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Foiba Di Villa Surani

Il “conto” dell’8 settembre è stato pagato ai confini orientali

8 settembre come giorno del riscatto dell’Italia nella Seconda guerra mondiale. 8 settembre come inizio della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo su più vasta scala. Le consuete cerimonie hanno insistito su questi aspetti, ma per gli italiani del confine orientale tale data è ben rappresentata dal titolo del celebre saggio di Ernesto Galli Della Loggia «La morte della Patria».

Una Patria entrata in agonia nelle ritirate in Russia ed in Nordafrica, nella guerra di logoramento nei Balcani e nel collasso del regime fascista. Una Patria idealizzata ed esaltata nelle terre irredente fino al momento in cui si materializzò nel novembre 1918, presentandosi negli austeri panni del Governatorato militare prima e della dittatura mussoliniana in seguito, con in mezzo neanche un biennio di Italia liberale funestato da tensioni sociali e politiche. Una Patria che soprattutto nelle province di confine esasperava con le politiche di nazionalizzazione delle masse un’italianità che poco aveva a che fare con il mito della fratellanza tra i popoli guidati da Roma, mito in cui si era identificata la cospicua comunità mazziniana triestina ed istriana. Una Patria indebolita dagli sforzi richiesti dalla Seconda guerra mondiale e che alla frontiera orientale aveva visto infiltrarsi nuclei sempre più consistenti di partigiani sloveni e croati, i quali combattevano non solo in nome dell’antifascismo, ma soprattutto per strappare all’Italia Trieste, Gorizia, l’Istria, Fiume e Zara.

In un’Italia che era stata fino al 25 luglio 1943, allorché fu deposto Benito Mussolini, infiltrata dagli elefantiaci ed onnicomprensivi apparati del Partito Nazionale Fascista, era difficile trovare qualcuno che non avesse posseduto la tessera del partito o svolto incarichi in qualche organizzazione del regime. Nel resto della penisola quasi tutti sostituirono rapidamente e senza grossi problemi l’orbace con ostentazioni di convinto antifascismo, nelle terre del confine orientale non fu altrettanto semplice.

Il disordine ed il fuggi fuggi generale, che fecero seguito la sera dell’8 settembre alla diffusione del comunicato del capo del Governo Pietro Badoglio inerente l’armistizio, crearono un vuoto di potere che condusse al tracollo definitivo sul piano politico, militare ed istituzionale lo Stato italiano. Questo spazio fu rapidamente occupato dalle truppe tedesche: pochi furono gli episodi di resistenza militare da parte delle Forze Armate disorientate, prive di ordini e di motivazioni, laddove nella ex Jugoslavia operava un Esercito di Liberazione Nazionale che aveva in Tito il suo leader carismatico politico e militare. I suoi partigiani ostentavano la bandiera rossa dell’internazionalismo comunista, ma miravano ad un’espansione territoriale a scapito delle confinanti Italia e Austria.

Accreditatosi agli occhi degli Alleati occidentali come il più tenace oppositore della presenza tedesca sulle terre del Regno di Jugoslavia sconfitto e sembrato nell’aprile 1941, non si peritò in seguito di indirizzare i bombardieri anglo-americani su Zara, facendola radere al suolo dopo decine di bombardamenti. Impadronitosi dopo l’8 settembre di gran parte delle armi, delle munizioni e del vettovagliamento delle divisioni italiane di presidio nei Balcani e dissoltesi al cospetto delle colonne germaniche, quell’esercito partigiano poté anche prendere momentaneamente possesso di porzioni di territorio metropolitano (entroterra istriano, Spalato e altre località entrate a far parte del Governatorato di Dalmazia nella primavera 1941) e scatenare una prima ondata di arresti, deportazioni, violenti interrogatori e stragi di massa.

Mentre il re ed il governo scappavano a Brindisi, nella penisola istriana i tedeschi s’impossessavano solamente della costa, temendo uno sbarco, sicché nell’entroterra i presidi militari si dileguavano, le autorità non ricevevano ordini dall’alto e presero il potere i partigiani del Partito Comunista Sloveno e del Partito Comunista Croato. Il 15 settembre costoro dichiararono unilateralmente l’annessione dell’Istria alla futura Jugoslavia ed avevano già cominciato a perseguitare coloro i quali per effetto del loro ruolo sociale o lavorativo rappresentavano lo Stato italiano, una presenza cioè che andava estirpata e annientata: vennero colpiti maestri, funzionari pubblici, agenti di sicurezza e loro congiunti.

Analogamente in Dalmazia e a Spalato in particolare i “titini” colpirono duramente la già ridotta comunità italiana prima di venire sconfitti dalle divisioni tedesche, che assegnarono la costa dalmata, eccetto Zara, allo Stato Indipendente Croato.

Questa prima mattanza di italiani cagionò circa un migliaio di vittime nell’arco di un mese. A inizio ottobre 1943, infatti, le truppe germaniche scatenarono un’offensiva che costrinse i partigiani a ritirarsi dall’Istria, la quale entrò a far parte assieme a Trieste, Gorizia, Udine, Lubiana e Fiume della Zona di Operazioni Litorale Adriatico, una sorta di governatorato militare tedesco nel quale apparivano assai effimeri i poteri della Repubblica Sociale Italiana, costituita da Benito Mussolini nell’Italia centrosettentrionale.

Il Regno d’Italia ridimensionato a Regno del Sud privo di personalità giuridica sul piano internazionale in seguito alla firma della resa incondizionata e la Rsi alle prese con le ingerenze politiche e militari tedesche. La Resistenza che al confine orientale vedeva l’appartenenza nazionale messa in discussione non solo dalle forze partigiane slave, ma anche dall’adesione delle formazioni comuniste al progetto titoista, preferendo l’annessione alla nuova Jugoslavia comunista che restare in un’Italia afferente al mondo occidentale capitalista. La Patria, dopo l’esasperazione del ventennio fascista, era morta l’8 settembre e proprio nelle province del confine orientale era stata sepolta; anzi, infoibata.

Lorenzo Salimbeni – 08/09/2021

Fonte: L’Adige