Presentati un romanzo storico e alcune poesie
La sera di domenica 12 giugno, nella sala conferenze dell’Hotel Brioni, il consigliere Lino Vivoda ha brevemente presentato il romanzo storico del socio Donato Mutarelli Veruda La terra rossa (Luglio editore, Trieste 2010, pagg. 992), che narra la vicenda di Marco Pirani intrecciandola con la realtà di Pola e dell’Istria, ma anche di Zara e Fiume, subito prima, durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale, fino all’esilio del protagonista in Australia. Nato a Pola nel 1934, il giornalista e scrittore Donato Mutarelli Veruda è stato direttore responsabile del periodico di Lino Vivoda “Istria Europa”. Oggi vive in Lombardia. All’inizio della sessione, il sindaco Tullio Canevari si era allontanato dal tavolo della presidenza, mettendosi a sedere in prima fila, per il «comportamento scorretto» tenuto da «un associato» verso di lui e altri consiglieri. Vivoda ha rilevato come Mutarelli, essendo un artista, abbia un carattere strano. Il suo libro però è davvero bello, paragonabile a quelli di Tomizza o Quarantotti Gambini. L’autore ha quindi letto il capitolo in cui racconta, con prosa chiara e gradevole, lo “struscio” sulla Via Sergia nel 1938. Ne riportiamo qui un passo: […] Ma alla sera, ogni sera, quasi toccata da un angelico sortilegio, via Sergia da umile Cenerentola delle vie polesane si trasformava, poco a poco, in una Principessa sfavillante di luci e di colori, pregna di quei profumi di fiori che le fioraie, appostate agli angoli dei crocicchi, porgevano ai passanti; e allora, ogni cosa prendeva vita, si animava in un sussurro crescente e in un brusio sempre più forte di ciacole, di esclamazioni, di risa, in uno scalpiccio sempre più diffuso che saliva a mano a mano che la stretta via si affollava di passanti. Era, quella, l’ora dello “struscio” serale quando, quasi convocata da un invisibile richiamo collettivo, tutta la gioventù di Pola – e con essa tutti i militari dei presidi e i marinai delle navi in rada – si ritrovavano a passeggiare, a ridere, a spettegolare, in un continuo “va e vieni” lungo quei fatidici quattrocento metri; ed, in un crescendo festoso, tutta la via era un pullulare di berretti bianco-blu, tutto un agitarsi di centinaia di fresche uniformi di tela bianca, profumata di bucato. Erano gli allievi della scuola CREMM – dove la sigla stava per “Corpi Reali Equipaggi Marina Militare” – orgogliosi tutti di appartenere ad una scuola che costituiva – così scherzavano – la crème della Marina Italiana. Ed assieme a questi, arrivavano gli artiglieri del 5° Reggimento Artiglieria, quelli vicino al bosco Siana, riconoscibili per le bande nero-arancione lungo i pantaloni; e scendendo da Veruda, arrivavano alla spicciolata i bersaglieri, le “fiamme cremisi” del colonnello Benigni, alteri ed orgogliosi, con quel passo ginnico che non perdevano neppure in libera uscita e quel fruscio di penne verdi-iridescenti ondeggianti sul tondo cappello nero. E poiché insieme ai militari d’ogni arma del presidio di Pola affluivano anche gli ufficiali, ecco che il percorso di via Sergia era tutto uno scattare di tacchi, tutto un saluto militare con il palmo della mano destra aperto e le dita ben tese sulla visiera del berretto; con il risultato che quel sollevar di braccia – il gomito ben alto, come da regolamento – questo scattar nel saluto si faceva talmente frequente lungo il percorso che molti si lamentavano di non essere riusciti ad abbassare un solo istante la mano dalla visiera durante i quattrocento metri di via Sergia. Eppure, quell’ondoso movimento di “andata e ritorno” lungo il tracciato della via sarebbe stato solo una confusa “libera uscita” di giovani in uniforme se ad addolcire ogni cosa, ad allietare i volti e le espressioni non fosse stata presente, in via Sergia, anche la gente di Pola e le ragazze di Pola, le floride, bellissime mule polesane; ed erano loro a far da delizioso contrappunto, a vivacizzare con i loro cicalecci, le loro grida argentine, la loro scoppiettante risate tutto quest’inarrestabile flusso di divise, di gioventù e di disciplina. In quei momenti, via Sergia sembrava vibrare di gioia di vivere, quasi scossa da una misteriosa corrente di simpatia che metteva felicità ai sorrisi, luce agli sguardi e calore ai saluti ed alle parole […]. Ma lo “struscio” serale doveva, a quel punto, ancora raggiungere il suo culmine quasi trionfale; ed infatti, verso le sette e mezza di sera il flusso scorrevole di gioventù si rimescolava improvvisamente come i semi delle carte da gioco e la massa della gente s’infittiva, diventava calca. Era il momento in cui in via Sergia – come nel gran finale di un palcoscenico – entrava con i suoi ufficiali l’ammiraglio Alberto Marenco di Moriondo, comandante della Piazza Marittima di Pola, e, quasi in competizione con lui, i generali e i colonnelli delle altre armi, chi con le mogli e chi con le amanti. E con esse, grandi ondate di profumi femminili, sfavillìo di ciprie, fruscio di cappellini e di velette; e poi, occhiate languide lanciate a tradimento sui giovani sottotenenti di “prima nomina”; ed ancora saluti, cenni di mano, guanti tolti con gesti sensuali, quasi richiami sottintesi d’incantevoli nudità […] Pola, in quelle ore serali, trovava la sua piena omologazione di picia capital, di piccola capitale italiana, essendo l’unica città nel Regno d’Italia in grado di competere con Roma non solo per una certa orografia urbana – disposta com’è su sette colli, come Roma – ma anche per un portentoso elenco di architetture romane: la colossale Arena, la Porta Gemina, la Porta Erculea e gli stessi Arco dei Sergi ed il Tempio d’Augusto, che della Via Sergia – come s’è detto – sono il principio e la fine. A Pola ed ai suoi abitanti quel passato remoto di romanità, unito a quello di venezianità delle altre cittadine istriane, serviva a legittimare, a pieno titolo, l’importanza tutta italiana della città, a fronte del suo ruolo assai più recente di arcigna piazzaforte della Imperial Regia Marina Austriaca, un po’ come ribadire che quel tricolore che sventolava sul Palazzo del Comune da solo vent’anni non era fuori luogo, né poteva sembrare qualcosa di imposto, essendo la trama delle vie cittadine, prima romana, poi veneziana, italiana tutta. Del resto Pola, come base della Regia Marina Militare – assai più di La Spezia, più di Livorno, più di Napoli, più di Taranto – non aveva rivali nell’accogliere nella sua rada e nei suoi moli tante navi di battaglia e tanti sottomarini, né nel riunire, nel suo tessuto cittadino, tanti equipaggi e tanta italiana gioventù in divisa; cosìcché le frasi, le parole, i modi di dire che si udivano passando vicino ai gruppi di persone in conversazione sembravano, nel loro insieme ,il frutto di una specie di cosmopolitismo esclusivamente “nazionale”. Con il romano, il napoletano, il ligure o il toscano dei Marinai. Il piemontese degli Artiglieri. Il lombardo dei Bersaglieri. Il pugliese, il siciliano, il sardo dei Fanti. Non c’era davvero a Pola, nei cicalecci o nelle conversazioni, una calata regionale che non si notasse o una espressione dialettale che non si udisse, il tutto stemperato nello zucchero dell’armonioso dialetto istriano. Pola, nelle parole, nei volti, nelle frasi, nelle divise, nelle stellette, era dunque tutta l’Italia e l’Italia tutta era riunita in Pola nella fantastica via Sergia. […] Ha quindi preso la parola la socia Magda Rover, che con candore e purezza d’animo ha recitato alcune sue belle poesie attinenti a questioni esistenziali. Ne trascriviamo due.
E i miei pensieri
Corrono nel vento. / Musiche di silenzio, / risonanze di nostalgia / ritmano / il mio andare nei ricordi. / Struggimento – anelo a te. / Ansia di assoluto. / Indugia la mente / alle soglie del mistero. / In cielo si dissolvono le ultime nubi, / di magiche iridescenze si riveste il sole. / Sentimenti, emozioni, / come scalpitanti puledri / a lungo trattenuti, / erompono in tumulto, / cavalcano / sogni di libertà, di felicità. / E i miei pensieri vanno / come frecce d’azzurro / scoccate nell’infinito, / mirate a centrare / bersagli di conoscenza, / a captare armonie d’amore.
Allegra sarabanda
Improvvisa, frenetica, / allegra sarabanda / davanti al mio balcone / sul far della sera. / In formazione acrobatica / sfrecciano garrule le rondini. / Ebbre di vita, come impazzite / si rincorrono, gareggiano, / si richiamano, volteggiano / e stridono, stridono… / Che succede mai? / Non è il tempo dei ritrovati nidi, / dei rinnovati incontri: / siamo in piena estate! / D’un tratto, repentine, zittiscono, / diradano, si disperdono, svaniscono… / No, non mi spiego l’estemporaneo evento, / ma una quieta felicità tutta mi invade. / Sì: la tirannia dell’uomo non ha ancora / sottomesso il tripudio della Creazione!
Roberto Hapacher Barissa ha infine letto due sue poesie: la prima sulla strage di Vergarolla, la seconda sugli esuli.
Settant’anni fa
Settant’anni fa il mare di sangue / si tingeva, e qualcuno sapeva! / Calpestavano la terra dei nostri avi, / qualcuno brindava e rideva, / e chi riposava nella pineta, / dove l’aria di pace era magica, / dopo il suono della grande conchiglia / udiva un boato o spariva. / Settant’anni fa la terra, la città / erano di nuovo sporche di sangue, / il gabbiano impazziva, / la carne volava e il traditore scappava! / Mentre le mani di un eroico padre / bagnate di lacrime tenevano / i corpi squarciati e salvati! / Settant’anni fa calava il sinistro silenzio / rotto soltanto dal pianto / di un bambino che non aveva più / la madre vicino, e dopo il suono / delle cornamuse, giorni prima nel centro, / un ritmo di passi e motori / verso Monte Ghiro / e Pola nell’anima perdeva il suo respiro! / Settant’anni fa un tiepido vento / spargeva le ceneri dei corpi bruciati / e confondeva l’odore / del sangue innocente dei cento o più / nessuno lo sa! / Soltanto il mare muto testimone. / Il mare di Vergarolla e le voci spente / di quelli che ancora oggi schiavi dell’oblio non parlano. / Con il lampo acceso negli occhi. Dopo settant’anni! / Settant’anni fa / il sole a Pola perse la sua forza, / e in via Minerva non si sentiva / il tintinnio dei bicchieri e l’allegro canto / dei veci Polesani con le acute grida di gioia / dei bimbi che giocavano correndo su per i clivi, / ma soltanto le urla di dolore dei vivi. / Settant’anni fa agosto sembrava già febbraio / dopo quel carnaio e la notte diventò lunga, / paurosa e interminabile la fuga verso l’ignoto inevitabile. / La nostra Pola figlia di una pietà / cambiò il volto e quello della sua gente / rimase bagnato dal pianto che dura ancora, / ancora nel tempo che passa.
Gli Esuli
Il freddo pungeva i loro volti su quel molo imbiancato / dove la nave copriva / l’ultimo segno vivo di Pola, il resto era pietra e solo terra! / In una cornice di fumo la città appariva / come un disegno sbiadito bagnato di lacrime / che cadeva nel mare scuro, mentre la nostra bandiera / sventolava ancora in lotta / con il vento dell’addio, contro l’aria cruda di febbraio / tagliata da un lungo flagello fantasma / figlio dell’odio cieco che squarciava i cuori, / spingendo i corpi strappati dal suolo natale curvi e stanchi / nel drammatico imbarco. / Era così quando partivano gli Esuli! / Con i ricordi di una vita, del Natale grande / nella storia, della guerra con le bombe / e le case atterrate, le vie abbandonate, / le spiagge insanguinate, / alzando un triste canto accompagnato / da un ritmo battuto dalle onde / che portava un po’ di pace ai caduti e ai rimasti nelle tombe. / E andava avanti quella nave lasciando la scia / del rammento, la speranza non moriva, / il saluto non finiva! / E iniziava il racconto del marinaio / ascoltato dai fanciulli, / un lungo pianto silenzioso delle madri pensierose, / l’ansia dei padri con la sola valigia in mano / e il tramonto della vita per i vecchi ormai lontani / da casa fissando una vecchia foto ingiallita. / Era così quando partivano gli Esuli. / Come vittime del destino, merce dell’accordo / e delle voglie dei potenti, scaricati nel buio / di un abisso come schiavi del tempo, / pagando le colpe degli altri, per combattere a lungo / nella vita e per cercar giustizia. Erano gli Esuli, / erano Polesani, erano Istriani figli di una Patria, / erano Italiani!
L’Arena di Pola, luglio 2016