Autore: Rosanna Turcinovich Giuricin
La incontriamo a Roma nel bar del Salone Margherita, il famoso Bagaglino, a pochi passi da P.zza di Spagna. Anna Maria Mori la riconoscono tutti e la salutano, chiedono notizie del suo nuovo libro, commentano quelli già letti, la coprono di complimenti. Lei risponde sorridente e disponibile. “Spero che anche il nuovo piaccia” – dice rivolta a se stessa. Il libro è uscito qualche settimana fa. E’ un romanzo. S’intitola “L’anima altrove” – rivela con l’allegria che le suscita un titolo che è già di per sé un programma, Rizzoli editore. Racconta la storia di una famiglia, partendo dai primi del Novecento che viveva felicemente in Istria con le sue speranze, illusione e delusioni, felicità ed infelicità, gente normale insomma e, ad un certo punto…arriviamo ad un capitolo che recita: 1947. Lo strappo? “Certo, a quel punto questa gente, la nostra gente, perde la voce, la parola, non sa più raccontare e al loro posto lo fanno le case che sono rimaste sole. O parlano le cose che si sono portati dietro e che incongruamente stanno in posti stranissimi dalla loro originale destinazione. C’è la storia di un angioletto di marmo che stava in mezzo a una fontana e che adesso sta in un bagno vicino a una doccia, messo lì in una sorta di pietas per farlo comunque sentire l’acqua”. Da che cosa nasce il bisogno di far parlare le case? “Da un mio feticismo personale, senz’altro. Ma c’è anche un’altra ragione, diciamo che il tutto è partito parecchi anni fa, quando lessi un piccolo libro in lingua francese, che non so se sia mai stato pubblicato in Italia, di Agota Kristof, secondo me la massima scrittrice del tema dell’esilio. Racconta la storia di un esule dalla sua Ungheria che viaggia in tutto il mondo e fa fortuna e alla fine si stabilisce, non mi ricordo, in Australia o forse in Canada, dove, con una fotografia in mano fa ricostruire esattamente, identica in ogni particolare, la casa che aveva lasciato al suo paese”. Perché abbiamo bisogno di circondarci di oggetti e di sentirli nostri? “Non so: si tratta di una cosa più femminile? me lo sono chiesto ma la risposta non la conosco. Ho sempre creduto comunque che le cose abbiano un’anima, che se vuoi bene alle cose loro ti ricambiano, ti sono fedeli se tu lo sei a loro, credo molto nelle cose, moltissimo”. C’è una storia legata ad un oggetto che ha saputo dirti, parlarti più di altri? “Eh, ce ne sono tanti ma l’angelo già citato è uno di questi esempi, mi racconta di una storia passata, che non c’è più, ma che mi ha seguito dappertutto. Prima stava in una terrazza e s’era tutto annerito in mezzo ai fiori, poi l’ho fatto ripulire da un marmista e adesso sta nel mio bagno e stava in mezzo a una fontana nel giardino della nostra casa di Pola”. Qual è il percorso del libro? “Lontano da quando, la prima parte e lontano da dove, la seconda. Vale a dire, la prima parte è proprio un romanzo familiare che dà voce a diversi personaggi. La seconda è composta da questi racconti abbastanza bizzarri, con case e cose, ovvero cose di casa o di case e poi c’è un’appendice, che ho voluto mettere apposta, ovvero la storia di un’ebrea polacca che vive a Parigi e che ho voluto far parlare, un’amica, una conoscente, insegna storia e qui ci dice che l’esilio è uguale per tutti, non ci siamo solo noi”. Cosa succede quando si finisce di scrivere un libro? “Questo è stato forse il più sofferto. Cinque anni di fatica, scrivendolo e riscrivendolo, fatto e rifatto, ci ho rimesso mano e poi lasciato lì . C’è all’ìinterno anche un racconto di Nelida Milani (con la quale ha firmato Bora, ndr.) per continuare questa nostra stretta di mano attraverso il tempo e la scrittura mia, sua, io e tu nuovamente insieme. Comunque non è stato facile perché la concezione non è facile. Nel momento in cui è uscito, per un attimo mi era quasi antipatico per quanto ci ho sofferto. Ma ho deciso di rifarci amicizia, piano piano, dando tempo al tempo”. Che cosa ti ha dato il tuo rapporto con Nelida? “Molto. Moltissimo perché mi ha restituito una parte di Pola, una parte della mia storia, una conferma di come siamo fatti. Mi piace che siano state due donne per la prima volta a rompere questo muro di inimicizia, mi piace molto questa cosa. E mi piace avere qualcuno che sta lì e mi racconta cosa succede attraverso il nostro carteggio continuo. E’ un modo per non andarci, perché ogni volta è una sofferenza, però esserci attraverso lei in una vita parallela, mi reputo fortunata per questa opportunità”. In che cosa possiamo riconoscerci noi tutti, come popolo istriano-fiumano-dalmato? “Secondo me in un carattere che ci accomuna tutti, un’onesta di fondo, fierezza, siamo gente che non si arrende. Avevo cominciato a prendere un appunto per un libro che non ho mai scritto e cominciava proprio così: farcela, mio padre me l’ha sempre insegnato che potevamo farcela”. Presentazioni in calendario? “Ne farò, ma poche”. A Trieste? “Sì, a Trieste senz’altro ma lasciamo che arrivi primavera”.