Dante l’irredentista fu manifesto di italianità per le terre contese
In un saggio pubblicato da Carocci Fulvio Conti ripercorre settecento anni di riletture e manipolazioni politiche del sommo poeta in particolare fra le due guerre mondiali.
Nell’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri fioccano sugli scaffali delle librerie le opere sul tema. Una delle migliori apparse porta la firma di Fulvio Conti: “Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione” (Carocci, 2021, 242 pagine, 18 euro), in cui sono ripercorse le trasformazioni dell’immagine del “divin poeta” dal Settecento ai nostri giorni. Non una biografia dunque, ma una scrupolosa indagine su come la figura di Dante è stata assorbita, manipolata, incensata da una schiera di intellettuali, artisti e politici, sino a farne l’icona per eccellenza dell’identità italiana.
Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo furono i primi artefici di un mito destinato a lunga vita e continue riformulazioni.
Si pensi al Dante irredentista e alle sue fortune a Trieste tra Otto e Novecento.
I filoitaliani della città lo elessero a simbolo della nazione cui sentivano d’appartenere, tributandogli onore in diversi modi e diverse occasioni.
Attilio Hortis presiedette nel 1907 il cosiddetto Comitato dell’ampolla, costituito sulla base di un progetto dall’evidente sapore patriottico: realizzare un’anfora che contenesse l’olio da versare nella lampada votiva collocata nella tomba di Dante a Ravenna.
A dar corpo all’idea fu lo scultore Giovanni Mayer, che fuse l’argento di gioielli e cimeli donati da uomini e donne di Trieste, Zara, Pola, Gorizia e Trento.
La Società alpina delle Giulie procurò la colonna su cui poggiare il manufatto, ricavando il materiale roccioso da una grotta del Carso, mentre numerosi centri istriani offrirono targhe e ghirlande.
Le celebrazioni dell’anno successivo videro la presenza a Ravenna di deputazioni e rappresentanze provenienti da tutta la penisola. Cospicuo fu il numero dei giuliano-dalmati, giunti con quattro piroscafi partiti dalle coste del Litorale.
Il corrispondente de “Il Piccolo” diede conto, con profusione di dettagli, di una manifestazione pienamente ascrivibile alla dimensione della religione laica. Nel 1912 il municipio triestino decise, suscitando la stizza delle autorità governative, d’intitolare al genio toscano il ginnasio superiore comunale, fucina d’irredentisti e di volontari che combatterono in grigio-verde nel primo conflitto mondiale.
Terminata la guerra, il processo di glorificazione del poeta al confine orientale andò intensificandosi. Il ras locale, Francesco Giunta, nel settembre 1921 decise di ossequiare la memoria del “ghibellin fuggiasco” scalando con duecento camerati il Monte Nevoso, teatro di battaglie fra italiani e austriaci posto ora a discrimine geografico con la Jugoslavia. Di lì a breve fu il regime a prendersi l’incarico di irrobustire il nesso fra dantismo e italianità, promuovendo la fascistizzazione dell’autore della Commedia.
A metà anni Trenta il ginnasio che ne portava il nome fu trasferito in piazza Oberdan e dotato di un famedio in cui trovò spazio il busto dantesco che abbelliva la vecchia sede. Che il letterato fiorentino fosse ormai divenuto un emblema nostrano intramontabile, tanto radicato nella coscienza collettiva degli italiani da superare con pochi danni il ventennio mussoliniano e le sue perversioni sciovinistiche, lo testimoniò l’atteggiamento d’immutato rispetto nei suoi confronti assunto dalla nuova Repubblica. Certo, lo scenario politico era mutato e il bagaglio di valori del passato fu inevitabilmente messo in discussione.
Nel 1949 varie delegazioni giuliane della Lega nazionale compirono un pellegrinaggio a Ravenna, riportando in auge l’usanza delle gite ai luoghi sacri della patria. I convenuti recarono in omaggio un recipiente contenente acqua del Timavo e deposero nel sacello
una pietra carsica. La freddezza con cui l’amministrazione comunale ravennate a guida comunista accolse l’evento innescò un’aspra polemica, indicativa dei cambiamenti in atto.
Nel secondo dopoguerra la crisi del sentimento patriottico coincise con la crisi delle allegorie della nazione, ma lo Stato democratico si riappropriò velocemente del mito di Dante, imprimendo su monete e francobolli il suo caratteristico profilo con naso adunco, corona d’alloro, cappuccio scarlatto ed espressione corrucciata.
Nel 1965 si svolse la “Giornata dantesca nella scuola”, che coinvolse centinaia di istituti con concorsi a premi e visite degli alunni ai siti in cui aveva vissuto il festeggiato. L’iniziativa fu suggellata da un convegno tenuto a Trieste dal 29 ottobre al 4 novembre, cui parteciparono docenti, studenti e insigni studiosi. La parentesi storica triestina è solo una delle tante aperte e chiuse da Conti, che si spinge, nei capitoli finali del libro, a considerare l’evoluzione del personaggio da italiano a globale.
Protagonista di fumetti, pellicole e manga, soggetto ricorrente in cartelloni pubblicitari, caroselli e spettacoli televisivi, Dante si è dimostrato un’inesauribile risorsa culturale.
La cavalcata nei secoli di Conti si conclude nell’attualità: in risposta all’appello lanciato dall’Accademia della Crusca, durante l’epidemia di Covid i versi di Dante sono stati recitati dai balconi delle case, funzionando, per l’ennesima volta, da efficace collante identitario.
Luca G. Manenti
Fonte: Il Piccolo – 29/04/2021