“Esodo” di Simone Cristicchi: un pugno allo stomaco e al cuore
Simone Cristicchi racconta gli anni dopo quel trattato di Pace, dell’esodo dei cittadini italiani (più di 300 mila anime) dalle terre, il viaggio a bordo del Tuscania, da una Yugoslavia che non li voleva ad un’Italia che non li voleva. Erano, come racconta l’attore e cantante, pescatori, artigiani
Un’ora e mezza di storia, senza sconti e senza ideologie. Senza parti da difendere, se non le storie, le tante storie piccole di tanta povera gente: esuli o infoibati, condannati ai campi di concentramento o costretti ad imbarcarsi, verso terre ostili. Un’ora e mezza di profonda emozione con un Simone Cristicchi davvero ancor più imponente e grande di quello che già è, eppure delicato nell’avvicinarsi a storie, a racconti. Il suo Esodo è un percorso che parte dagli anni 20, e per accenni anche a prima, quando slavi e italiani convivevano nell’Istria e nella Dalmazia, terra in cui si incontravano culture diverse. Parte dal fascismo, dalla violenza di chi avrebbe voluto – e non se ne faceva dramma – cancellare le popolazioni slave dall’Istria perché Italia. Parte da lì il racconto che poi procede per passi, tenuto insieme da una tenebra profonda, da un infinito senso di morte e – dopo il 1947 – da un infinito ritorno al Magazzino 18, a quello che oggi è un museo al Porto Vecchio di Trieste che conserva migliaia di nomi, migliaia di storie, migliaia di oggetti di quotidianità, migliaia di ricordi in bianco e nero di gente costretta a partire.
Erano italiani poi, quanto i partigiani di Tito liberarono quella terra da una dittatura instaurandone un’altra. C’è la storia delle foibe, la storia di violenze e di soprusi in nome di un disegno che vedeva la grande Jugoslavia di Tito ‘epurata’ dagli italiani, così come Mussolini aveva visto quel lembo di terra epurato dagli slavi. La guerra è la guerra. E i morti sono morti, sia che siano gli slavi degli anni 20, sia che siano gli italiani degli anni successivi, quelli della liberazione, quelli di dopo il trattato di Pace del 1947 che riconosceva alla Jugoslavia, come risarcimento per la guerra e puniva l’Italia sconfitta, L’Istria e le terre costiere.
La storia andrà rivista un giorno, liberata dalle ideologie, liberata dagli schemi preconcetti. Vista dalla parte degli ultimi. Che sono uomini e donne, bambini, ragazzi capitati in mezzo, che sono famiglie con il loro povero mobilio e gli attrezzi da lavoro depositati in un magazzino nel porto vecchio di Trieste e li rimasti per sempre. Un nome inciso e un profondo, pesantissimo silenzio. Un piccolissimo, apprezzabile tentativo, Simone Cristicchi lo fa, e gliene va dato merito. E’ un filosofo, non è uno storico, ma poco importa. Il solo tentativo di rileggere una storia in cui si scontrano ideologie opposte dalla parte di chi quella storia l’ha solamente subita è un merito, a prescindere.
Simone Cristicchi racconta gli anni dopo quel trattato di Pace, dell’esodo dei cittadini italiani (più di 300 mila anime) dalle terre, il viaggio a bordo del Toscana, da una Jugoslavia che non li voleva ad un’Italia che non li voleva. Erano, come racconta l’attore e cantante, pescatori, artigiani. Erano studenti e anziani. Erano bimbi in fasce o – come Sergio Endrigo – 14enni costretti a partire con quelle poche cose che si potevano portare appresso, col ricordo di una terra natìa nella quale non sarebbero più tornati, con il trauma, che non li abbandonerà mai, di una ostilità profonda respirata in un paese che non li accolse certo a braccia aperte. Erano dipendenti pubblici, maestri, operai. Erano bimbi come quella – di appena un anno – morta di assideramento in un campo di raccolta sul Carso triestino. Sullo schermo passano le foto. Una storia particolarmente dura, anche da ascoltare, emotivamente forte. Cristicchi la porta in scena da solo, qualche volta accompagnandosi dalla chitarra, altre dalle immagini che scorrono sullo schermo, ma il più delle volte con le sole parole.
Asola venerdì sera ha portato in scena uno spettacolo davvero intenso, duro e coinvolgente, davvero in grado di raccontare una storia difficile che si tende a dimenticare o cancellare in nome di un’ideologia. Qualunque essa sia. Lo spettacolo che inizia con una valigia e termina con sedie vuote, e nomi, e storie che si mescolano, di slavi, di italiani e ancora di italiani partiti per sempre, messi da parte, malsopportati anche in Italia. Storie di gente normale dimenticata. L’ultimo appello dell’attorei è a non dimenticare. Una sorta di 11mo comandamento imprescindibile affidatole da una esule anziana dopo la riproposizione dello spettacolo a Trieste. A non dimenticare che la pianta dell’estremismo e della guerra produce sempre e comunque un frutto malsano. Sedie vuote, foto in bianco e nero ed un dolore profondo, difficile da cancellare e da dimenticare…
N.C.
Fonte: OglioPoNews – 13/02/2022