È mancata a Bergamo Maria Pasquinelli
È mancata nel pomeriggio di ieri a Bergamo, Maria Pasquinelli. A marzo aveva compiuto cent’anni. Maestra di scuola, ha saldato la sua vita ad un episodio tragico della storia Giuliano-dalmata. Il 10 febbraio 1947, aveva sparato al generale de Winton a capo della guarnigione di Pola per protestare contro la decisione delle grandi potenze di cedere l’Istria alla Jugoslavia di Tito. Processata e condannata a morte dal tribunale del Governo Militare alleato di Trieste, s’era vista commutare la pena in ergastolo. Dopo 18 anni di galera le era stata concessa la grazia, che accetto’ per poter accudire la sorella. Il suo morto se lo portava sulle spalle – aveva dichiarato – non aveva mai chiesto clemenza, non voleva parlare del suo gesto. Solo superati i novant’anni s’era concessa la testimonianza sulle proprie motivazioni e sulla dinamica del gesto, non su eventuali coinvolgimenti o disegni orditi altrove. Era stata una sostenitrice della mistica fascista che aveva abbandonato delusa e, per certi versi tradita. Del suo gesto la stampa dell’epoca scrisse pochissimo, non ebbe la solidarietà dei Giuliano-dalmati che non si riconobbero nel suo gesto ma ebbe l’effetto di tutte le persone a Bergamo, ma soprattutto a Milano, che aveva aiutato negli anni d’insegnamento. Molta parte della sua presenza in Istria e a Trieste e’ ancora da analizzare e spiegare per il ruolo di collegamento che la Pasquinelli ebbe con Borghese. Era rigorosa, la Maria, ma anche tenera nei suoi affetti e pronta al commento. Lascia un vuoto in chi la seguita da vicino in questi ultimi anni.
Da “La giustizia secondo Maria” di Rosanna Turcinovich Giuricin, ed Delbianco
Bergamo, ottobre 2007 Margherita, la dama di compagnia, ci viene incontro sorridente: entrate vi sta aspettando! Eccola Maria, ci accoglie seduta davanti alla libreria del salotto. Sulla faccia rotonda spiccano i grandi occhi scuri che parlano per lei muovendosi curiosi, appena celati dagli occhiali, ad abbracciare la nuova situazione. I capelli ricci ancor sempre corti le incorniciano il volto. Saluta Giuditta, chiamandola Jolly così come fanno i parenti e gli amici, rivolge un mondo di complimenti all’Annibale che le ha messo di fronte un vassoio di pasticcini, stringe la mano a Guido, nipote della Giuditta e conferma a chi si appresta ad intervistarla che è ben lieta di rispondere. A che cosa?Si scattano alcune foto di lei, del gruppo. Che cosa vuole che si scriva di lei? Che sono una personale insuperabile, la verità purtroppo bisogna dirla. Non è un invito a continuare, non è disposta a parlare, non di tutto, ma poi sorprende chi l’ascolta con alcuni flash, come degli squarci in una cortina di riserbo che continua a mantenere come per una promessa che il tempo non ha incrinato. Lo fa con voce ferma, di donna di carattere, e forte quasi stridula, come di chi non sente a sufficienza. E infatti, le domande si ripetono più volte, scandendo le parole, passando sulle labbra degli astanti impegnati a guidarla, ma non ne ha bisogno. Quando riesce ad ingabbiare la frase, la rimastica, la ripete, risponde.Com’era Spalato in quegli anni? A Spalato ho dissotterrato i morti, anche ragazzi, Dio ne ho combinate di tutti i colori. E quei giovani, poverini… La gente di Dalmazia che incontravo per strada invece, uomini e donne, bellissimi, di grande volontà e di carattere. Insegnavo l’italiano all’Istituto provinciale: molti studenti lo parlavano bene perché erano di famiglie italiane che non avevano lasciato la città dopo la prima guerra mondiale. Lei lo sa che da gran parte della Dalmazia il primo esodo è avvenuto proprio dopo la Grande Guerra? Ma l’Italiano non lo avevano dimenticato quelli che vi erano rimasti. Era più difficile per quelli che erano arrivati in città dall’entroterra e dalla Bosnia ma ce la mettevano tutta e soprattutto mi volevano bene. A Spalato avevo trovato sistemazione presso una famiglia in via Marchi sulla strada che portava verso la città romana di Salona, proprio di fronte alla Questura. Anche loro parlavano l’italiano perché la nonna aveva insegnato a tutti la propria lingua. Ricordo che ogni tanto mi offrivano il caffelatte con la torta fatta in casa con farina gialla, zucchero, uvetta e pinoli. Era buona come questi pasticcini, ora arriva il caffè, ah che bello!L’impressione è che conti le parole, dopo alcune frasi s’impone lo stop e non c’è verso di riprendere il discorso. Si complimenta con l’Annibale per le calze colorate, con Guido perché è un bell’uomo, le donne non le degna di un’attenzione. Margherita glielo fa notare ma Maria non si scompone e le risponde in Bergamasco con una frase che ai nostri orecchi suona così: “Ma che l’è che vuole chella lì?”. Io – dice, alzando la voce – ero sempre con uomini bellissimi. E continua a scherzare dall’alto dei suoi novantaquattro anni di vita. Vita?Maria Pasquinelli è nata a Firenze, nel 1913, un caso, visto che la sua famiglia ritornò immediatamente in Lombardia. Si diploma maestra elementare e successivamente consegue la laurea in pedagogia a Bergamo. Fascista fervente decide di frequentare anche la Scuola di Mistica Fascista. Che cos’era, che cosa si insegnava? Che la fonte, la sola, unica fonte della mistica è Mussolini, esclusivamente Mussolini. Che il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica, che è conoscenza di Mussolini. Nello studio di Mussolini vero e proprio “vangelo del fascismo” i giovani della mistica troveranno tutte le risposte, che solo la Sua parola può dare la risposta esatta e perfetta ai dubbi, può placare le ansie, può diradare le foschie. Mussolini come unico Vangelo.Tutto questo non lo rammenta, Maria Pasquinelli – ci devo pensare, risponde. Poi ricompone il mosaico. La scuola era stata fondata e diretta da Nicolò Giani: ricordo come s’offese quando gli posi il quesito se fosse mistico volere un diploma di mistica fascista. Allora mi disse che potevo anche non prenderlo. Ed io di rimando: infatti non lo voglio. Tra noi si diceva spesso: chi mastica non mistica e chi mistica non mastica. Era un gioco di parole, ma non soltanto. Non ricordo che cosa s’insegnasse ma io sapevo già tutto.Fu nel gennaio del 1942 che chiese di essere inviata come maestra in Dalmazia e per qualche tempo insegnò l’italiano a Spalato (allora annessa all’Italia nel Governatorato di Dalmazia. Il decreto di annessione della Dalmazia all’Italia fu pubblicato il 7 giugno 1941 nella Gazzetta Ufficiale del Regno. Il Governatorato della Dalmazia durò circa un anno e mezzo e fu retto da due governatori: prima da Giuseppe Bastianini e, negli ultimi mesi, da Francesco Giunta. La Dalmazia annessa contava circa 250.000 abitanti e fu divisa in tre province: Zara, Spalato e Cattaro. Il Governatorato dalmata durò fino al 7 agosto 1943, quando fu soppresso dal governo Badoglio. Ragusa non fu mai compresa nella Dalmazia italiana voluta da Mussolini e Ciano, ma l’esercito italiano rimase in città fino all’8 settembre del 1943).Sul finire del 1943, un’iniziativa pietosa la spinge a ottenere dal governo militare jugoslavo, tramite alcuni ufficiali tedeschi, il permesso di procedere all’esumazione dei centosei italiani fucilati dai partigiani slavi nelle fosse del cimitero di San Lorenzo. Identifica, tra le salme, quella del provveditore agli studi di Spalato, Soglian, del presidente del ginnasio, Lungilbuhl, e altre di noti antifascisti. Lo ricorda stringendo le palpebre come per scacciare un pensiero che trattiene invece nelle parole. Alcune di quelle persone le conoscevo, erano miei colleghi e anche alunni. Perché non si poteva fermare quel massacro? La domanda continuò ad esploderle dentro per tanto, troppo, tempo. Ma con questo suo generoso atto di giustizia, provoca sospetti e si attira aperte minacce di morte. Si imbarca, allora, sulla nave “Mameli” e si rifugia a Trieste, dove si dedica all’assistenza dei profughi. Sì, me ne andai da Spalato via mare. Sulla nave trovai un libro e mi immersi nella lettura, volevo dimenticare. Sbarcata a Trieste, portai quel romanzo con me, infilato sottobraccio, fino a San Giusto, spirava una leggera brezza, non era Bora che altrimenti mi avrebbe travolta, e spalancai le braccia come per diventare una vela e andare “Via col vento” come nel titolo del romanzo che avevo appena letto. Via, volevo volare via. Maria invece si fermò a Trieste, subissò di memoriali e di denunce le autorità della RSI. Cercò di stabilire contatti tra la Decima Mas e i partigiani della “Franchi” e della “Osoppo” col proposito di costituire un blocco per la difesa dell’italianità nel confine orientale. Per questa attività venne arrestata dai tedeschi e minacciata di deportazione. Fu salvata da un intervento personale di Junio Valerio Borghese. Descritta come una donna di temperamento eccitabile, impetuosa e travolgente subì una specie di trauma all’idea che i Quattro Grandi avevano lasciato Pola e l’Istria senza scampo, assegnandole a Tito. Ancora una sconfitta, per Maria un’altra ferita profonda. Si trasferisce a Pola.Ricorda Vergarolla? Certo che ricorda, posa la fronte sul palmo della mano: ci dovevo essere anch’io, ci andavo spesso, ma scelsi una spiaggia diversa, fu terribile. Il 18 agosto 1946 a Pola è una domenica piena di sole. Sulla spiaggia di Vergarolla sono le 14. La sede della società sportiva Pietas Julia è imbandierata. Tra poco avranno inizio le gare per la coppa Scarioni. I bagnanti riposano sotto gli ombrelloni e nella frescura resinosa della vicina pineta che profuma d’estate. Ma i bambini a frotte corrono, giocano sulla spiaggia di ciottoli, ignari che sotto ai loro piedi scalzi si nascondono 28 mine antisbarco francesi, che erano state disattivate qualche tempo prima dagli artificieri ma che ora sono collegate fra di loro. Alle 14.15 un’esplosione solleva un uragano di sassi, di fumo, di corpi straziati, di grida. Brandelli di carne, mani e piedi mozzi vengono scaraventati in mare, schiacciati contro l’edificio della Pietas Julia. Membra sanguinanti pendono dai rami dei pini. Le schegge hanno falciato i bambini che correvano ed hanno risparmiato molti adulti che stavano sdraiati. La città, scossa dalla detonazione, accorre. I morti sono 109, ma altri moriranno per le conseguenze delle ferite riportate e ai funerali verrà aggiunta una cassa per le membra non identificate. Con la fine della guerra erano rientrati a Pola personaggi come Rusich, Benussi, Dorigo, Sepetich ed altri, che erano stati deportati ma che riuscirono a salvarsi. Si fa strada per tanto una classe di dirigenti in grado di amministrare la città. Questo crea però uno scontro pesante tra la popolazione che vuole rimanere e gli inglesi impegnati a chiudere la vicenda, tra l’Italia ricattata perché ha perso la guerra e la Jugoslavia che ha tutto l’interesse di prendersi Pola.Morale della vicenda? Vargarolla decise le sorti. E’ la maggiore strage di civili che l’Italia abbia mai avuto e nessuno lo sa. L’esodo fu una diretta conseguenza di questo fatto. Il CLN aveva condotto un’inchiesta secondo la quale dei 32.000 abitanti di Pola, 28.000 avevano dichiarato di volersene andare se la zona fosse passata sotto la sovranità jugoslava e 70.000 erano le risposte positive nel resto dell’Istria. La deflagrazione mise fine alle titubanze.Maria sapeva? Lei, disciplinata, faceva compilare i formulari per la partenza della gente da Pola al centro di assistenza all’esodo. “La ricordo bene – afferma l’operatore Vitrotti che riprese le immagini di quei terribili giorni – una ragazza strana, introversa, con i capelli corti e neri. Di brutte storie ne deve aver sentite troppe”.
L’Osservatore Adriatico
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