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PlaninaBala

23–25 marzo 1944: la storia di Malga Bala

di Antonio Russo

 Dino Perpignano, vice brigadiere, comandante, di Sommacampagna (Verona), nato il 21 agosto 1921 – Primo Amenici, di Santa Margherita d’Adige (Padova), nato il 5 settembre 1905 – Domenico Dal Vecchio, di Refrontolo (Treviso, nato il 18 ottobre 1924)  – Fernando Ferretti, di San Martino in Rio (Reggio Emilia), nato il 4 luglio 1920 – Lindo Bertogli, di Càsola di Montefiorino (Modena), nato il 19 marzo 1921 – Michele Castellano, di Rocchetta Sant’Antonio (Foggia), nato l’11 novembre 1910 – Attilio Franzan, di Isola Vicentina (Vicenza) nato il 9 ottobre 1913 – Rodolfo Colzi, di Signa (Firenze), nato il 3 febbraio 1920 – Adelmino Zilio, di Prozzolo di Camponogara (Venezia), nato il 15 giugno 1921 – Pasquale Ruggiero, di Airola (Benevento), nato il 11 febbraio 1924 – Pietro Tognazzo, di Pontevigodarzere (Padova), nato il 30 giugno 1912– Antonio Ferro, di Rosolina (Rovigo), nato il 16 febbraio 1923.

Sono i nomi dei 12 Carabinieri massacrati a Malga Bala, in Slovenia, sopra la Val Bausiza, nel circondario di Bovec (quella volta Plezzo), sabato mattina 25 marzo 1944, solo perché italiani.

Erano stati scelti dalle caserme della Tenenza di Tarvisio e della Compagnia di Tolmezzo, da cui dipendeva Tarvisio. Erano lì, da alcune settimane, a difesa della centralina idroelettrica che forniva corrente ai paesi del circondario e soprattutto alla miniera di Cave. Tutto il territorio, pur italiano, era del tutto germanizzato dall’occupazione nazista, che aveva trasformato questa zona in una semplice appendice germanica, dove vigevano e imperavano solo ed esclusivamente le aquile tedesche

Erano stati catturati, quei Carabinieri in servizio alla centralina, con l’inganno la sera del giovedì precedente, 23 marzo, festa nazionale in quanto anniversario del Venticinquesimo di  fondazione dei Fasci. Costretti a prendere sulle proprie spalle quanto esistente nella piccola caserma situata sul piazzale antistante la centrale idroelettrica di Bretto Inferiore, erano stati obbligati ad arrampicarsi coi loro aguzzini fin sulla cima del monte Izgora, dove avevano dovuto trascorrere, all’addiaccio, la notte tra giovedì e venerdì, una notte gelata e stellata. Poi la discesa in Bausiza, mentre occhi lucidi di gente semplice seguiva ogni passo dalle proprie case. La sosta in uno stavolo, un pò di acqua e la ripresa del cammino fino all’interno della Bausiza. In serata il trasferimento, sempre a piedi e sempre sotto scorta armata, fino al pianoro di Logje, verso la Bala. Chiusi dall’esterno nel fienile, fu loro dato per cena pastone avvelenato con soda caustica, varichina e sale nero appositamente preparato dalle donne della famiglia di Lojs Kravanja. Una notte terribile, come la si può immaginare. La mattina dopo, sabato 25 marzo, la ripresa del cammino verso la Malga Bala, il luogo prescelto dai partigiani bolscevichi di Tito, tutti della zona di Bretto, Plezzo, Zaga e Caporetto, capeggiati da Franç Ursic, nome di battaglia Josko, coadiuvati da Silvo Gianfrate, originario di Foggia, Ivan Likar,  detto Socian, già operaio in miniera a Cave  e dal commissario politico del territorio Lojs Hrovat, di Plezzo. In tutto 22 partigiani. Da sottolineare che in periodo di guerra il vero comandante di un territorio non era e non è l’ufficiale più alto in grado bensì il commissario politico di quella zona e di quel raggruppamento. Nulla si fa senza il suo benestare! Il piano era stato studiato fin nei minimi particolari da Socian e approvato dai suoi compari di macchia. Erano i Carabinieri e solo i Carabinieri i veri rappresentati dell’Italia e quindi la loro vendetta doveva colpire proprio loro, per una vendetta atroce contro l’odiato nemico di sempre, l’Italia. Avrebbero potuto vendicarsi sui Finanzieri, sugli Alpini, sulla Milizia; no, il loro obiettivo era stato individuato proprio nei Carabinieri, gli unici che quella volta come adesso rappresentavano e rappresentano  l’Italia e il governo italiano più degli altri reparti in armi italiani. Ed era stato scelto proprio quel giorno di festa, il 23 marzo 1944, per l’attuazione di quel crimine che avrebbe lavato col sangue il loro profondo odio contro gli Italiani. Se avessero voluto vendicarsi uccidendo i Carabinieri, lo avrebbero potuto fare in qualsiasi momento dall’istante della cattura; invece no, i prigionieri dovevano essere portati fin sulla Malga e lì, in quell’immenso silenzio, tra rocce e cime innevate, sacrificarli sull’altare dell’odio.

Del tutto false e infondate le tesi di alcuni giornalisti o studiosi triestini, chiaramente di ideologie estremiste comuniste e spiccatamente di tendenza slovena, ma non si capisce perché continuano a vivere in Italia avendo il cuore oltre confine, che continuano ad affermare contro ogni evidenza che la “strage di Malga Bala” non c’è mai stata e che il tutto è pura invenzione di chi da anni e anni ha dato alle stampe edizione dopo edizione la vera storia di Malga Bala, frutto di centinaia e centinaia di interviste di diretti interessati, partigiani in primis.  Tra partigiani e Carabinieri non ci fu alcuno scontro armato. Il vero filo conduttore del tutto era l’odio covato fin nel profondo del cuore da questi partigiani comunisti di Tito nei riguardi dell’Italia, nemica da sempre e in particolare da quando il Fascismo italiano aveva imposto le proprie leggi. Il loro, quello dei partigiani, fu puro atto di vendetta atroce contro poveri innocenti inermi, i quali furono tenuti in vita per tre giorni solo per aumentarne le ansie, le aspettative, le sofferenze, diversamente non sarebbero stati preventivamente avvelenati, fino al sacrificio terribile e disumano sulla Malga Bala, in perfetto silenzio montano, come da programma ideato da Likar Socian di Bretto di Sotto e attuato da quei partigiani sloveni assetati di sangue e di vendetta. Non fu un semplice atto di guerra, come sostengono alcuni, se volevano, i partigiani, eliminare i Carabinieri, lo avrebbero fatto subito dopo la loro cattura o durante la loro cattura, nel far saltare in aria la caserma della centralina di Bretto.

Giunti in Malga, i Carabinieri furono rinchiusi nella stanzetta della stagionatura dei formaggi e, uno alla volta, spogliati, accaprettati con filo di ferro, costretti nel piccolo cucinino della Malga e affrontati col piccone. Finire un prigioniero o un avversario col piccone era un sistema in uso nel mondo comunista in segno di estremo dispregio verso il nemico, di umiliazione totale, di annientamento della sua dignità e personalità. Così a Malga Bala. Il comandante Perpignano intanto era stato uncinato a testa in giù a una trave della stanza e preso continuamente a calci nella testa, con le formiche attratte dal sangue che cercavano un pasto finalmente appagante. Sventrati, evirati, maciullati, singolarmente, subito dopo Lojs Kravanja e Bepi Flais tiravano il corpo maciullato del malcapitato fin sotto un grosso sasso nelle vicinanze e la mattanza ricominciava con un nuovo prigioniero. Poi, finita la carneficina, mentre ricominciava a nevicare, i 22 eroici attivisti del comunismo di Tito, se ne discesero intavolando nei giorni successivi, nel tentativo di “purificare” la propria immagine, la teoria che a commettere quella strage fossero stati proprio  i tedeschi per riversare poi, malignamente, la colpa su quei poveri innocenti partigiani  del tutto ignari dell’accaduto.

Questa, in poche parole, la vera storia di Malga Bala, rimandando, per chi è seriamente interessato, alla lettura dei vari libri di storia di Antonio Russo e in particolare di Planina Bala, edizione 2011 o edizioni precedenti, di questo stesso autore. Tutto il resto è pura fantasia, è cercare di aggrapparsi agli specchi, quelli della cattiveria e del non voler vedere la realtà, intenzionalmente, per motivi etnici o politici. Nessuno di noi può o deve modificare un avvenimento storico; lo si può interpretare, vedere da angolazioni particolari come quando si osserva un quadro, ma la realtà, quella vera, non la si può assolutamente scalfire, piaccia o no. Né si possono aggiungere particolari scabrosi del tutto infondati come ha fatto quel maresciallo dei carabinieri  di Brescia coi suoi associati affermando che i Carabinieri prima di essere massacrati sono stati  sodomizzati e “sessualmente violentati”. Falso. I partigiani in quei momenti non erano travolti da istinti particolari se non quelli dell’odio contro di loro e contro gli italiani. Neanche le affermazioni completamente fuori ogni logica di quell’altro pseudo giornalista della zona di Rovigo, del tutto di parte e di estrema sinistra, che condanna i Carabinieri di Malga Bala elogiando i partigiani comunisti di Tito in quanto questi ultimi avrebbero agito più che bene, essendo gli italiani “repubblichini” sotto ogni aspetto. Baggianate di chi dorme al caldo e mangia a sazietà spudorata. In quel periodo essere “repubblichini” è come oggi essere “comunisti” o “cattolici” o “non cattolici”: sono, questi, atteggiamenti naturali, di vita, di comodo, non di scelta ponderata. Intanto i Carabinieri maciullati a Malga Bala non erano repubblichini come li si intende oggi a tanti anni di distanza e fuori da ogni mischia, ben seduti davanti a una scrivania; essi, i Carabinieri, erano stati naturalmente assegnati a quel reparto e a quegli incarichi, senza essere minimamente interpellati. Prima di giudicare dall’alto della propria scienza è necessario mettersi in quei giorni e in quei panni;  emettere poi sentenze così offensive e devastanti, illogiche  e senza alcun senso,  condividere positivamente l’operato di “quei” partigiani… beh, basta solo questo per annullare ogni altra riflessione al riguardo.

In quel periodo, è giusto ricordarlo, questo territorio dell’Alto Friuli era a tutti gli effetti territorio germanico e a nessuno era permesso “scegliere” o “opporsi“ o “agire contro corrente”. Di conseguenza, ogni altra considerazione è del tutto fuori luogo, specie se fatta oggi senza trasferirsi almeno mentalmente a quel periodo.

“Come foglie al vento”, “Alle porte dell’inferno”, “Planina Bala” nelle varie edizioni e ristampe, la storia dettagliata della strage di Malga Bala consacrata poi in “L’ultimo parroco di montagna” e “Dal Buric a Chiout Zuquìn, da Saps a Patocco ecc.” e in altri volumi , frutto di accurate ricerche, meticolose, mai confutate o contestate da chicchessia, in Italia e all’estero, ricerche pericolose al di sopra di ogni immaginazione, con centinaia e centinaia di interviste anche ai diretti interessati, partigiani viventi compresi, registratore ben aperto e funzionante sul tavolo,…: sono la documentazione storica di quanto avvenuto nell’Alto Friuli e in particolare a Malga Bala, frutto di passione e di caparbietà storica e giornalistica di Antonio Russo. Nessun altro, in particolare quel maresciallo di Brescia tanto decantato da alcuni ciechi tarvisiani improvvisati giornalisti o storici o critici o politici dalle diverse calzature e giacche, a seconda dell’occasione, possono vantarsi o accollarsi meriti che non hanno mai guadagnato. Non per altro e solo per questo nel luglio del 2010, dopo il conferimento alla memoria della medaglia d’oro al valor civile ai Martiri di Malga Bala da parte dello Stato Italiano, il sottoscritto è stato invitato, ricevuto e onorato oltre che premiato al Comando generale dell’Arma dei Carabinieri a Roma, alla presenza dello Stato Maggiore dell’Arma capeggiato dal generale Leonardo Gallitelli.

Una vicenda strana questa dei 12 Martiri di Malga Bala, prima del tutto dimenticata, dalle istituzioni e dalle divise, tenuta nascosta quasi fosse una vicenda di cui vergognarsi; poi ognuno ha cercato o sta cercando di cavalcare la loro triste storia finale per scopi propagandistici o di accaparramento esclusivista.

Inginocchiamoci invece sulle loro tombe e sui loro ricordi, in silenzio, unitamente ai loro familiari che solo grazie a “Planina Bala” e agli altri volumi di Antonio Russo hanno appreso finalmente della triste fine dei loro congiunti. Sono Martiri, Carabinieri, sacrificati dall’odio e dalla vendetta solo perché italiani. E preghiamo Iddio che fatti del genere non si ripetano, anche se le condizioni storiche e sociali sono sempre quelle, purtroppo, se non peggiori!