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Quarantotti Gambini e la primavera triestina che non è mai passata

Mondadori ripubblica il testo esaurito da tempo sui giorni tesi e confusi tra l’aprile e il giugno 1945

 

«Sempre il solito difetto degli italiani: scambiare per essenziali le cose che fanno più colpo e che in realtà sono marginali o superflue». Pier Antonio Quarantotti Gambini fotografa così la situazione italiana il 29 aprile 1945, quando arriva la notizia che Mussolini è stato impiccato. E aggiunge: «Gli italiani che hanno ucciso Claretta, non si accorgono che l’ala della storia batte sulle Alpi Giulie». Parole che risuonano con lancinante attualità oggi che la scena politica italiana ed europea è attraversata da scosse sempre più minacciose e si ha l’impressione di guardare dalla parte sbagliata, di essere distolti dall’evento cruciale che accade sempre altrove.

La ripubblicazione, da oggi in libreria, dell’ormai quasi introvabile “Primavera a Trieste” (Mondadori, pagg. 344, 15 euro), con uno scritto di Claudio Magris e una bella introduzione di Elvio Guagnini, è per molte ragioni un evento editoriale significativo. Queste pagine, che nascono dai diari dell’autore, raccontano i mesi angosciosi e atroci che seguirono il 25 aprile 1945. Giorni in cui l’Italia festeggiava la liberazione dal nazifascismo e Trieste invece era sospesa tra la violenza dell’esercito jugoslavo, l’inazione degli alleati, e la sostanziale incomprensione del resto del paese. Una solitudine forse acuita dalla sofferenza di sentirsi fraintesi e insignificanti rispetto alla Storia Universale, rispetto alla partita che le grandi potenze giocavano incuranti del destino della città.

È l’atmosfera spettrale di una Trieste assediata dai titini, avvolta in un silenzio teso e incombente, a ispirare a Quarantotti Gambini pagine di una vividezza sorprendente. Non c’è più spazio per il solare lirismo dell’adolescenza, per la tenera sensualità dei ragazzi al mare che è la cifra dei suoi libri più fortunati. Questo è un romanzo fatto di strade, piazze sotto tiro di mitragliatrici, case in cui nascondersi, le Rive e il Corso segnati da pozzanghere rosse di sangue, i carri armati in piazza Unità. Il ritmo è febbrile, le frasi appaiono scritte con il cuore in gola, con l’impeto della speranza e la paura di chi è testimone coinvolto e compromesso.

Si tratta prima di tutto del resoconto in presa diretta di un istriano aristocratico, un cittadino italiano che vede con distacco il mondo slavo e sconta in prima persona le conseguenze della confusione che attraversa la città nei giorni successivi alla Liberazione. Queste pagine mostrano, meglio di qualsiasi saggio, perché Trieste divenne il primo territorio di scontro della Guerra Fredda: con le truppe jugoslave decise a rimanere in città, i partigiani del Cln che dopo essere insorti eroicamente devono deporre le armi per ordine dei combattenti titini, con gli alleati in attesa pronti a intervenire, e i triestini abbandonati a un futuro incerto. Chi libererà la città? Alexander o Tito? Certo, sarebbe meglio liberarla da soli, ma i corpi volontari che insorgono e disarmano i tedeschi vengono poi disarmati dai comunisti. Sono giorni inquieti. Gli italiani combattono i nazisti e cercano di tener lontani gli jugoslavi (alleati) quel tanto che basta per far arrivare gli anglo-americani, meno compromessi con le questioni della città. Chi arriverà prima? Sono giorni confusi. Quando entra l’esercito di Tito, a sventolare non sono le bandiere rosse sospirate dai comunisti, ma quelle bianche rosse e blu del nazionalismo balcanico.

Primavera a Trieste va letto con attenzione per poter comprendere in una prospettiva più complessa, ma anche più ampia e chiara, non solo la questione triestina e la sua eterna irriducibilità a quella italiana, ma anche una certa retorica della liberazione che ha un ruolo non semplice nel riaccendersi di nazionalismi fino a oggi cresciuti all’ombra di semplificazioni storiche. È un romanzo doloroso, e forse bisogna essere di queste terre per capire a fondo una situazione particolarissima senza cadere in fraintendimenti.

Perché, scrive a un tratto Quarantotti Gambini, in Italia non si trova un capo capace di dire che bisogna salvare gli italiani di Trieste e dell’Istria? Per paura di apparire nazionalisti? Una paura estetica che Stalin e Tito non hanno, un timore che attraversa la sinistra italiana e lascia campo libero a una destra violenta e ignorante, capace per tutti gli anni a venire di fare della questione degli italiani d’Istria terreno privilegiato per la raccolta di voti e consensi. Due tonalità narrative dominano il libro. Una cronachistica che ricostruisce con precisione da diario ogni ora che precede la resa dei tedeschi e i successivi quaranta giorni di violenza e arresti. E l’altra, dove si dispiega il luminoso talento narrativo di Quarantotti Gambini, fatta di scene e dettagli che si attaccano al lettore più di qualsiasi immagine cinematografica. Da un lato la sfibrante attesa degli alleati: sono a Cervignano o a Monfalcone? È uguale. No, l’Isonzo è decisivo. Hanno superato l’Isonzo? Forse. Dall’altro la vita in trance della città: Igino Tolusso, impiegato alla Biblioteca Civica, che esce con aria spiritata da archivista in piazza Hortis dove tedeschi e partigiani si combattono senza sosta, e chiede una tregua per poter andare a pranzare. E i soldati davanti a quel fantasma da biblioteca, «grido vivente del popolo triestino», abbassano le mitragliatrici. Le sfilate tristi dei contadini slavi fatti scendere dal Carso per inneggiare a Tito, con le bandiere jugoslave e i volti opachi, il passo lento da corteo funebre.

Sono pagine queste che parlano con freschezza e incisività da bollettino di guerra contemporaneo, capaci di far sentire al lettore la trepidazione e la frustrazione di una città incompresa. E per questo siamo grati a questo romanzo, perché ci permette di capire per quali ragioni la storia di Trieste è così aliena al resto dell’Italia e insieme fatale, perché guardando a Trieste alcuni nodi potrebbero essere sciolti. Perché, in quella primavera del 1945, la città si trovò al centro di un gioco grandioso: il mondo occidentale e quello orientale si scontravano, capitalismo e liberalismo, due concezioni politiche. Perché in quel momento, nelle pieghe della storia e nel fondo oscuro e lievitante dei fatti, Trieste poté vedere molto al di là.

Federica Manzon – 27 febbraio 2018

Fonte: Il Piccolo