Centro di Documentazione Multimediale della Cultura Giuliana Istriana Fiumana Dalmata
November 24th, 2024
+39 040 771569
info@arcipelagoadriatico.it

Archive: Posts

B059C228 1741 4A9D 89FB A9E871B62236

Madri nel gulag di Tito

David Grossman racconta la tragica storia di Panić Nahir (Vera) e sua figlia, Tiana Wages (Nina), nella ex Jugoslavia

Panić Nahir, nel romanzo La vita gioca con me di David Grossman (Mondadori, traduzione di Alessandra Shomroni) si chiama semplicemente Vera. Sua figlia Nina, nella realtà, è Tiana Wages. Eva aveva chiesto a David Grossman di scrivere la sua storia e quella di sua figlia. E lo scrittore israeliano aveva accettato di raccontarla a sua volta e reinventarla, a modo suo. Quando il libro è stato scritto, nel febbraio 2019, Eva ormai non c’era più. Così la sua storia molto conosciuta in ex Iugoslavia squarcia il velo delle tenebre sui gulag di Tito e, in particolare, sugli orrori del campo di rieducazione dell’isola Goli Otok. Chiamata “Alcatraz dell’Adriatico”. Ma quello che si srotola, di pagina in pagina, è anche il racconto di come non si possa fuggire dal passato, dalla sua verità come dalla sua menzogna, cucite insieme senza pace. È anche un romanzo sul ruolo della madre, sul fatto inesorabile che “non ci sono esami di riparazione per le madri”. È anche una storia di abbandono, di abbandoni. Da un abbandono ne germoglia un altro. Il passato è il vero campo di detenzione:

“Se per cinquanta e passa anni ti sforzi di dimenticare una cosa, per esempio che tua madre ti ha abbandonato quando avevi sei anni e mezzo, va a finire che poi ti dimentichi tutto”.

 

La figlia di Nina si chiama Ghili ed è stata abbandonata, a sua volta, dalla madre all’età di tre anni e mezzo. Sua madre, Nina, era stata abbandonata da Vera all’età di sei anni e mezzo. Ma non era stato un vero abbandono. La madre era stata deportata sull’isola di Goli Otok perché accusata ingiustamente di essere una spia russa al servizio di Stalin, come suo marito. Nella vita spesso ci si trova davanti a un bivio: “rivelare l’oscuro segreto della propria vita o continuare a mentire?”. Ma, ad un certo punto, si sente l’urgenza di sapere quale sia la verità. Mettendo in conto di ferire, e di ferirsi. «“Ciò che è stato è stato” mormora Vera, “e bisogna accettarlo.” “Ma supponiamo, mamma, è solo una domanda, se per esempio avessero” “Che cosa? Dillo chiaramente, Nina.” “No, pensavo… se ti avessero” “Che cosa? Se mi proponevano cosa?” urla Vera con amarezza picchiando i pugni sulle cosce. “Che cosa potevo dargli per non tradire tuo padre? Per non infangarlo?”». Il fatto è che bastava solo una firma, per decidere il suo destino. Bastava semplicemente ripudiare il marito Novak Miloš, un marito che Vera amava più della sua stessa vita (ma che era morto suicida in carcere) e che non era una spia di Stalin. Che cosa doveva fare? Nel suo racconto, c’è un ufficiale alto, calvo che le dice, nell’interrogatorio:

 

“Questa stanza ha due porte. Una a sinistra, per tornare a casa libera, da tua figlia, e una a destra per Goli Otok per parecchi anni di lavori forzati. Hai tre minuti di tempo per decidere”.

 

Il medico colonnello le dice:

 

“Preferisci uomo morto a bambina viva? Che razza di madre sei? Di donna, di essere umano”.

 

Appunto, come si fa a scegliere? A decidere, di fronte alla morte. Davanti alla memoria, al destino. All’ombra lunga del futuro che grida violento contro il suo passato. Qual è il vero tradimento? Tradire la memoria di un amore, infangarne il nome, oppure rubare l’infanzia ad una bambina, riempirla di ferite? Come si fa a decidere chi tradire e chi no? Nell’Alcatraz dell’Adriatico, poi, c’è solo buio e nebbia. L’orrore di donne picchiate, con assi chiodate e con fruste, donne che perdevano occhi, denti, che vivevano l’incubo. Allora, per Ghili, guardare la propria madre che l’ha abbandonata da piccola è come cercare un volto nell’oscurità di un passato che continua a riaffiorare in superficie, come un cadavere.

 

“Mi ha fatto paura. Ho provato quella sensazione di timore che si avverte soltanto in presenza delle tenebre”.

 

Nina, la figlia di Vera, ha scelto di vivere alle Svalbard, nel Mar Glaciale Artico, quasi vicino al Polo Nord, in un’isola piena di buio e di ghiaccio e di lavorare a un progetto per la conservazione dei semi delle piante commestibili di tutto il mondo. Perché anche lei è rimasta intrappolata, per cinquantasei anni, dentro un campo di rieducazione.

“Non dovrei essere già rieducata? Aver superato questa cosa? Perdonato? Essermi buttata tutto alle spalle ed essere andata avanti con la mia vita?”

 

Rivedere le persone fondamentali della nostra vita dopo diversi anni…sembra un film. Non a caso Ghili e suo padre, Rafael, un regista cinematografico, cercano di fare un documentario su questa storia. Parlando di Nina, Ghili parla di sua madre, come se parlasse di un’altra persona, non di chi l’ha messa al mondo, ma poi l’ha abbandonata, tradita.

 

“Come se non si fosse soffermata sulla vita. Io e il papà ci sentiamo attratti dal suo viso. Ci sembra di guardare un film – un ennesimo film – rimasto nascosto per decenni. Una pellicola sulla vita che non abbiamo avuto ma che avremmo potuto avere. Sul viso di Nina, passano ondate di affetto, di gioia, di delusione, di tristezza. E sorrisi. Oddio, com’è caloroso e tranquillo e semplice il suo sorriso. Dov’era quando io ne avevo bisogno?”

Linda Terziroli – 23/08/2021

Fonte: L’intellettuale dissidente