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July 16th, 2024
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Il Natale di sangue di d’Annunzio a Fiume

La marcia di Gabriele d’Annunzio da Ronchi a Fiume il 12 settembre 1919 doveva risolvere con un audace colpo di mano l’impasse in merito alla definizione del confine tra l’Italia ed il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. L’annessione all’Italia del porto del Carnaro non era contemplata dal Patto di Londra, ma fu proclamata dal Consiglio Nazionale fiumano il 30 ottobre 1918, appellandosi al principio di autodeterminazione dei popoli che rientrava in quel programma di 14 punti destinati a garantire la pace al mondo ed in base ai quali il presidente Woodrow Wilson aveva trascinato gli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. La ridefinizione del confine in Dalmazia rispetto a quanto promesso nella capitale britannica il 26 aprile 1915 e gli ostacoli posti dalle altre potenze vincitrici riguardo l’annessione di Fiume (senza soffermarsi sulla mancata partecipazione alla spartizione dell’Impero Ottomano e delle colonie germaniche) alimentarono la retorica della “vittoria mutilata”, che scosse Gabriele d’Annunzio dal torpore del suo aureo ritiro veneziano.

Nata in ambito militare e nazionalista, la spedizione fiumana avrebbe poi trasformato Fiume in una “città di vita”, scenario di una “quinta stagione” che avrebbe dovuto realizzare gli ideali palingenetici che la guerra aveva suscitato e la conferenza di pace ampiamente frustrato, con particolare riferimento ai nuovi assetti confinari europei ed all’autonomia promessa alle colonie allorché Francia ed Inghilterra dovettero rimpinguare le fila dei propri esangui eserciti con robuste iniezioni di reparti coloniali. La Lega dei Popoli Oppressi e la Carta del Carnaro furono i progetti che meglio incarnarono lo spirito libertario e rivoluzionario che alcuni collaboratori del Vate (Alceste De Ambris, Leon Kochnitzky, Eugenio Coselschi, Ludovico Toeplitz, Giovanni Bonmartini ed Henry Furst) cercarono di imprimere ad una spedizione che rischiava continuamente di ridursi a una leva con cui il Regno d’Italia cercava di destabilizzare il vicino stato jugoslavo intessendo a partire da agenti presenti a Fiume (Giovanni Giuriati, Corrado Zoli e Giovanni Host Venturi) contatti con separatisti croati, sloveni, montenegrini e kosovari. Le relazioni con rappresentanti irlandesi, indiani ed egiziani portarono a nulla causa la mancanza di adeguati finanziamenti con cui alimentare fermenti rivoluzionari, laddove il lavorio alle fragili fondamenta del regno dei Karađeorđević cominciava e farsi minaccioso, sicché il 12 novembre 1920 a Rapallo Roma e Belgrado definirono il loro confine. Fiume sarebbe diventata uno Stato libero (come era avvenuto a Danzica e a Memel); della Dalmazia, solamente Zara assieme a qualche isola sarebbe entrata a far parte del Regno d’Italia; il confine terrestre veniva fissato lungo lo spartiacque delle Alpi Giulie, venendo così incontro alle richieste del Regio Esercito e deludendo le aspettative della Marina italiana, che voleva l’intera Dalmazia per assicurarsi il pieno controllo dell’Adriatico. Deluso da questa sistemazione, d’Annunzio si trovò isolato a protestare, poiché l’Ammiraglio Millo, governatore militare della Dalmazia che nei mesi precedenti gli aveva dato prova di amicizia e fatto credere di essere parimenti pronto all’insubordinazione militare qualora tutta la Dalmazia non fosse stata annessa, rientrò nei ranghi e fece ritirare le proprie truppe dai territori passati sotto la sovranità jugoslava.

Onde evitare ingerenze straniere, il presidente del consiglio Giovanni Giolitti si impegnò a por fine alla sedizione dannunziana che nel frattempo, onde dimostrare la propria vitalità, aveva occupato le isole di Arbe e Veglia. Ancora alcuni militari disertarono per raggiungere Fiume e dare man forte al Comandante, il quale poteva contare su circa 2.500 legionari, ma le truppe agli ordini del generale Enrico Caviglia stavano ormai stringendo d’assedio dal mare e da terra il capoluogo quarnerino. Benito Mussolini esortò gli squadristi giuliani a non intervenire, poiché aveva compreso che la causa fiumana era destinata a soccombere; tuttavia il governo temeva ripercussioni sull’ordine pubblico interno qualora fosse stato necessario ricorrere ad un’azione di forza, pertanto approfittò della vacanza natalizia nella pubblicazione dei giornali per procedere con l’attacco alle postazioni difensive approntate dai disertori dannunziani e dai volontari fiumani.

Dal 24 al 29 dicembre si consumò quello che il poeta abruzzese stesso definì il Natale di sangue, il quale provocò 25 morti e 139 feriti nelle truppe regolari e 31 morti e 61 feriti tra gli insorti, fra cui molti civili: avvilito da questo episodio di guerra civile fra italiani, d’Annunzio decise di arrendersi, onde evitare ulteriori lutti e danni alla città, che veniva sottoposta a cannoneggiamento. Il Comandante avrebbe tenuto come suo ultimo discorso pubblico a Fiume una vibrante orazione funebre al cimitero di Cosala, ove furono sepolti i caduti di quelle giornate.

Lorenzo Salimbeni 

Fonte: Il Giornale d’Italia

La marcia di Gabriele d’Annunzio da Ronchi a Fiume il 12 settembre 1919 doveva risolvere con un audace colpo di mano l’impasse in merito alla definizione del confine tra l’Italia ed il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. L’annessione all’Italia del porto del Carnaro non era contemplata dal Patto di Londra, ma fu proclamata dal Consiglio Nazionale fiumano il 30 ottobre 1918, appellandosi al principio di autodeterminazione dei popoli che rientrava in quel programma di 14 punti destinati a garantire la pace al mondo ed in base ai quali il presidente Woodrow Wilson aveva trascinato gli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. La ridefinizione del confine in Dalmazia rispetto a quanto promesso nella capitale britannica il 26 aprile 1915 e gli ostacoli posti dalle altre potenze vincitrici riguardo l’annessione di Fiume (senza soffermarsi sulla mancata partecipazione alla spartizione dell’Impero Ottomano e delle colonie germaniche) alimentarono la retorica della “vittoria mutilata”, che scosse Gabriele d’Annunzio dal torpore del suo aureo ritiro veneziano.

Nata in ambito militare e nazionalista, la spedizione fiumana avrebbe poi trasformato Fiume in una “città di vita”, scenario di una “quinta stagione” che avrebbe dovuto realizzare gli ideali palingenetici che la guerra aveva suscitato e la conferenza di pace ampiamente frustrato, con particolare riferimento ai nuovi assetti confinari europei ed all’autonomia promessa alle colonie allorché Francia ed Inghilterra dovettero rimpinguare le fila dei propri esangui eserciti con robuste iniezioni di reparti coloniali. La Lega dei Popoli Oppressi e la Carta del Carnaro furono i progetti che meglio incarnarono lo spirito libertario e rivoluzionario che alcuni collaboratori del Vate (Alceste De Ambris, Leon Kochnitzky, Eugenio Coselschi, Ludovico Toeplitz, Giovanni Bonmartini ed Henry Furst) cercarono di imprimere ad una spedizione che rischiava continuamente di ridursi a una leva con cui il Regno d’Italia cercava di destabilizzare il vicino stato jugoslavo intessendo a partire da agenti presenti a Fiume (Giovanni Giuriati, Corrado Zoli e Giovanni Host Venturi) contatti con separatisti croati, sloveni, montenegrini e kosovari. Le relazioni con rappresentanti irlandesi, indiani ed egiziani portarono a nulla causa la mancanza di adeguati finanziamenti con cui alimentare fermenti rivoluzionari, laddove il lavorio alle fragili fondamenta del regno dei Karađeorđević cominciava e farsi minaccioso, sicché il 12 novembre 1920 a Rapallo Roma e Belgrado definirono il loro confine. Fiume sarebbe diventata uno Stato libero (come era avvenuto a Danzica e a Memel); della Dalmazia, solamente Zara assieme a qualche isola sarebbe entrata a far parte del Regno d’Italia; il confine terrestre veniva fissato lungo lo spartiacque delle Alpi Giulie, venendo così incontro alle richieste del Regio Esercito e deludendo le aspettative della Marina italiana, che voleva l’intera Dalmazia per assicurarsi il pieno controllo dell’Adriatico. Deluso da questa sistemazione, d’Annunzio si trovò isolato a protestare, poiché l’Ammiraglio Millo, governatore militare della Dalmazia che nei mesi precedenti gli aveva dato prova di amicizia e fatto credere di essere parimenti pronto all’insubordinazione militare qualora tutta la Dalmazia non fosse stata annessa, rientrò nei ranghi e fece ritirare le proprie truppe dai territori passati sotto la sovranità jugoslava.

Onde evitare ingerenze straniere, il presidente del consiglio Giovanni Giolitti si impegnò a por fine alla sedizione dannunziana che nel frattempo, onde dimostrare la propria vitalità, aveva occupato le isole di Arbe e Veglia. Ancora alcuni militari disertarono per raggiungere Fiume e dare man forte al Comandante, il quale poteva contare su circa 2.500 legionari, ma le truppe agli ordini del generale Caviglia stavano ormai stringendo d’assedio dal mare e da terra il capoluogo quarnerino. Benito Mussolini esortò gli squadristi giuliani a non intervenire, poiché aveva compreso che la causa fiumana era destinata a soccombere; tuttavia il governo temeva ripercussioni sull’ordine pubblico interno qualora fosse stato necessario ricorrere ad un’azione di forza, pertanto approfittò della vacanza natalizia nella pubblicazione dei giornali per procedere con l’attacco alle postazioni difensive approntate dai disertori dannunziani e dai volontari fiumani.

Dal 24 al 29 dicembre si consumò quello che il poeta abruzzese stesso definì il Natale di sangue, il quale provocò 25 morti e 139 feriti nelle truppe regolari e 31 morti e 61 feriti tra gli insorti, fra cui molti civili: avvilito da questo episodio di guerra civile fra italiani, d’Annunzio decise di arrendersi, onde evitare ulteriori lutti e danni alla città, che veniva sottoposta a cannoneggiamento. Il Comandante avrebbe tenuto come suo ultimo discorso pubblico a Fiume una vibrante orazione funebre al cimitero di Cosala, ove furono sepolti i caduti di quelle giornate.

Lorenzo Salimbeni