Confine orientale, prove di dialogo
«Nessuno credeva che si potesse fare una giornata come questa », tirava il fiato ieri a Milano Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi, chiudendo con sollievo otto ore di convegno andate lisce. Già, perché il tema non era dei più pacifici (‘La drammatica vicenda dei confini orientali’) e il pubblico era un inedito insieme di aderenti all’Associazione nazionale partigiani d’Italia e di esuli giuliano-dalmati che da quei confini orientali – Istria, Fiume, Dalmazia – dovettero fuggire alla fine della seconda guerra mondiale per le ben note vicende spesso riassunte nel termine ‘foibe’. «Non daremo la parola a nessuno», aveva esordito otto ore prima uno Smuraglia più teso, «abbiamo portato questo seminario a Milano per sottrarlo alle emozioni e far parlare esclusivamente gli storici». Così per la prima volta i due mondi – le vittime dei partigiani comunisti da una parte, e coloro che si riconoscono nella Resistenza dall’altra – sedevano nella stessa platea a Palazzo Marino, mentre gli storici presentavano tesi anche molto contrarie. Sono passati oltre 70 anni ma i nervi sono ancora scoperti. Le diverse anime dell’Anpi lo dimostrano: se alcuni delegati ormai partecipano al Giorno del Ricordo, istituito per legge nel 2004, altri hanno chiesto il ritiro della tessera a Simone Cristicchi a causa del suo musical civile ‘Magazzino 18’, colpevole di aver raccontato proprio le vicende del confine orientale italiano. «Polemiche che si dovevano evitare », ha commentato ieri il presidente nazionale dell’Anpi, che all’epoca dei fatti aveva chiesto tempo per andare a teatro e giudicare, «in fondo non è che spettacolo… era un errore sollevare una tempesta politica», ha concluso con qualche ambiguità.
Residui ideologici ed evidenze storiche convivono nelle parole di alcuni relatori, a volte ancora incapaci di accettare un Giorno del Ricordo per le stragi titine: «Il problema del confine tra Italia e Slovenia è sempre stato molto acceso da entrambe le parti – ha ammesso Jože Pirjevic dell’Università del Litorale di Capodistria – e il confine che voi chiamate orientale e noi occidentale è sempre stato tracciato con la violenza. Ma voi avete perso quelle terre già con l’8 settembre del ’43, perché Hitler se avesse vinto la guerra non ve le avrebbe mai restituite – ha giustamente sottolineato –, poi di nuovo nel ’45, quando noi grazie a Stalin abbiamo ottenuto quasi tutto ciò che volevamo. Ora l’Italia per costruirsi un collante ideologico ha voluto il Giorno del Ricordo… ». «In effetti la Giornata della Memoria per la Shoah è un fatto europeo, mentre il Giorno del Ricordo è un fenomeno locale», aveva già sostenuto Marcello Flores (Università di Siena), che pure notava come «fare silenzio sui crimini commessi regge a breve termine, poi alla lunga diventa un’arma nelle mani degli avversari, anche i crimini commessi dai partigiani».
E tante sono ancora le zone d’ombra proprio all’interno della Resistenza ai confini orientali: «Nel rapporto tra partigiani italiani e jugoslavi le rivendicazioni territoriali furono centrali – ha spiegato Alberto Buvoli dell’Istituto friulano perla storia del movimento di liberazione –. La vicenda è troppo scomoda per alcune forze politiche, così si parla poco delle brigate italiane perché altrimenti bisognerebbe parlare anche del famigerato IX Corpus di Tito. Il Pci era l’unico interlocutore riconosciuto dai dirigenti croati e sloveni, che avevano tutto l’interesse che nascesse un movimento di Resistenza italiano ». Almeno finché era utile e purché si sottomettesse alle mire territoriali di Tito: «Ai partigiani italiani era negato il diritto di operare con proprie formazioni nella Venezia Giulia». Era l’addio al principio di autodecisione prima sbandierato. «Intanto la caldeggiata Resistenza italiana era nata: c’era la ‘Brigata Proletaria’ dei mille operai di Monfalcone… E in Istria tra i partigiani italiani chi voleva restare legato al Pci di Trieste era fucilato. Dal Pci persino Luigi Longo scriveva preoccupato a Togliatti che i battaglioni tra Cividale e Gemona avevano ricevuto l’ingiunzione di sottomettersi agli sloveni e andarsene oltre il Tagliamento, perché il Friuli orientale era ormai considerato territorio loro». ‘Bisogna fare un repulisti’, scriveva nel ’44 il braccio destro di Tito Edvard Kardelj, nome partigiano ‘Krištof’. Incredibilmente però nessuno storicoha nominato l’eccidio di Porzus, dove i partigiani rossi trucidarono i partigiani bianchi della Osoppo, né il gulag di Goli Otok, dove tra i perseguitati finirono anche centinaia degli operai di Monfalcone, accusati da Tito di essere rimasti fedeli a Stalin dopo la rottura tra i due dittatori. Sulle responsabilità del fascismo tra le cause delle violenze successive si è soffermata Anna Maria Vinci, (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia), notando come «il regime non riconoscesse la cittadinanza italiana a tutti, inducendo alla fuga 50mila sloveni, italianizzando i cognomi e costringendo le scuole alla lingua italiana. Un modello che comunque sortì una certa fascinazione sui giovani del mondo slavo». «Il regime di Tito slavizzò i cognomi, obbligava alla nuova lingua e sopprimeva le scuole italiane – spiegava poco dopo Gloria Nemec, sua collega allo stesso Istituto –. Le foibe sintetizzano una miriade di eventi spaventosi subìti dagli italiani dal ’43 in poi, e nell’esodo insieme a loro partirono anche decine di migliaia di croati e sloveni», ugualmente perseguitati dal regime comunista. «Tante ricerche, insomma, vanno ancora condotte e tante cose vanno scritte, ad esempio che le autorità jugoslave nonconcedevano il decreto di opzione e trattenevano gli italiani perché l’esodo, di massa, avrebbe smentito la bugia di chi sosteneva che l’italianità di quelle regioni era fittizia». Partiti gli italiani, infatti, «restarono dodici laureati in tutta l’Istria, le città si svuotarono, mancarono maestranze, professionalità… Ma intanto la persecuzione infuriò, tra chi era rimasto veniva requisito tutto, anche gli attrezzi. L’italianità era decapitata in tutti i suoi agenti di coesione, dalla Chiesa agli insegnanti ai mugnai…».
Piccole storie di singoli, che andrebbero riscoperte per raccontare la Storia, come dice Roberto Spazzali. «Ma se degli scomparsi nelle foibe, nei campi di concentramento di Tito, nelle fucilazioni, è difficile cercare le tracce, dei carnefici si può. Esistono memorie, lettere, diari, tanto materiale che va studiato – conclude Spazzali –. Ho letto il memoriale di un medico condotto che documenta omicidi, autopsie, sparizioni fin nei particolari: ma dov’è finita la documentazione del Tribunale di Pola? Ancora oggi gli anziani hanno paura di parlare: alcuni dei responsabili hanno fatto carriera politica, altri sono passati in Italia e magari confusi tra gli esuli che avevano perseguitato…».
Lucia Bellaspiga, «Avvenire», 17/01/16