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November 21st, 2024
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Vidris Tito Vuole Istria

La complessità della storia del confine orientale

Con riferimento all’articolo “La storia riscritta in silenzio” comparso a firma di Simonetta Fiori nell’edizione di martedì 6 luglio di “Repubblica”, la Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati intende effettuare alcune precisazioni.

Innanzitutto duole constatare che la storia del confine orientale viene interpretata sempre nell’ambito del fascismo e dell’attacco politico alla destra, dimenticando secoli di presenza, storia, cultura e tradizione italiana sulle coste dell’Adriatico orientale, nonché l’adesione al Risorgimento di classi dirigenti e volontari autoctoni. Risulta necessario distinguere la lettura ideologica e politica che ha caratterizzato gli anni della guerra fredda con quanto invece è realmente accaduto.

A ciò non si può non aggiungere come la visione bonaria e idealizzata del comunismo che poi trapela in questo articolo stride con la consapevolezza, maturata per esperienza diretta nelle associazioni degli esuli adriatici, che la bandiera rossa che l’esercito “titino” ostentava, copriva un progetto espansionistico rivolto a zone abitate in maggioranza e da secoli da italiani, nato e sviluppatosi in ambienti nazionalisti sloveni e croati nella fase finale dell’Impero austro-ungarico (ben prima quindi delle prevaricazioni slavofobe compiute dal cosiddetto fascismo di frontiera).

Operando nella Venezia Giulia, a Fiume e a Zara, le quali dopo la Prima Guerra Mondiale appartenevano all’Italia in maniera internazionalmente riconosciuta, la resistenza capeggiata da Tito aveva trasformato una lotta di liberazione da un’occupazione straniera in un’offensiva finalizzata ad instaurare una dittatura marxista all’interno ed a modificare i confini d’anteguerra approfittando del vuoto di potere che origina dalla dissoluzione dello Stato italiano dopo l’8 settembre. Fino alla caduta del fascismo, già avvenuta il 25 luglio, le terre del confine orientale erano state fasciste tanto quanto il resto del Paese negli “anni del consenso”, ma di fronte all’insorgenza jugoslava fu difficile occultare i trascorsi nelle organizzazioni di regime o il possesso della tessera del partito, condizione indispensabile per lavorare in certi ambiti: tanto bastava per essere ritenuti “nemici del popolo” da eliminare.

Al progetto espansionista jugoslavo, abbellito dalla retorica dell’edificazione del socialismo, aderirono formazioni partigiane comuniste italiane, disposte a cedere porzioni di territorio nazionale ad una potenza straniera pur di non restare entro i confini di un’Italia liberata dagli anglo-americani e quindi destinata ad essere allineata al mondo liberal-capitalista. I partigiani della Brigata Osoppo contrari a questo scenario furono eliminati alle Malghe di Porzus dalla Brigata Garibaldi Natisone, mentre reparti della Divisione Decima, molto autonoma nei ranghi della Repubblica Sociale Italiana, fermarono le milizie jugoslave che si avvicinavano a Gorizia già nel gennaio 1945. Visto quel che avvenne poi a guerra finita nel capoluogo isontino, da cui vennero deportate dai “titini” oltre 660 persone di cui non si seppe più nulla, è comprensibile che il Comune di Gorizia abbia accolto i reduci di quella battaglia in nome dell’italianità e non del nostalgismo.

Italianità era il sentimento cui si appellava Vittorio Emanuele Orlando aprendo i lavori dell’Assemblea costituente invocando Trieste italiana, ma era un riferimento cui il Partito Comunista doveva spesso rinunciare in quanto allineato con la politica estera sovietica. Italianità era il motivo per cui a Gorizia come a Trieste, Pola, Fiume e Zara ex partigiani, antifascisti ed autonomisti finirono nelle liste di proscrizione dell’Ozna, la polizia segreta di Tito, assieme a fascisti, collaborazionisti e “nemici del popolo” come imprenditori, professionisti e rappresentanti dello Stato italiano (maestri, finanzieri, poliziotti, funzionari comunali). Italianità era il motivo per cui a diverse ondate oltre 300.000 istriani, fiumani e dalmati abbandonarono le terre in cui vivevano radicati da secoli, ma che erano state occupate e poi annesse da una dittatura che poteva accettare solamente una reliquia di presenza italiana incasellata e manovrata nei rigidi apparati predisposti dal regime di Belgrado. Dopo che l’epurazione politica delle foibe, delle uccisioni sommarie e dei campi di concentramento cagionò in varie fasi e modalità circa 10.000 vittime, seguì la pulizia etnica rappresentata dall’Esodo. La saccenza e l’accanimento, con cui tali eventi vengono ridimensionati, decontestualizzati e reinterpretati da studiosi che antepongono la simpatia ideologica all’approccio asettico weberiano dello scienziato, dimostrano dove effettivamente fiorisca l’uso politico della storia.

Mentre nella ex Jugoslavia continuano ad emergere foibe e luoghi di uccisioni sommarie compiute dal regime comunista di Tito nei confronti di oppositori sloveni e croati,  i deplorevoli striscioni apparsi in questi giorni a Genova – NO FOIBE NO PARTY – dimostrano come tanta strada debba ancora farsi per giungere ad una sincera ed effettiva riconciliazione storica.

 

Giuseppe de Vergottini
Presidente Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati