Un modello di sfruttamento delle acqua dall'Isontino all'Istria
Autore: Rosanna Turcinovich Giuricin
Gli scrittori inglesi di fine Ottocento e primo Novecento hanno impiegato il loro talento per descrivere fin nei minimi particolari l’attesa della pioggia nell’India dei Monsoni. Il montare della tensione, lo stretto legame tra la vita e l’acqua che diventa espressione stessa della divinità. Senza sapere, che proprio in quegli anni, l’industrializzazione e l’emissione nell’aria di enormi quantità di anidride carbonica avrebbero contribuito nel giro di un secolo al mutamento del clima. A portare la medesima tensione d’attesa della pioggia anche in un mondo piovoso, con clima mite, come l’Europa mediterranea. Sono scene di questi giorni, l’afa che rende irrespirabile l’aria, il desiderio di attendere la pioggia a bocca ed occhi spalancati, come fosse…una divinità. Stranezze del nostro secolo? Tutto molto logico per la scienza, per chi studia questi fenomeni, per chi spende la propria vita a lanciare segnali importanti per lo sviluppo e la soluzione dei problemi del quotidiano. Daniel Nieto Yabar dell’Istituto Nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (OGS) di Trieste è uno dei tanti scienziati impegnati a studiare i fenomeni, a darne una spiegazione a suggerire le soluzioni. La sua specialità è l’idrografia. Tutti ad attendere la pioggia ma, professor Nieto, basterà, può bastare a risolvere il problema della siccità che ci ha tormentati quest’estate anche lungo l’Adriatico? “Uno dei problemi maggiori legati all’acqua è la sua gestione. Fino a vent’anni fa era il caos, lo sfruttamento dei corsi d’acqua mutava con i confini, anche regionali, rispondendo ad interessi immediati, senza una programmazione precisa. Per fortuna con la Direttiva europea 2000/60 è stata uniformata tale gestione dalla fonte alla foce permettendo una proiezioni di sfruttamento e sviluppo armonioso rispondendo a tre principi fondamentali: la quantità a disposizione, la qualità e la sostenibilità”. Lei è a capo di diversi progetti europei, quale il ruolo del suo Istituto in questo campo? “Stiamo elaborando dei modelli di ricarica artificiale delle falde per permettere a realtà come l’Isontino – che diventa un modello universale – di farne un uso ragionato senza sorprese di carattere climatico. Si tratta di un modello applicabile ovunque esistano le medesime caratteristiche geofisiche, in Istria per esempio”. Perché fa tanta paura l’impoverimento dei fiumi e dei laghi? “L’acqua che arriva al mare impedisce la salinizzazione della costa, significa che se il cono d’acqua dolce che penetra e frena quella salata è sufficiente, non ci sarà penetrazione di acqua salina nei terreni coltivabili che altrimenti diventerebbero aridi. Per far questo la portata di acqua dolce verso il mare non deve scendere sotto detrminati limiti. Da qui l’importanza di monitorare e mantenere attive le falde, anche con l’immissione di acqua in vari modi che fa parte della moderna gestione del problema. Con il progetto europeo CAMI che coinvolge anche la Slovenia procediamo alla conoscenza approfondita delle risorse idriche per cercare di migliorare il processo di caratterizzazione degli acquiferi e fungere così da supporto all’individuazione delle opere di tutela qualitativa e quantitativa delle acque sotterranee, fonte primaria di approvvigionamento idrico sia potabile sia produttivo”. Non basta per tanto che piova per ristabilire un giusto ed accettabile equilibrio? “Direi proprio di no. Anzi, speriamo non arrivino piogge torrenziali che su un terreno ormai così secco, quasi impermeabile, non farebbero che dilavare l’humus impoverendo le superfici coltivabili”. Che cosa si può fare? “Ci vuole maggiore educazione e consapevolezza: influire sui consumi e gli sprechi – l’80 per cento del consumo idrico è nell’agricoltura, il restante 20 per cento riguarda l’industria ed i consumi della popolazione – diminuire l’inquinamento che rende inaccessibili le fonti idriche, influire sull’immissione di anidride carbonica che porta a cambiamenti climatici evidenti ed infine combattere l’uso competitivo delle risorse idriche con politiche adeguate. Fondamentale l’educazione, che deve iniziare dalle scuole. Noi partecipiamo volentieri ai progetti degli insegnanti, incontriamo volentieri le scolaresche per spiegar loro con libri adatti e filmati che cosa rappresenta l’acqua nella nostra realtà e come difendere un bene prezioso”. Scienza e società procedono ancora in parallelo? “In molte situazioni sì. Ecco perché i progetti europei sono fondamentali, agganciati ad una normativa specifica che mette finalmente in relazione il mondo scientifico con quello economico-sociale”. Lei ha fatto parte anche della spedizione italiana in Antartide. Perché è così importante? “Perché nei carotaggi si può studiare l’evoluzione della terra nei secoli, anche in tempi recenti e valutare l’impatto del vivere civile con l’ambiente. L’inquinamento lì ci fornisce risposte scientifiche inequivocabili”. Prof. Nieto, lei è nato in Perù, perché ha scelto Trieste come destinazione del suo impegno scientifico? “Sono nato a Cuzco e cresciuto a Lima. Vicino a casa mia viveva una comunità di istriani che ho frequentato per tanto tempo, ecco perché quando a 17 anni dovetti decidere di lasciare il mio Paese , la destinazione più familiare era Trieste. Qui ho studiato ed ho continuato a vivere e lavorare”. E la collaborazione col Perù? “Stranamente è l’unico Paese col quale non sono riuscito a concretizzare dei progetti. Nemo profeta di Patria, recita il detto. In compenso durante i miei studi sui magredi, nella zona di Montereale Valcellina, mi sono trovato immerso, ancora una volta, in una comunità istriana di esuli. Che l’Istria sia nel mio destino?”.