I dalmati nel Novecento, cerniera fra Italia e mondo slavo
Il Senatore Carlo Amedeo Giovanardi, notoriamente sensibile e vicino alle problematiche degli esuli istriani, fiumani e dalmati, ha promosso un ciclo di iniziative presso le prestigiose strutture del Senato della Repubblica dal titolo “Interventi a tutela del patrimonio storico e culturale della comunità degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia”: mercoledì 16 novembre è stata approfondita la tematica “Gli Italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento”, traendo spunto dall’omonimo volume di Luciano Monzali pubblicato da Marsilio (Venezia, 2015).
Il senatore modenese ha fatto gli onori di casa, il Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati Antonio Ballarin ha portato un saluto per ribadire la necessità di tutelare anche con iniziative come questa l’identità specifica dell’italianità nell’Adriatico orientale, di cui gli esuli sono i principali animatori. Il primo intervento è stato quindi effettuato dall’Ambasciatore Luigi Vittorio Ferraris, Presidente dell’Associazione Italiana di Studi di Storia dell’Europa Centrale e Orientale, la cui dotta relazione si è soffermata sulle vicende della diaspora giuliano-dalmata. Nonostante le note traversie, tuttavia, il variegato mondo degli esuli ha saputo garantire impulso e continuità ai rapporti con gli italiani “rimasti” in Istria e Dalmazia, laddove lo Stato italiano ha gestito male la politica estera riguardo alle problematiche del confine orientale, sulla cui peculiare storia si è dimostrato sovente impreparato. All’incapacità di analizzare i complessi rapporti sprigionati dalla dissoluzione della Jugoslavia si è contrapposta la tenacia a perseguire i propri fini da parte degli interlocutori: non è casuale che nel momento in cui Roma affrontava con Lubiana la questione dei beni abbandonati, il Ministero degli Affari Esteri sloveno patrocinasse la pubblicazione di un lavoro di ricerca sull’occupazione italiana della Slovenia meridionale durante la Seconda guerra mondiale.
È stata quindi la volta del Sottosegretario di Stato al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e Turismo Antimo Cesaro, il quale ha esortato la Società Dalmata di Storia Patria di Venezia (promotrice dell’appuntamento) e le altre sigle associative degli esuli giuliano-dalmati, a perseverare nella diffusione della conoscenza della vicenda storica, linguistica e culturale dell’Adriatico orientale, rivolgendosi agli ambiti che ancora la ignorano: quest’opera di divulgazione dovrà in particolare avvalersi dei contributi dello Stato facenti capo alla Legge 72/2001, di cui è imminente la ripresa regolare del finanziamento.
La complessità dell’identità italiana al confine orientale e dei rapporti con il mondo slavo viene correttamente definita, secondo Andrea Ungari, Docente di Teoria e Storia dei Partiti presso la LUISS Guido Carli di Roma, nel già ricordato complesso libro di Monzali grazie alla padronanza da parte dell’autore della Storia contemporanea e della Storia delle relazioni internazionali. Il volume parte dal 1797, anche se la presenza italiana era ben precedente, ma soprattutto colma la lacuna storiografica inerente gli anni successivi al Memorandum di Londra del 1954, con particolare riferimento ad un’analisi organica della comunità giuliano-dalmata insediatasi in territorio metropolitano . Ne emerge che il popolo dell’esodo ha posseduto un peso culturale maggiore di quello politico, pertanto Roma ha proseguito con la politica estera delle mani nette, senza tener conto dei propri interessi geopolitici nell’Adriatico e nei Balcani. Ungari ha sostenuto che, nella difficoltà di giungere ad una memoria storica condivisa con gli Stati confinanti, la priorità risulta quella di finanziare gli istituti e le associazioni culturali che difendono questa memoria, nonché promuovere la cultura italiana all’estero, specialmente ove essa ha lasciato la sua orma nel corso dei secoli.
Davide Rossi, Docente di Storia e Tecnica delle Costituzioni Europee all’Università degli Studi di Trieste, ha rilevato che il libro su Zara scritto recentemente da Lucio Toth si sofferma sui caratteri della “venezianicità” del capoluogo dalmata, sicché il volume di Monzali, che prende le mosse dal declino della Serenissima, ne costituisce un’ideale prosecuzione. La rottura del rapporto fra la Madrepatria e gli italiani del confine orientale conobbe altresì uno dei momenti più drammatici nella primavera del 1946, poiché il Decreto luogotenenziale 99 del 16 marzo “sospese” i preparativi in vista del Referendum istituzionale del successivo 2 giugno nelle circoscrizioni elettorali della Venezia Giulia (alla luce della situazione internazionale) e della provincia di Bolzano (essendo ancora indefinito lo status degli optanti per la cittadinanza germanica): per eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente rappresentanti tali territori, facenti parte dell’Italia in maniera internazionalmente riconosciuta al momento dell’entrata in guerra di Mussolini, “la convocazione dei comizi elettorali sarà disposta con successivi provvedimenti”. Il ché mai avvenne, mentre un paio di giorni prima che Vittorio Emanuele Orlando aprisse i lavori della Costituente, l’amnistia Togliatti passò un colpo di spugna sui crimini compiuti durante la guerra civile, denotando come il PCI si muovesse diversamente da altre formazioni comuniste europee, irriducibilmente antifasciste, maggiormente improntate all’internazionalismo ed alle logiche rivoluzionarie. Gli italiani del confine orientale in definitiva non poterono votare e quello fu il primo passo di un percorso che li avrebbe mestamente condotti fuori dalla storia nazionale, quasi a costituire un corpo a sé. In questo universo parallelo l’analisi di Monzali esamina dettagliatamente l’associazionismo degli esuli e soprattutto studia il delicato rapporto fra l’ANVGD e la Democrazia Cristiana: la caduta del Muro di Berlino e della DC hanno comportato la ricostruzione di un rapporto con la classe dirigente nazionale da parte di quest’associazione. Passaggio grave nelle relazioni dello Stato con gli esuli risulta il Trattato di Osimo, firmato frettolosamente in una villa “confiscata” con 48 ore di preavviso al proprietario, un discendente del poeta Giacomo Leopardi, dopo aver affidato le trattative più delicate al funzionario del Ministero dell’Industria Eugenio Carbone, non appartenente all’apparato diplomatico. Eccezion fatta per le vibranti proteste registrate a Trieste, nel resto d’Italia le reazioni apparvero evanescenti, ma nella stesura degli atti del recente convegno di Coordinamento Adriatico su Osimo svoltosi al SIOI il prof. Giuseppe Parlato ha colto spunti interessanti nel carteggio Fanfani-Moro del 1975-’76: l’accordo era stato firmato a novembre del ’75, ma la difficoltosa ratifica sarebbe giunta appena nel ’77, indispettendo nel frattempo i due leader democristiani. In continuità con questo disinteresse per gli interessi nazionali, nel 1993 caddero nel vuoto gli appelli dell’insigne giurista Giuseppe de Vergottini (presente al convegno) a sfruttare i margini che il diritto internazionale concedeva, alla luce della dissoluzione della Jugoslavia, per ritrattare Osimo con gli Stati successori.
Da lungo tempo collaboratore con le istituzioni dei dalmati in esilio, nonché conoscitore della lingua croata ed attento analista delle regioni di frontiera (la sua ultima fatica è dedicata a “Giulio Andreotti e le relazioni italo-austriache 1972-1992”, Alphabeta, Bolzano 2016), Luciano Monzali ha parimenti puntato il dito sul vuoto di conoscenza della classe dirigente italiana riguardo tali problematiche. La tutela degli interessi nazionali e l’inserimento della complessa vicenda del confine orientale nella storia del Novecento italiano sono fra gli obiettivi del suo volume dedicato agli italiani di Dalmazia, una cui parte è dedicata al Trattato di Osimo, che però il docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro interpreta come un grande successo della Ostpolitik della Prima Repubblica. Nella sua prospettiva “la politica della riconciliazione adriatica” ha fatto sì che dopo Osimo la comunità italiana in Jugoslavia si sentisse abbastanza tutelata da uscire allo scoperto ed acquistare spazio e visibilità. Riguardo la Dalmazia odierna, lo storico modenese ha notato un accresciuto attivismo da parte della chiesa cattolica e delle forze politiche che fomentano il nazionalismo croato in nome dell’omogeneità nazionale. D’altro canto nella genesi della coscienza croata Monzali vede Zagabria come il cervello e la Dalmazia come la culla della cultura, anche se su quel frastagliato territorio hanno operato pure altre etnie, arrivando all’interculturalità che ispirava “la nazione dalmata” di cui parlava Tommaseo. Giunto al quarto lavoro dedicato alle vicende dalmate, l’autore non recepisce le critiche di colleghi che lo esortano a lasciar perdere “questioni irrilevanti”, reputando invece doveroso che lo Stato conosca la storia e tuteli gli interessi dei connazionali dentro e fuori gli attuali confini.
Concludendosi il testo di Monzali al 1999, il Presidente della Società Dalmata di Storia Patria di Venezia Franco Luxardo ha concluso gli interventi in programma dedicandosi all’attualità, rilevando che la comunità italiana in Dalmazia si è recentemente compattata: sono censiti 400 italiani a Zara, 500 a Cattaro, 100 a Spalato e altre decine risultano sparpagliate in varie località. L’inaugurazione dell’asilo con lingua d’insegnamento italiana “Pinocchio” a Zara fa ben sperare per il futuro, anche se manca una successiva scuola elementare, la cui realizzazione pur rientrerebbe negli accordi Dini-Granić del 1996, se l’articolo 3 non ne limitasse l’applicazione all’Istria e a Fiume, escludendo la Dalmazia.
Nel dibattito conclusivo, Luca Riccardi, docente di Storia delle relazioni internazionali all’ateneo di Cassino, ha elogiato l’ampia storiografia cui ha attinto il collega Monzali nella redazione del poderoso volume, il quale rompe steccati e pregiudizi nel tentativo di far comprendere al lettore che la forza della Dalmazia consiste nella sua complessità. Damir Grubiša, ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia, complimentandosi parimenti per il libro di Monzali, ha evidenziato che anche in Croazia vi sono intellettuali che hanno un nuovo approccio nei confronti delle vicende inerenti la travagliata storia dell’italianità adriatica, dal compianto William Klinger a Franco Dotta (autore di “Il dopoguerra agguerrito”, ricerca dedicata a esodo, pulizia etnica e lotta di classe nella nascente Jugoslavia), passando per Ljubinka Karpowicz (studiosa del periodo fra le due guerre mondiali) ed Ervin Dubrović. La feluca si è quindi augurata che il lavoro di dialogo fra le due sponde dell’Adriatico proceda rispettando le reciproche sofferenze; dopo aver rilevato che in Croazia sono aumentati gli istituti dedicati all’italianistica, Grubiša ha ricordato che il prossimo 7 dicembre l’accordo Dini-Granić verrà ufficialmente celebrato a Roma alla presenza della Presidentessa della Camera dei Deputati, On. Laura Boldrini.
Lorenzo Salimbeni