Luogo: Venezia
A Venezia ragionando di strategie e contenuti Un Adriatico orientale “fatto a pezzi” per favorire interessi economici, politici, geostrategici. La storia di queste terre non è una tranquilla passeggiata nei secoli, ma una pentola in continua ebollizione dove sono stati precipitati uomini e fatti, avvenimenti e pregiudizi generando contrapposizioni difficili da sistematizzare e ancor più da spiegare. Più facile procedere per luoghi comuni che, soprattutto per quanto riguarda le vicende dell’ultimo secolo, il Novecento, sono diventati una costante per giustificare tragedie e connivenze, per dare una giustificazione a realtà anacronistiche, per creare comode alibi alle nuove strategie di potere, alle divisioni in blocchi di quel mondo generato dalle guerre. Ma trascorso mezzo secolo, tramontate le grandi ideologie, l’apertura degli archivi rimette in discussione tutta la storiografia, quella ufficiale affidata agli specialisti e quella spicciola arrivata sottoforma di slogan alla gente comune e che tanta confusione ha saputo creare anche nei protagonisti della stessa. E’ tempo di rimettere le cose a posto, di far conoscere la verità. Per il mondo del popolo sparso degli Italiani dell’Adriatico orientale, il10 Febbraio, Giorno del Ricordo sancito da una legge, s’è aperto il vaso di Pandora. Non solo l’Italia, ma ogni luogo, anche città lontane, dove gli esuli hanno stabilito la loro nuova dimora dopo il Trattato di pace del 1947, dedicano importanti manifestazioni o semplicemente momenti di riflessioni su una vicenda che pesa sulla coscienza collettiva: l’Esodo e le foibe. Che cosa dire alla nazione e a quegli uomini di buona volontà che vogliono sapere, conoscere quanto accadde allora e nei successivi sessant’anni?La necessità di interrogarsiNasce da questa esigenza fondamentale, innescata proprio dalla cerimonia del 10 Febbraio, la necessità di interrogarsi su quanto successe allora e stabilire delle strategie per far conoscere oggi all’Italia e al mondo una vicenda emblematica, ricca di spunti da analizzare: con risvolti negativi per la crudeltà con la quale si è determinato il destino di un popolo, e risvolti positivi se si tiene conto del grado e dell’esempio di civiltà che le genti di queste terre hanno saputo esprimere nel mondo. Da qui l’incontro di sabato scorso a Venezia, voluto dalla Federazione delle Associazione degli Esuli, organizzato con il contributo del CDM di Trieste e la partecipazione della Regione Veneto con il Dirigente della Direzione Relazioni Internazionali, Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Pari Opportunità, Diego Vecchiato, che ha visto riuniti in quello che diventa ora un “work in progress”, storici, politologi, esponenti del mondo degli Esuli per ragionare sulle strategie necessarie a trasformare il 10 Febbraio, da mero ricordo, in un’occasione mediatica fondamentale per mantenere e sviluppare la memoria e la realtà di un popolo e farla conoscere all’opinione pubblica. Partendo dalla storia, o meglio dalla storiografia che – come sottolineato dai proff. Raoul Pupo, Fulvio Salimbeni e Luciano Monzali – ha bisogno di affondare nelle pieghe di una realtà di confine esaltante e penalizzante nello stesso tempo che ha visto gli italiani occupati ed occupatori, ha creato vittime e carnefici producendo interpretazioni bivalenti, spesso ambigue, dei fatti successi. L’attualità, che riguarda il dibattito storico a cavallo di confine, induce ad alcuni esempi incrociati come l’assurda occupazione italiana della regione di Lubiana e la realtà dei dispersi nei campi di internamento operanti nell’ex Jugoslavia anche a guerra conclusa contando sul vergognoso silenzio-assenso della politica internazionale. Perché tacere su questi fatti non ha impedito che si ripetessero, la pulizia etnica seguita alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia ne è un esempio. Città sconvolte, realtà interrotte senza che il mondo civile – ancora una volta – sentisse la responsabilità della tragedia. Così è stato per l’Esodo e le foibe sui quali si voleva stendere un velo di pesante silenzio, per sempre.La riscoperta dell’AdriaticoE invece – afferma Lucio Toth – noi lavoriamo sulla riscoperta dell’Adriatico per portare avanti la nostra cultura, per superare i pregiudizi ancestrali che noi esuli ci siamo portati dietro e che rischiano di schiacciarci come un rullo compressore. Perché la vera battaglia va combattuta contro chi non conosce la storia del confine orientale ed è convinto che l’italianità delle nostre terre sia un fenomeno recente, indotto da una migrazione in epoca fascista. Questo è il vero provincialismo dell’italiano che ignora e del burocrate che a Roma non sa della nostra storia. Grazie anche al 10 Febbraio, ora si scrive di più e si ha maggiore consapevolezza di ciò che va salvaguardato. Possiamo dire – afferma Raoul Pupo – che sia stata superata l’angoscia dell’estinzione. Il materiale raccolto in questi anni – in particolare dall’IRCI di Trieste e dal CRS di Rovigno - rappresenta un punto fermo per la ricerca storiografica e per la serenità di un mondo disperso. Anche se le cose ancora da studiare sono tante: la geografia dell’esilio, per esempio, e la digitalizzazione dei dati statistici a disposizione, in particolare di quelli raccolti dall’opera profughi. A livello generale bisogna considerare l’esodo nel tema più ampio dello spostamento di popolazioni a conclusione della seconda guerra mondiale all’interno del quale si possono trovare analogie e profonde differenze che ne disegnano precisamente i contorni. A livello nazionale, in tema di confini – afferma Salimbeni – importante è il paragone tra la Venezia Giulia e la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige, quali le molle che hanno fatto scattare l’interesse a mantenere le ultime due e a rinunciare alle terre adriatiche. L’Istria nell’immaginario italiano era solo pietra priva di ogni ricchezza che avrebbe giustificato un diverso coinvolgimento. L’altro punto fondamentale, da spiegare al pubblico, è la convinzione dell’Italia di non dover pagare, a guerra conclusa, quei tre anni prima dell’8 settembre, di alleanza con i nazisti. Ricordiamo che già Ciano, ancora durante il regime, aveva affermato che se i Tedeschi avessero chiesto Trieste e il suo territorio, l’Italia li avrebbe ceduti. E sta proprio nella conduzione della politica estera italiana – afferma Monzali – la chiave di lettura della “disgrazie” adriatiche, e non solo di quelle più recenti. L’Adriatico non era la chiave di grandi interessi economici e, a livello politico e nazionale era una fucina di continue tensioni sin dalla creazione degli Stati nazionali per il suo atavico attaccamento alle autonomie locali: una realtà scomoda alla quale non era difficile rinunciare. Ad ulteriore conferma di un provincialismo romano - come afferma Toth – che ignora la nostra realtà.Sfatare i pregiudiziA tanti decenni di distanza, difficile sfatare pregiudizi radicati ed ignoranze stabilizzate. La percezione esatta e corretta di questa vicenda come parte della storia nazionale, è difficile da raggiungere. L’amarezza si concretizza nelle parole di Paolo Segatti, sociologo, politologo che da indagini condotte nel 1994 e nel 2004, sulla conoscenza delle vicende adriatiche da parte della nazione italiana, ha raccolto il medesimo atteggiamento e gli stessi risultati. L’Italia ignora. E quelli che ne hanno una qualche percezione la identificano con uno dei grandi temi della politica elettorale dell’MIS prima e di AN poi, quasi fosse una loro invenzione. La nostra – spiega il prof. Giuseppe de Vergottini di Coordinamento Adriatico, docente costituzionalista della Facoltà di legge di Bologna – è un’identità distratta e non molto motivata e su questa noi dobbiamo lavorare. Non a caso uno dei documenti fondanti dell’UE, firmato a Lisbona, promuove uno dei principi di riconoscimento dell’identità degli Stati europei come uno dei progetti cardine dell’Europa stessa. Che cosa fare? Legare il ricordo all’oggi, all’attualità, liberarsi dall’ostacolo della politica riscoprendo un nuovo livello di rapporti con le realtà locali, anche dei nuovi Stati di Slovenia e Croazia, con il coinvolgimento del grande assente di questi anni: la chiesa, che può avere un ruolo fondamentale. Entrare consapevolmente in una fase di pace, non necessariamente politica, nella quale sia possibile chiedere ragione dei torti subìti per il raggiungimento di una stabilizzazione. Avviare ricerche mirate e coordinate affinché vengano sottratte alla gestione di testimoni della storia che, per una ragione anagrafica, sono destinati a scomparire. Chiarire le questioni giuridiche a livello europeo. Affidare le risposte che ci assillano ad una più ampia dimensione europea che ci può aiutare a capire ed accettare che il nostro non è un fenomeno circoscritto ma che ha dimensioni ben più ampie che coinvolgono tutte le realtà del Vecchio continente ed appartengono ad uno spazio ed un tempo precisi. Tra i filoni storiografici utili al fine di definire le “ombre” della storia, sono ancora da esplorare: i fenomeni di collaborazionismo, il ruolo del PCI, dimensioni e metodologia delle opzioni, la toponomastica, arte e territorio, la testimonianza dei viaggiatori attraverso il tempo. Di tutto ciò è importante produrre comunicazione anche in altre lingue, diverse dall’italiano, per far arrivare il messaggio sempre più lontano. Sostanzialmente – ha concluso Stelio Spadaro – dobbiamo fare in modo che attraverso questi incontri e l’utile dibattito che ne viene stimolato, si creai un volano di interesse che mantenga viva la dimensione del 10 Febbraio anche nell’arco dell’anno.Preziose testimonianzeImportanti le testimonianze sul lavoro svolto fornite in questo senso durante il dibattito: da Lorenzo Rovis, presidente dell’Associazione delle Comunità Istriani di Trieste, già impegnato in un progetto analogo di conferenze in sede sulla realtà dell’esodo; Liliana Martissa che ha illustrato il coinvolgimento in queste tematiche di Coordinamento Adriatico di Bologna; Marino Micich del Centro Studi fiumani che ha illustrato il prezioso, ed unico, esempio di collaborazione tra storici italiani e croati (Roma e Zagabria) sulla ricerca e pubblicazione dei nomi degli “scomparsi” a Fiume nell’immediato dopoguerra; Carlo Cetteo Cipriani sul ruolo delle Società di archeologia e Stroia Patria; Renzo de’ Vidovich dell’Associazione Rustia Traine sulle strategie già adottate dai Dalmati per mantenere il rapporto con le città dalmate e le locali Comunità degli Italiani, lavoro – afferma – che noi sappiamo se viene recepito sia a livello ufficiale che di percezione mediatica, Tullio Valery della Scuola Dalmata di Venezia sul tema della reciproca conoscenza; Francesca Gambaro dell’Anvgd Comitato di Milano sulla necessità di operare maggiormente a livello della comunicazione; Bruno Crevato Selvaggi sulla necessità di riunire in rete e far operare la Consulta delle Società ed enti di archeologia e storia patria; Donatella Schurzel sul rapporto con le scuole e la necessità di portare i giovani a conoscere le terre adriatiche. Lo scopo di questo incontro – hanno concluso Renzo Codarin e Lucio Toth – non era di incontrarci per esaminare ciò che abbiamo fatto sino ad oggi, ma constatare le manchevolezze, lo spazio ancora da conquistare denunciando – quando necessario – l’egoismo della politica italiana nei nostri confronti. L’incontro spalanca un’altra porta: infatti, non si esaurisce con il dibattito di Venezia. Si tratta, è stato più volte sottolineato, di un “work in progress” che proseguirà con un prossimo appuntamento, dopo il 10 Febbraio 2008, in quel di Bologna a cura di Coordinamento Adriatico e dell’Università. Verrà ampliata la rosa degli specialisti già coinvolti, confidando anche nella partecipazione dei rappresentanti di Unione Italiana – già invitati a Venezia ma assenti per la concomitanza con altri impegni – e di quegli uomini di buona volontà intenzionati a definire nuove strategie per far arrivare lontano “la voce” delle genti dell’Adriatico Orientale.Rosanna Turcinovich Giuricin
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