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2006: Una giornata a Savigliano con Bernardo Gissi

Bernardo Gissi

“
La vicenda degli esuli sia parte integrante della storia italiana”

Autore: Rosanna Turcinovich Giuricin

SAVIGLIANO – Savigliano, giornata d’autunno, una leggera nebbia avvolge le case e le piazze, la gente s’incontra sotto i portici, al riparo. “Sì, il clima è umido, in compenso qui non si conosce il vento”. Il tono di voce è sicuro ma un guizzo degli occhi tradisce altri pensieri. A Pola, la città di Bernardo Gissi, la nebbia è una rarità mentre il maestrale d’estate e la bora d’inverno impongono precisi ritmi di vita. Meglio non pensarci…
Si ragiona di banche, Gissi ci ha trascorso la vita lavorativa, oltre ad occuparsi con lo stesso impegno anche di associazionismo, in particolare quello legato alla vita degli esuli. Parlarne significa affondare nella storia vera e propria del popolo giuliano-dalmato e non solo, perché Gissi è stato ed è protagonista indiscusso di questa realtà da sempre, per cui testimone di tutto ciò che ha preceduto l’attuale interesse per le tematiche della vicenda dell’Adriatico orientale. Con la Giornata del Ricordo, parlare di esodo e foibe diventa quasi un dovere, ma cosa significava essere un rappresentante di questo popolo quando l’indifferenza della nazione era pane quotidiano? E come nasce il suo impegno?
Affondati nelle poltrone del suo salotto, la mattinata trascorre veloce in un racconto emblematico che suggella il nostro incontro.
“Sono nato a Stignano già Ategnano fondata da Roma ed ho vissuto tutta la mia giovinezza in questo paese che dista 3,5 km da Pola, la città capoluogo di provincia di tutta l’Istria”. Che ragazzo era Bernardo Gissi? “Un ragazzo molto indaffarato perché aiutavo mio padre con il negozio ed il ristorante. Ciò comportava l’inevitabile rinuncia a stare con gli amici e mentre loro giocavano a pallone o andavano al mare, io dovevo concentrarmi anche sullo studio. A Stignano avevo frequentato la scuola fino alla terza elementare, poi, avevo proseguito a Pola. Raggiungevo la scuola a piedi, ogni giorno, solo prima di diplomarmi e diventare ragioniere riuscì ad avere una bicicletta”. La sua era una tipica famiglia istriana? “Direi di sì. Mia mamma veniva da Barbana, mentre mio papà era di una cittadina al centro dell’Istria. Giovani sposi avevano scelto di abitare a Stignano che è vicino al mare ed alla città, e lì siamo nati tutti, io sono il terzo figlio maschio, prima di noi sono nate delle femmine delle quali due sono morte in Austria – dove gli istriani erano stati internati durante la prima guerra mondiale - a causa della Spagnola. La famiglia si è ricomposta quando mio papà è ritornato dalla Russia dove era stato fatto prigioniero come soldato austriaco. Conseguito il diploma, ho lavorato presso il Ministero dell’Agricoltura di allora. Intanto a Pola erano arrivati gli inglesi e gli americani a creare un’enclave alla quale si arrivava solo via mare in quanto l’entroterra era ormai tutto occupato dagli slavi”. Come si viveva a Pola in quegli anni?
“Si viveva male in quanto la città aveva perso il suo entroterra, i collegamenti erano ridotti, c’era un traghetto che faceva la spola tra Pola e Trieste due volte la settimana”. Lei scrutava il tutto da un punto d’osservazione privilegiato… “È vero, per due anni ho fatto l’annunciatore alla radio in lingua serbo-croata in quanto da giovane l’avevo studiata”. Quali erano le riflessioni e le speranze per il futuro della città? Che cosa auspicavate? Che cosa si temeva? “La speranza era che l’Istria rimanesse italiana. Era difficile accettare l’idea che una città così bella e così importante potesse essere ceduta, e la speranza, d’altronde, era alimentata dalla presenza degli angloamericani, ma evidentemente per loro Pola era un termine logistico. Dopo il trattato del ’47 fu chiaro che la nostra unica decisione si sarebbe limitata all’andarsene o restare. La stragrande maggioranza decise la via dell’esilio”. Anche lei… perché? “Avevo alle spalle un episodio determinante: nel 1945 venni fatto prigioniero e condotto a piedi da Pola fino a Sušak, da lì giù lungo la costa fino a Crikvenica dove fui destinato ai lavori forzati. Ma poco dopo ci ordinarono di riprendere la marcia, questa volta fino a Sisak, una città sulla confluenza di tre fiumi tra i quali la Sava, ad una trentina di chilometri da Zagabria, insieme ad altri prigionieri tedeschi ed italiani. Ne morirono a migliaia per la fatica e gli stenti, per chi continuava a resistere la speranza di tornare a casa era un pensiero vano: eravamo senza cibo, ogni tanto distribuivano dell’acqua calda nella quale era stata fatta bollire qualche cipolla”.
Con che motivazione era stato imprigionato?
“Siccome mi ero dichiarato studente già iscritto all’Università di Trieste, mi dissero che avrei dovuto frequentare un corso di aggiornamento in lingua serbo-croata e con questa scusa fui deportato. Per tanti altri… non si sa che fine abbiano fatto, forse fatti precipitare nelle foibe, molti finirono nei campi di concentramento, altri morirono durante le marce forzate. Ricordo che nei pressi di Karlovac incrociammo una colonna di forzati come noi, tra loro riconobbi alcuni amici che non avrei più rivisto. Arrivati a Sisak, ci sistemarono in una fabbrica di vetro che aveva ripreso la produzione dopo essere stata un campo di concentramento. Il comandante del campo, valutate le nostre condizioni, ci chiamò uno ad uno e ci consegnò un foglio di via che ancora conservo. Potevamo tornare a casa”. Come spiega questo comportamento? “Era il ’45, con questa ed altre marce dove erano morti tanti prigionieri, gli jugoslavi avevano dimostrato di aver vinto la guerra. Ma noi, seppur liberati non sapevamo come tornare a casa, non potevamo avventurarci sulla via del ritorno scalzi e nudi, raggiungemmo alla meno peggio Zagabria nella speranza di prendere un treno. Raggiunta la città con mezzi di fortuna, mi ricordai che in un rione abitavano diversi istriani fuoriusciti ai tempi del fascismo: trovati ci hanno aiutati a ripartire. Il viaggio in treno fu interminabile e ancora più angosciose le ore che ci tennero fermi ad una stazione prima di Pola per sottoporci ai controlli. In quel momento temetti veramente di non rivedere l’Arena. Poi, il treno, lentamente è ripartito e siamo arrivati in stazione”. Quanti eravate? “Eravamo in sette, sconvolti e ancora increduli di avercela fatta. Le nostre condizioni erano pessime, i medici angloamericani ci prestarono le prime cure. Dopo qualche mese quello che avevamo sopportato cominciò a ricomporsi e ci rendemmo conto di quanto avevamo rischiato, la morte ci aveva sfiorati tante volte. Ora dovevamo riprendere a vivere, in Italia intanto si festeggiava la Liberazione, ma noi ci sentivamo depressi: sapevamo che prima o poi saremmo dovuti andare via. Intanto ripresi il mio lavoro alla radio Pola gestita dagli angloamericani che trasmetteva in italiano ed in serbo-croato”. Qual è stato il suo rapporto con il CNL? “All’inizio era legato all’idea di difendere l’italianità delle nostre terre. Però l’occupazione immediata da parte degli jugoslavi ci fece capire che l’Istria era terra di conquista e che la loro lotta non era solo per la liberazione dai tedeschi e dal fascismo, e ci siamo sciolti”. Nel febbraio del ’47 decide di lasciare l’Istria. Con che animo lasciava Pola; sentiva che sarebbe stato per sempre o c’era la speranza di tornare? “Tutti speravano di tornare; difatti la maggior parte dei polesani si fermò dalle parti del Veneto convinti prima o poi di riprendere la via di casa. Al terzo viaggio della nave Toscana decisi di partire e raggiunsi il Piemonte ma era difficile trovare una sistemazione nell’Italia del dopoguerra, mi adattai a diversi lavori come manovale e camionista. A Pola c’era sempre il mio posto alla radio, così, ad un certo punto, tornai sui miei passi. Non lo so cosa credevo di trovare… mi sono presentato alla stazione radio, il comandante fu ben lieto di rivedermi e ripresi a lavorare lì. Eravamo in pochi. Imbarazzati dai silenzi della città, depressi. Quando venne firmato il trattato di pace da De Gasperi eravamo lì a chiederci se fosse giusto quanto stava succedendo. Poi, ancora una volta sulla via dell’esodo, raggiunsi Cuneo dove c’era mio cognato, poi ancora mi spostai a Savigliano dove avevo vinto un concorso alla Cassa di Risparmio come ragioniere e così sono entrato in banca nel gennaio del ’49”. La sua militanza all’interno dell’associazione degli esuli, da che motivazioni nasceva? “Erano sorti in quegli anni dei comitati provinciali dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Mio suocero, Antonio Guarnieri, era presidente di quello locale, impegnato nell’assistenza ai profughi, attività che ha continuato finché è rimasto in vita. Ricordo che, quando arrivavano i pacchi dalla Pontificia Assistenza, con una macchina presa a noleggio, li portavo nelle cittadine del Cuneese dove erano concentrati gli esuli ex dipendenti dello Stato. I comitati decisero di organizzare anche i primi raduni dove diventavano protagoniste le nostre tradizioni: i cori, i riti che scandivano la nostra vita, gli usi”. Finita la prima spinta propulsiva di carattere assistenziale all’interno delle associazioni, l’impegno è mutato? “Abbiamo cominciato a focalizzare le nostre richieste: prima fra tutte quella sui beni abbandonati, che erano stati ingiustamente usati per pagare i danni di guerra alla Jugoslavia. Per tanto eravamo creditori nei confronti dello Stato italiano. Il problema degli indennizzi, sempre aperto, ha finito per diventare un punto di contatto stabile tra noi esuli, con continui scambi di opinione ed i primi incontri anche con i partiti, in particolare con la DC. Eravamo convinti che fosse lo schieramento più propenso ad appoggiarci nelle nostre richieste. Quando divenni direttore di banca, con più spazio di manovra, mi rivolsi agli alti livelli e riuscii a trovar lavoro e casa per tanta nostra gente. Eravamo 500 famiglie circa, in una provincia fortunatamente ricca, anche se non con la vocazione industriale; per questo c’era Torino con la Fiat che ha assunto tanta nostra gente. Quindi c’è stata comprensione ed aiuto, ma non sui beni abbandonati e gli indennizzi”.
In che momento avete preso coscienza del fatto che le radici e la cultura di un popolo stavano per essere cancellate?
“Da subito, e da questa consapevolezza nascevano gli incontri, i dibattiti, si scrivevano libri. Ho fatto diverse conferenze nelle scuole proprio per tenere vivo un discorso che era emarginato dalla nazione con il beneplacito dei partiti per non urtare le relazioni internazionali. Dovevamo sfatare i luoghi comuni: far capire che non eravamo fuggiti in quanto fascisti, in fondo tra noi esuli c’erano antifascisti e membri del CLN”. Cosa vorrebbe che rimanesse all’Italia di questa vostra storia? “Che non rimanga solo una storia da scrivere ed affidare ai libri, ma che sia una storia da conoscere come parte di quella italiana”. Che tipo di rapporto spera si possa sviluppare tra voi, i vostri figli e nipoti con le terre di provenienza? “I miei figli conoscono la nostra storia ed anche i tempi sono mutati, tutto diventa più facile. L’unico handicap ora è la lontananza: questi 750 km che pesano perché i collegamenti non sono veloci. E poi loro vorrebbero contatti diversi, non si accontentano di visitare le nostre città, vorrebbero incontrare la gente”. È scesa quasi la sera diradando la nebbia. Ci avviamo verso i campi da golf che sono la nuova passione della gente del luogo e del circondario. Non lontano hanno costruito moderne piscine, nei ristoranti i piatti tipici sono un trionfo di tradizione e modernità. La gente passa e saluta Bernardo Gissi, gli uomini si tolgono il cappello.
“Qui si vive bene – ci dice – ma i giovani preferiscono spostarsi nelle grandi città, molti vanno all’estero, meno male che c’è Internet”.