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Fiume Stelli

Ecco perché Fiume sognava di essere un pezzo d’Italia

A «èStoria» due studiosi raccontano l’epopea di questo porto franco iniziata ben prima dell’impresa del Vate

di Matteo Sacchi – 18/05/2018

Quando si parla di Fiume, in Italia, è quasi automatico associare al nome di questa antica città due parole: impresa e D’Annunzio. Come se alla fine questa piccola repubblica marinara che oggi conta più di 175mila abitanti (di cui ormai pochissimi parlano la nostra lingua), nella storia del nostro Paese fosse entrata soltanto per merito, o per colpa, del Vate e della sua spedizione del 12 settembre 1919.

Per rendersi conto che non è così, niente di meglio dell’incontro del festival èStoria di Gorizia che si tiene oggi alle 18 nell’aula magna del polo universitario della città (Via Santa Chiara 1), intitolato proprio Storia di Fiume e tenuto da Fulvio Salimbeni. Fiume, infatti, inizia la sua storia, densa di rapporti con l’Italia come porto romano. All’epoca faceva parte a tutti gli effetti, come l’intera Liburnia, dell’Italia romana ed era un piccolo municipio. E dopo il crollo dell’Impero e le traversie dovute alle molte invasioni barbariche si eresse rapidamente a entità politica autonoma ben determinata a mantenersi slegata dal contesto slavo che la circondava. Come ci spiega uno dei due relatori dell’incontro il dottor Giovanni Stelli (autore del volume Storia di Fiume): «Da quando esistono verbali del consiglio cittadino e documenti vergati in lingua volgare viene utilizzato un dialetto venetofono, il così detto Veneto da mar. Qualcuno ha provato ad obiettare che era una sorta di lingua franca ufficiale, non per forza quella del popolo. Ma si può essere abbastanza sicuri che fosse veramente la lingua parlata in città. C’è un’ordinanza del XV secolo che regola la vendita del pesce. È una sorta di preziario che ovviamente era ad uso e consumo del popolo il fatto che fosse scritto in veneto è più che indicativo».

Anche dal punto di vista politico Fiume si pone da subito come un corpo staccato dal resto del territorio. Continua Stelli: «L’Istria era caratterizzata da una civiltà cittadina che mutuava il suo modo di essere dai comuni italiani. Questo ad esempio non significa che i fiumani non fossero buoni sudditi dell’Impero Austro-ungarico. Ma misero sempre in chiaro che la città dipendeva direttamente dal regno di Ungheria e non dovesse essere assimilata al territorio circostante. Ad esempio nel 1779 si fecero riconoscere con un diploma dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria il loro essere un Corpus Separatum dalla Croazia. Avevano una gestione assolutamente autonoma e rispondevano solo a Buda. Ribadirono la loro volontà di mantenerla a tutti i costi anche quando, dopo i moti del 1848, si cercò di accorparli nuovamente alla Croazia. Portarono avanti una protesta ventennale e la spuntarono nel 1867».

Non si trattava in nessun modo di quello che oggi potremmo chiamare nazionalismo, l’idea di nazione era ancora molto lontana e, di fatto, è figlia dell’Ottocento, ma i Fiumani erano chiaramente coscienti della loro particolarità che si espletava nella lingua italiana e nell’autonomia. Spiegano Stelli e Fulvio Salimbeni (professore di storia contemporanea dell’Università di Udine): «I fiumani difendevano una autonomia. La difesero anche dalla Serenissima che due volte nel Cinquecento mise a ferro e fuoco la città. Del resto lo si vede anche nella pianta. Esattamente come Trieste, Fiume non sembra un sestriere veneziano come, invece, molte altre città dell’adriatico. È diversa. Ma i contatti culturali e linguistici erano prevalentemente rivolti verso l’area italiana. Non significa ovviamente che in città non ci fosse una componente slovena o croata, che magari diventava maggioritaria, nel contado… Ma la propensione della città era chiara. I fiumani hanno sempre e solo voluto dipendere in modo diretto dalla lontana Buda».

E allora come i fiumani divennero irredentisti italiani? Tutto un colpo di testa di Gabriele D’annunzio e i suoi? No. Spiegano i relatori: «Il nazionalismo e l’irredentismo si sono sviluppati nel corso dell’Ottocento, durante il quale ci furono anche episodi di violenza dei panslavisti del Sokol. Di fronte all’impossibilità di essere semplicemente fiumani, impossibilità dettata dagli eventi della Prima guerra mondiale, gli abitanti della città hanno scelto per contiguità culturale di essere italiani. E per altro i principi enunciati dal presidente degli Stati uniti Woodrow Wilson glielo avrebbero consentito in pieno. Poi i trattati hanno preso tutt’altra forma – anche perché Wilson dopo aver parlato di autodeterminazione in realtà favorì il nascente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni – e solo allora è intervenuto D’Annunzio. Ma già nel 1918 il consiglio cittadino di Fiume, che aveva assunto il nome di Consiglio nazionale italiano, dichiarò unilateralmente che Fiume voleva essere italiana. Una volontà che era figlia di una storia culturale e linguistica precisa».

Alla fine questa testarda volontà portò all’annessione di Fiume all’Italia che divenne definitiva nel 1924.

Ma poi ci pensò la Seconda guerra a mettere in crisi l’italianità, quantomeno culturale e linguistica, di Fiume. Dice Salimbeni: «Per gli italiani in città si trattò di scegliere tra un regime comunista e per di più ultranazionalista che impose due anni di governo militare e la fuga. La schiacciante maggioranza se ne andò. Non poterono fare altro». Fu la fine del plurisecolare uso pubblico della lingua italiana nella città di Fiume.

Fonte: Il Giornale