Quis contra nos? Storia della Reggenza del Carnaro
Tra le molte iniziative e pubblicazioni che hanno caratterizzato il centenario della spedizione di Gabriele d’Annunzio a Fiume e della Carta del Carnaro, segnaliamo oggi l’opera del Console Federico Lorenzo Ramaioli “Quis contra nos? Storia della Reggenza del Carnaro da d’Annunzio alla Costituzione di Fiume”, di cui pubblichiamo l’introduzione dell’Autore.
Per decenni, nella storia recente, la regione del Carnaro è stata al centro delle dispute e delle discordie sorte con riferimento alla questione del confine orientale d’Italia, con alterne vicende attorno alle quali si sono intrecciate le vite di quanti, provenienti da vari contesti, si sono battuti per le sorti della città di Fiume e delle terre circostanti.
Quel Sinus Carnarius, che già sotto il regno dell’Imperatore Augusto veniva fatto coincidere con il termine della Regio X Venetia et Histria, e che Dante menziona nella sua Commedia come limite ultimo d’Italia, rappresenta infatti quella terra di frontiera, quell’estremo confine orientale che ha infiammato, di volta in volta, personalità del mondo militare, artistico, politico e letterario, che ne rivendicavano il possesso per l’una o per l’altra parte, immaginando ora questo ora quell’assetto istituzionale e sociale per l’edificazione di una nuova civiltà.
In tutto ciò, una è l’esperienza che forse più di tutte le altre ha segnato le terre del Carnaro con la sua breve e fulminea avventura, fatta di passioni violente e di tensioni irrisolte, di contraddizioni latenti e di gioie feroci, e, soprattutto, di una incontenibile volontà di innovazione e di sperimentazione. Si tratta dell’esperienza della Reggenza italiana del Carnaro, proclamata da Gabriele D’Annunzio in seguito alla sua presa della città, alla testa dei suoi legionari e di quanti, insieme a lui, coltivassero il mito della “vittoria mutilata” al termine della Prima guerra mondiale. La proclamazione, come noto e come si avrà modo di esaminare più nel dettaglio, fece di Fiume una città-Stato indipendente, stante l’impossibilità di procedere all’annessione del Carnaro al Regno d’Italia, e diede il via a un’unica e straordinaria esperienza politica e giuridica, che avrebbe anche avuto importanti ricadute nei decenni successivi, anche al di là dei confini orientali d’Italia.
Si trattò di qualcosa di unico, in ragione delle differenze, e talvolta delle contraddizioni, che sussistevano tra quanti si lanciarono nell’impresa di prendere possesso della città “irredenta”, dando vita a un modello sociale del tutto diverso, a suo modo, da quelli precedenti e da quelli posteriori. Si trattò, ancora, dell’estrema volontà di sperimentare, di costruire, di edificare nuove strutture sociali, nuove istituzioni, di redigere nuovi statuti e nuove norme, al di là di ogni possibile regola e condizionamento, in una fucina di visioni e di concezioni radicali volta a costruire la città ideale, a portare a esistenza il mito che divenne presto noto come “città di vita”.
Si trattò di un regno della fantasia, di un governo di poeti e di avventurieri, di soldati e di artisti, in cui futuristi, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti, patrioti italiani e stranieri, si incontrarono per dare vita a qualcosa a cui, sino ad allora, il mondo non aveva mai assistito. Qualcosa che, nonostante la sua breve vita, nella mente dei suoi creatori avrebbe dovuto lanciare la propria sfida alla società del tempo, in un afflato di libertà assoluta che, appunto in quanto utopistica, non avrebbe potuto durare a lungo.
Uno degli aspetti più particolari della Reggenza fu senza dubbio quello del suo Statuto, ossia della sua Carta costituzionale, che, ancora oggi, risulta essere un documento giuridico di estremo interesse e di estrema attualità, in ragione di alcuni principi cardine che, oltre a rivoluzionare il panorama giuridico italiano del tempo, anticipò per certi aspetti diverse innovazioni posteriori, non da ultimo recepite dalla Costituzione repubblicana del 1948. Anche in questo caso, infatti, si trattò di sperimentare la redazione di una Carta fondamentale che non avrebbe dovuto semplicemente regolare i reciproci rapporti fra i poteri del nuovo Stato, ma delineare piuttosto i lineamenti di una nuova forma di civiltà, sospesa tra sogno e realtà, tra leggenda e mito, tra futuro e passato.
Si trattò, come si vedrà, di qualcosa di unico, ossia di un documento giuridico che, inseguendo un ideale immaginifico e assoluto, mitico ed estremamente innovatore, finì quasi col perdersi in un mondo di utopie e di versi, di arte e di leggenda, e, soprattutto, di vita vissuta all’estremo delle possibilità. Si trattò, ancora, di un testo che, proprio in virtù dell’altezza delle sue aspirazioni e delle varie anime dei suoi protagonisti, sembrò non riuscire a relegare i suoi dirompenti contenuti in una cornice coerentemente giuridica, secondo le logiche di un diritto che, sino ad allora, non sembrava essere stato in grado di fornire risposte esaurienti a quella inesauribile fame di libertà e di sperimentazione che servì, appunto, da ispirazione per questa particolare esperienza. Sembrò quasi, a ben guardare, che gli strumenti del diritto non fossero di per sé sufficienti a esprimere una visione tanto vitalistica e allo stesso tempo tanto contraddittoria, tanto alta e allo stesso tempo tanto visionaria. Si trattò di un testo costituzionale che, a suo modo, fu molto più di un testo costituzionale, sino a essere in un punto manifesto politico e proclama poetico, esortazione popolare e documento artistico, richiamo a civiltà remote e incitamento all’edificazione del futuro.
Il presente testo, dopo aver analizzato il contesto storico nel quale si colloca la proclamazione della Reggenza, si propone di esaminare i principi fondamentali del suo Statuto, l’organizzazione dei poteri che ne traspare, il ruolo dei cittadini e dei loro diritti e delle loro libertà, la concezione del lavoro e dei lavoratori, e tutto ciò che dalle norme statutarie ha influenzato, più o meno consapevolmente, le esperienze giuridiche posteriori. Una rilettura, quindi; una rilettura di un documento giuridico talvolta relegato nell’ambito delle stravaganze del suo “immaginifico” creatore, qui protagonista nella sua duplice veste di poeta e di soldato, ma anche la rilettura di un documento troppo spesso dimenticato, in un contesto che dalla sua disamina può ancora ricavare notevoli spunti di riflessione in termini di teoria del Diritto e dello Stato. E ciò è soprattutto vero in un tempo, come la nostra contemporaneità, in cui si delineano all’orizzonte importantissime sfide capaci, per se stesse, di porre in discussione importanti principi, già considerati per acquisiti, del patrimonio giuridico occidentale.
Una rilettura di un testo, in conclusione, che acquista ancor più valore proprio oggi, in un contesto giuridico caratterizzato da numerose incertezze e da contraddizioni latenti, e in cui riscoprire un documento di simile portata non potrà che stimolare interessanti riflessioni anche per gli anni a venire.
Federico Lorenzo Ramaioli, Quis contra nos? Storia della Reggenza del Carnaro da d’Annunzio alla Costituzione di Fiume, Historica, Roma 2018, 304 pp.