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Dall’esodo a Napoli: la storia del “Rione dei profughi”

Un rione di Napoli accolse negli anni ’50 centinaia di famiglie divenute profughe a seguito della Seconda guerra mondiale. Tra questi istriano-dalmati, ma anche persone provenienti da Rodi, Smirne, Corfù. 

La data del 10 febbraio suscita ogni anno un dibattito particolarmente acceso, caratterizzato da una forte contrapposizione politica. Con questa intervista si vuole raccontare una storia quasi del tutto sconosciuta, che lega le vicende del rimpatrio dei profughi italiani nel secondo dopoguerra con quelle di una grande città come Napoli.

Emilio Cocco, Docente di Sociologia all’Università di Teramo e Delegato del Rettore per i rapporti con l’Adriatico e lo Ionio, e Pietro Sabatino, dottore di ricerca con esperienze di studio in Croazia, stanno portando avanti una ricerca sul Rione Baronessa di Napoli, noto come “Rione dei Profughi”. Costruito a metà degli anni Cinquanta nella periferia orientale della città, il Rione ospita circa 400 famiglie, alcune delle quali ancora discendenti di profughi italiani provenienti dall’Istria, dalla Dalmazia, dal Dodecanneso e dalle ex colonie, nonché da comunità italiane extra-peninsulari ben radicate in territori come il Levante sin da prima della formazione dello stato nazione italiano.

Come è nata l’idea di questa ricerca? Perché occuparsi di questa storia?

Pietro Sabatino: Tutto è partito da un episodio del tutto fortuito. Abitando nel quartiere di San Giovanni a Teduccio conoscevo l’esistenza del Rione Baronessa, a noi noto come “Rione dei profughi”, ma non l’avevo mai associato alla storia dei movimenti di popolazione del dopoguerra. Tutto nasce durante un caffè al bar. Accanto a me c’era un signore che parlava greco. Chiacchierando era emerso come in realtà il greco non fosse la sua madrelingua, in quanto nato a Fiume e sposato con una greca. Questo ha subito acceso la mia curiosità e mi ha spinto a indagare più a fondo su questa storia.

Emilio Cocco: Da una parte il tema degli esuli è legato a una storiografia e a una visione molto politicizzata della storia nazionale e, dall’altro lato, localizzato a ridosso del confine orientale. A sud di Roma, la vicenda dei profughi si fa più confusa e poco conosciuta. Per noi è stato curioso scoprire l’esistenza di un quartiere del genere in una grande città del Sud. L’arrivo di persone provenienti da aree considerate italiane ma fuori dalla penisola ha giocato un ruolo importante nella costruzione della cittadinanza repubblicana italiana. Nel caso specifico, queste persone vengono collocate in un quartiere industriale e periferico. È quindi un caso studio molto interessante per comprendere alcune vicende complesse della nostra storia. In un tale contesto infatti è possibile identificare varie questioni: quella meridionale, quella dei rimpatri, dello sviluppo delle periferie urbane, dell’industrializzazione.

Come sono arrivate queste famiglie a Napoli?

S: La legge 137 del 1952 garantiva ai profughi una quota del 15% nell’accesso agli alloggi popolari. Il Rione viene costruito nel 1955 allo scopo di ospitare queste persone. Al tempo, i centri per i profughi erano sparsi in tutta Italia con un significativo squilibrio territoriale: l’80% erano infatti localizzati nel Centro-Nord. La stragrande maggioranza delle famiglie del Rione dei Profughi provenivano dal campo di Aversa, il più grande della Campania e attivo fino agli anni Ottanta.

Come si è evoluto nel tempo il rapporto tra profughi e comunità locale?

C: Molte di queste persone non avevano mai visto né Napoli né l’Italia, pur avendo origini italiane. Il Rione era in realtà una struttura confinata, con i profughi dentro e i napoletani fuori. Questo non ha però impedito la nascita di scambi, così come di sospetti reciproci. I napoletani, da parte loro, mostravano una sorta di curiosità verso i nuovi arrivati. Questo rapporto si è poi evoluto con il passare del tempo, con la nascita anche di relazioni più strette fino ad arrivare a matrimoni “misti” tra profughi e napoletani autoctoni.

S: Rispetto ad altre realtà in cui vi è stato un conflitto aperto e molto politicizzato, a Napoli non sembra esserci stata questa dinamica. Eppure il Rione era localizzato in un’area della città in cui il Partito Comunista Italiano e la sinistra erano egemoni. Questo è stato possibile probabilmente per due elementi: la lontananza geografica dal confine orientale e una composizione dei profughi più variegata. Gli istriano-dalmati, per esempio, sono presenti ma non in maniera maggioritaria. Molte di queste persone provenivano da Rodi, Smirne, Corfù. Negli anni Cinquanta, le politiche per il lavoro, così come quelle abitative, hanno favorito l’inserimento dei profughi nel tessuto produttivo del quartiere. Dagli anni Ottanta in poi il Rione ha subito il processo di deindustrializzazione e di impoverimento della periferia orientale che ha colpito tanto i profughi quanto i locali.

C/S: Oggi, seconde e terze generazioni parlano napoletano, magari con un accento un po’ diverso ma sono napoletani a tutti gli effetti. Esiste una vivace memoria grazie anche ai social network. Nel corso dei decenni si è sviluppato un movimento di popolazione abbastanza classico, ben noto alla sociologia urbana: l’emigrazione delle seconde e terze generazioni e la loro sostituzione con una popolazione autoctona extrarionale in cerca di appartamenti con affitti più accessibili. Gli abitanti del Rione sono in parte persone che discendono dai rimpatriati, in parte è popolazione napoletana che ha preso possesso delle case, spesso acquistandole direttamente dalle famiglie originarie.

Che tipo di metodologia state utilizzando per la ricerca?

C: L’approccio che stiamo utilizzando è misto, con l’utilizzo di dati sia quantitativi che qualitativi. In questi mesi abbiamo visitato quei luoghi, incontrato i loro abitanti e iniziato con delle interviste che coinvolgeranno anche persone che vivono fuori dal quartiere. È prevista inoltre una fase di ricognizione visuale, in particolare fotografica. Per quanto riguarda l’approfondimento delle interviste stiamo ragionando su varie soluzioni: dalle mappe cognitive al racconto delle storie di vita, passando per la somministrazione di questionari. Molti dati utili alla ricerca si trovano all’Archivio Centrale dello Stato ma non è detto che si riesca a ricostruire in maniera precisa la totalità delle famiglie e la loro provenienza. Utilizzeremo inoltre dati secondari, come quelli ricavabili dai censimenti, dai risultati elettorali e dall’archivio del patrimonio del comune di Napoli.

C/S: Il fatto di interfacciarsi con una comunità e con decenni di storia che ne hanno modificato aspetto e caratteristiche è tanto avvincente quanto complesso dal punto di vista dello studioso. È tuttavia un pezzo di storia italiana, mediterranea e napoletana che merita di essere raccontato e che può essere un’occasione per avviare un processo di rigenerazione del Rione Baronessa, proprio a partire dal recupero delle memoria.

Marco Siragusa 
Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – 10/02/2022