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Tra negazionismo e ricordi, la vita degli esuli di Roma

Viaggio nel quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, un ex villaggio operaio abbandonato dove parte degli esuli italiani in fuga dalle persecuzioni titine hanno ricostruito la comunità perduta 

Elena Barlozzari – 10/02/2018

Dal 1945 in poi l’Italia si trova a dover gestire l’esodo dei connazionali in fuga dai territori occupati dalla ex Jugoslavia e dalle persecuzioni titine. Alla fine circa 350mila italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia abbandonano le proprie case e approdano a Trieste.

S’infrange così il “sogno comunista” sui cui nasce la Prima Repubblica. E per cercare di chiudere la “pratica” sottovoce, il governo di allora decide di disperdere gli esuli in tutta Italia. Memoria storica, identità, comunità: nulla sembra destinato a scampare a quegli anni di lotte fratricide. Ma a Roma, tra i caseggiati abbandonati di un ex villaggio operaio, succede qualcosa d’imprevisto.

A raccontarci la genesi e l’unicità del quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, dove non c’è un mattone che non ricordi la storia del confine orientale, è il professor Giovanni Stelli, esule di Fiume e presidente della Società di Studi Fiumani di via Cippico 10. “È il solo quartiere di esuli costruito nel dopoguerra, il governo italiano era nettamente contrario a concentrare i profughi per evitare focolai di irredentismo e normalizzare la situazione”. Inizia così lo smembramento della comunità degli esuli, sparpagliata nelle caserme dismesse o nei campi di internamento utilizzati nella prima e nella seconda guerra mondiale. Ferruccio Conte, esule di Dignano D’Istria e residente storico del quartiere, è uno di quei bambini a cui fu negata l’acqua alla stazione di Bologna. Viaggiava su quel convoglio infernale, ribattezzato “il treno dei fascisti”, per raggiungere il campo profughi di Latina. Oggi usa una parola sola per definire gli anni passati lì: “Terribili”. Stanchi di fare quella vita, alcuni fanno fagotto e raggiungono la Capitale riparandosi negli alloggi abbandonati dagli operai che lavoravano all’Esposizione Universale di Roma (da cui avrà poi origine l’Eur). “Qui a Roma – continua il professor Stelli – c’erano delle baracche in rovina, i giuliano-dalmati le occuparono, poi con l’istituzione dell’Opera Profughi il quartiere si sviluppò più o meno come lo vediamo oggi”.

Uno dei primi ad arrivare è stato Romano Sablitch, classe 1924, e una vita piena di esperienze da raccontare. Italiano di Fiume ed ex ufficiale della marina, viene internato all’indomani dell’armistizio in un campo di lavoro tedesco. Era a Berlino, e assieme agli altri prigionieri ripuliva le strade dalle macerie lasciate dal passaggio dei bombardieri a stelle e strisce. Dopo la caduta della città, ritorna a casa e la trova occupata dalle truppe titine. “C’era Tito, comandava lui, e le persone sparivano. Io – spiega – all’epoca non sapevo nulla delle foibe e non riuscivo a spiegarmi dove fosse finita tutta la mia gente”. Romano raggiunge Trieste via terra, poi Venezia e poi Roma. “Quando sono arrivato qui non c’era nulla, ero solo e mi sono messo a dormire in un padiglione con una branda”. Si sparge la voce e, pian piano, arrivano altri e altri ancora. “Mio padre – racconta l’esule di seconda generazione Pino Gursi – è nato a Capo D’Istria, è venuto qui per ritrovare gli amici storici che la guerra aveva diviso”. Finché lo Stato non ha dato all’Opera Profughi il permesso di costruire delle case. Appartamenti di pochi mq, nulla a che vedere con le proprietà abbandonate al di là del confine. Quelle che lo Stato italiano usò per pagare i suoi debiti di guerra al maresciallo, indennizzando poco e male gli ex proprietari. Erano pur sempre case, le stesse che vediamo noi oggi. Attorno ai primi nuclei abitativi si articolano vie e piazze, chiese e scuole, e la vita che finalmente ricomincia. Da quella che inizialmente era solo un’enclave “di gente che parlava in dialetto veneto e veniva guardata di traverso dai romani”, spiega Maria Ballarin, esule di seconda generazione. “Oggi – aggiunge – siamo tutti ben inseriti nel tessuto sociale, ma sul nostro dramma pesa ancora una forte ideologizzazione”.

Siamo in piazza Giuliani e Dalmati, nel cuore di questo spicchio di città che non sembra nemmeno Roma. Alla nostra destra c’è una colonna su cui campeggia la lupa romana, viene dall’arena di Pola, davanti la Chiesa di San Marco sormontata da un leone di marmo, e a sinistra la stele su cui spiccano i nomi delle città irredente e una terzina di Dante: “Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente”. Ecco, proprio alla nostra sinistra il vetro che protegge il monumento è infranto in più punti. “Questi – spiega Maria con la voce rotta di commozione – sono i simboli del mondo che abbiamo lasciato, purtroppo però vengono sistematicamente vandalizzati”. Dopo l’istituzione del Giorno del Ricordo, sottolinea il presidente della Società di Studi Fiumani, le cose sono nettamente migliorate ma, ancora oggi, riscontriamo manifestazioni di scarsa sensibilità istituzionale”. Un esempio? “Innanzi tutto una premessa: anche per le foibe così come per l’olocausto esistono i negazionisti. Beh, lo scorso anno la presidente della Camera Laura Boldrini ne ha invitata una a Montecitorio”. La terza carica dello Stato, in realtà, si era chiamata fuori dalla disputa, ma sotto l’egida di Sel l’evento si era comunque svolto. Senza andar tanto in là con la memoria, oggi ad Orvieto si tiene un convegno che si pone lo scopo di contrastare la “mitologia” delle foibe. E il comune patrocina.

Fonte: Il Giornale