette per oltre 400 mila lire il podere a mio nonno che estinse il mutuo appena negli anni Ottanta. Non ci fu alcun privilegio». Il disdicevole chiacchiericcio sui vantaggi riservati agli esuli si dimostrò ingannevole e maligno. Persa la loro terra, gli istriani avevano dovuto ricomprarsela da un’altra parte.

Il Messaggero Veneto, 15 gennaio 2017