Gianna Gissi, costumista istriana, e il valore di “essere italiani”
“Questo libro è dedicato alle mie splendide nipoti”. Spesso le dediche dei libri esprimono la volontà dell’autore di destinare la sua opera e contengono lo scrigno più sintetico delle sue passioni. È sicuramente così per il libro di Gianna Gissi. Un’istriana al cinema, a cura di Alessandro Cuk per Alcione Editore. La monografia racconta la vita e le opere di una delle costumiste più importanti del cinema italiano. E la vita di Gianna Gissi ha una partenza indelebile. Nasce a Pola, il 5 febbraio 1943, in una cantina d’ospedale, sotto i bombardamenti. Poi, a quattro anni, nel ‘47, è costretta a fuggire da Stignano di Pola, dove abitava. “Non capivo perché mi avevano strappato ai miei luoghi, ai luoghi dove giocavo, alle mie cugine, ai miei nonni”, racconta questa maestra del cinema moderno oggi anche signora della storia. “All’inizio pensavo fosse una gita al mare, perché siamo saliti su questa nave, il Toscana, e mia mamma mi mise, come avevano tutti una coccarda tricolore sul bavero del cappotto”. La “coccarda tricolore” di Gianna Gissi è “il simbolo identitario” che l’artista lascia alle nipoti. E con loro, ai giovani, a noi, che ancora non del tutto conosciamo la storia da cui veniamo. Per questo ha voluto scrivere la sua monografia. Si sarà accorta dell’incoscienza e della scarsa partecipazione alle sorti di questa Italia flagellata, del rischio che corre “l’italianità e il made in Italy” e dell’orgoglio e della combattività necessari.
In Italia ci sono più di 350mila anime fiumane, istriane, dalmate, oggi moltiplicate in famiglie, figli, nipoti, che “per essere italiani” hanno lottato da “esuli”. Una popolazione nella popolazione costretta con la forza ad emigrare dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia dopo il massacro delle Foibe, che si ricorda ogni anno nel “Giorno del ricordo”, il 10 febbraio. Furono tra i 5 mila e 10 mila “gli infoibati” per “il torto di essere italiani”, insieme a quanti furono costretti a lasciare tutto per liberare i territori ceduti, col Trattato di Parigi, alla Jugoslavia del maresciallo comunista Josip Broz Tito. “Mi ricordo mia mamma che piangeva, mi ricordo quando ci siamo allontanati dal molo di Pola”, scrive Gianna Gissi, tornando a quel dolore antico, mai sopito perché mai ancora del tutto sviluppato. Anche perché “la questione istriano-dalmata” è stata a lungo rimossa. Una pagina che non ha trovato ancora quel numero di libri, film, saggi, analisi necessari.
La carriera di Gianna Gissi inizia nel cinema degli anni Settanta a fianco di Mario Monicelli (dopo un debutto televisivo accanto a uno dei più noti registi dello sceneggiato tivù, Edmo Fenoglio) e attraversa tutta la filmografia dagli anni Ottanta fino ai nostri giorni. Una galleria di migliaia di costumi. Ma che dico, di più, poiché lei stessa racconta che solo sul set del Marchese del Grillo vestiva ogni giorno mille comparse. “Nel cinema ci vuole una salute di ferro e nervi di acciaio”, dice citando il celebre costumista, scenografo, pittore Dario Cecchi, figlio dello scrittore Emilio Cecchi, suo mentore. E va spiegato che il costumista non è l’artefice solo dell’abito, ma l’autore della parte visibile dell’attore, dell’opera, della regia.
Per capire il valore della filmografia di questa preziosa artista, il suo peso culturale con l’elenco dei Premi, il suo ruolo nella cultura italiana, infine tutta l’attività didattica e personale, occorre tornare all’esula bambina e alle immagini di vita vera. A cominciare dalla fuga da Pola fino a Roma, al viaggio durissimo, in treno, camion, con soste e giorni di paura e fatica. A Roma perché? “Perché mio papà aveva un cugino, zio Natale, che stava a Roma dagli anni Trenta. E quando mio padre andò via, di notte, ricordo l’immagine filmica, una notte di luna piena e l’ombra di papà che parla, sento che dice a mia madre se sarò vivo sarò a Roma, da Natale. E così è stato”.
Qui, e così, nasce il cinema di Gianna Gissi. L’episodio spiega un dramma perfino più grande del cuore e della mente, della carne e del sangue non solo di uno, ma di tutti gli esuli dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia, di Zara. Forse per i giovani queste terre sono nomi estranei, ma Istria, Fiume, Dalmazia, Zara erano Italia e italiani. Un racconto interiore per cui ci vuole il cinema, in quanto proiezione del magma di sentimenti e vissuto, per svelarlo e comprenderlo. Come quando Gianna, giunta a Roma, sente bussare, e vede la mamma, le sorelle che dicono “papà, papà”. Ma lei no, lei non lo riconosce. Racconta nel libro: “Mamma mi faceva vedere le foto tutte le sere: questo è papà, fai una preghiera per papà. Mio padre era alto 1,86 e io mi sono trovata di fronte un uomo che pesava 60 chili, quindi, era veramente una specie di ectoplasma”.
L’esodo, dunque, e il cinema. Non sugli esuli e le Foibe: “Mi ha sempre indignato l’ignoranza totale che gli italiani in genere avevano della nostra storia”, afferma. Ma il cinema dentro di lei, a cui si è accostata per elaborare ricordi e immagini della memoria. Narra, infatti, che con la sorella si recavano a vedere uno stesso film anche più volte. “Era l’epoca dei musical, di Fred Astaire e Ginger Rogers. Tornavo a casa e ridisegnavo tutti gli abiti. Io ragiono col disegno, col quale mi sono inventata la vita, come i fratelli esuli”. La monografia artistica, meticolosamente ricostruita da Alessandro Cuk, giornalista critico cinematografico giuliano-dalmata e vicepresidente del Cinit (Cineforum italiano), è un lungo elenco di titoli e anche una galleria di bozzetti realizzati per le parti celebri di Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Gérard Depardieu, Gian Maria Volonté, solo per citarne alcuni.
Il libro è stato presentato alla Casa del Ricordo dell’Esodo, lo spazio di Roma Capitale inaugurato nel 2015 in zona Fori Imperiali, dalla professoressa Donatella Schürzel, ricercatrice scientifica di Storia dell’Europa dell’Università La Sapienza di Roma, di famiglia istriana, studiosa insignita di numerosi riconoscimenti e del titolo di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, la quale è attivissima e alla guida dei soggetti istituzionali della Venezia Giulia e Dalmazia. “Stiamo facendo grandi passi, col Giorno del ricordo entriamo in tante scuole, è in atto una diffusione estesa della nostra storia. L’auspicio è presentare questo libro anche a Pola, siamo già in dialogo col vice sindaco”. La Schürzel non solo ha coordinato la presentazione, ha anche allestito la terrazza sormontata da una vite coi grappoli tra cui facevano capolino ombrellini colorati per riparare dal sole “i giuliano-dalmati” preziosi e rari testimoni viventi. Ciascuno ha negli occhi l’esodo o, come lei, lo ha vissuto attraverso padri, madri, zii e zie. E dei più giovani mi ha colpito come non ci fosse chi non custodiva una piccola foto sbiadita di parenti o semplici connazionali, come ciascuno ancora sussurri fatti e vicende. Non ricordi atroci, piuttosto immagini dolci, tristissime, di bella gente fiera che sorride nelle foto, molti chissà dove finiti, poiché il conteggio complessivo e le fini implacabili sono avvolte da mistero. Mentre attendiamo l’inizio della presentazione sento dire “mamma non è mai tornata, voleva cercare, nei cimiteri o tra i documenti, è morta con questo dolore”. Forse un fratello? O anche un figlio piccolino, lasciato là, e di cui non si sa nulla?
Tra i relatori, insieme con Alessandro Cuk e Marino Micich, direttore dell’Archivio museo storico di Fiume (Roma), ho avuto l’onore di esserci anche io: sia perché sono stata un inviato speciale del Giornale di Indro Montanelli, che non ha mai dimenticato di dedicare pagine a questo capitolo; e sia perché mio padre, Lorenzo Papi, è stato uno dei fotografi di scena del neorealismo cinematografico italiano. E quindi potevo avere pienamente il senso dell’uno e dell’altro piano della monografia. I ricordi dell’esilio, le testimonianze, la quantità di inediti, ma anche il peso del lavoro di costumista, il pregio delle realizzazioni, l’importanza dei premi e dei riconoscimenti. Per esempio il Leone d’oro alla Mostra di Venezia per Così ridevano di Gianni Amelio e le cinque nomination agli Oscar per Il postino di Michael Radford e Massimo Troisi, in cui la Gissi “vestì”, oltre a Troisi e agli attori, il protagonista Philippe Noiret nella parte di Pablo Neruda. “Il film è un bellissimo ricordo, ma purtroppo anche un triste ricordo”, ammette l’istriana. “Massimo per finire il film si faceva trasportare a volte disteso per quanto era debole e morì subito dopo l’ultimo ciack”. E aggiunge: “Pablo Neruda, il poeta cileno, era amico di amici. Lo conobbi in uno dei suoi passaggi a Roma. Fino ad allora non sapevo chi fosse. A volte andavo con papà, che si occupò fino alla fine di quanti stavano nei campi profughi, probabile l’abbia visto anche lì? Fu mia sorella a rivelarmene il nome. Ma abbiamo Neruda in giardino e nessuno me lo dice?, gridò quando lo vide passeggiare nel nostro giardino condominiale”.
La consacrazione come costumista arriva coi David di Donatello per Il Marchese del Grillo nel 1982, pellicola diretta da Mario Monicelli con Alberto Sordi, che vinse anche un Nastro d’Argento, e nel 1990 per Porte aperte per la regia di Gianni Amelio. “Con Amelio, nel 1998, feci anche Così ridevano. Una fatica, una grande fatica. Siamo partiti senza copione. Io non avevo copione. Mi venivano dati dei foglietti la sera prima. Il film andava dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Sessanta. L’unica cosa che riuscii ad ottenere furono due camion enormi pieni di stoffe, di roba dell’epoca, tutto alla cieca. Per un po’ siamo andati avanti così, poi ad un certo momento mi sono impuntata. Ho detto vado a Roma. Amelio ha pensato che mi sarei ritirata all’albergo Roma, dove alloggiavo. Quando capii che avevo lasciato il set, cominciò a tempestarmi. Ma io fui intransigente: O mi dai il copione e mi fai le scuse, oppure non torno. Sono tornata. Gianni è un tipo così, devi combattere. Alberto Sordi, invece, veniva sul set all’ultimo e non ho memoria di una sua lamentela”.
Il cinema è stato la medicina, il sogno, la trasposizione. Liceo artistico, poi l’Accademia. Dario Cecchi come maestro-amico, il quale era anche fratello della sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, quindi un lungo apprendistato nei set, poi a fianco di Mario Monicelli con cui la Gissi inizia una lunga collaborazione. L’anima spezzata si andava ricomponendo, anche grazie agli elementi tipici dell’italianità. Il mare, per esempio. E il mare di Ostia dei tempi giovanili. Gianna ebbe la fortuna di abitare subito in un appartamento, ma la maggior parte degli esuli fu smistato nel Villaggio Giuliano sulla via Laurentina, realizzato durante l’Esposizione del 1942 da Benito Mussolini come Villaggio operaio. Le mancava il mare. È un fatto connotativo dei giuliano-dalmati. Se osservate i loro occhi, soprattutto quelli che hanno gli occhi chiari, dentro si vedono le schiume di Istria, di Fiume, di Zara, perché il mare è quel legame naturale e logico. “Papà una mattina mi disse: ti porto a vedere il mare. Quando arrivammo a Ostia fui molto delusa. Mi misi a piangere. Perché era un mare tutto dritto, non si vedeva l’orizzonte, non si vedeva niente. Se questo è il mio mare qui non ci vengo. Non ci voglio venire, gli dissi. Ma questo passava il convento, non c’era altro allora”.
Ostia non è il mare dell’Istria, l’Adriatico. Ma il mare è il mare e quella distesa ampia, senza orizzonte, ricostruì, eccome se ricostruì. Non solo il litorale laziale. Appena può Gianna si mette in viaggio, scopre la Costiera Amalfitana, Capri, Positano. È anche una storica dell’arte. “Ho studiato questa materia per avere un’abilitazione. Perché non si sa mai, come diceva papà. E mi è servito. Perché il mio lavoro non nasce così, da emozioni semplici. È un lavoro molto particolare. Il mio lavoro è simile a quello dell’attore, mi devo immedesimare per riuscire a tirare fuori quello che il regista vuole”. Esilio e cinema, dunque. La questione giuliano-dalmata e l’Italia dello star system si fondono in questa biografia. Gianna diventa insieme agli sceneggiatori e agli scenografi dell’epoca (tra l’altro sposa lo scenografo Lorenzo Baraldi) il braccio dei più noti registi. E diventa anche la costumista amica, la confidente, dei più celebri attori e attrici. Il costumista così come realizza abiti sfarzosi e storici, allo stesso modo profila le personalità anche con vestiti semplici. “Ricordo le conversazioni con Gian Maria Volontè per Porte aperte, tratto dal libro di Leonardo Sciascia, in cui il personaggio è un giudice. Convenimmo con Gian Maria che un giudice degli anni Trenta più di due vestiti grigi non ne poteva avere”.
Gli aneddoti, raccontati dalla Gissi e raccolti da Cuk, sono una carrellata enorme. Ogni film ha la sua scheda tecnica, la trama, poi i commenti in cui la costumista ferma particolari, frammenti, fatti, cammei di personalità. Attendo che la signora arrivi a parlare di Gérard Depardieu, con cui ha lavorato nel 1979 in Temporale Rosy di Mario Monicelli, del quale racconta che nel 1980 le telefonò da Parigi. “Ah sì, è vero”, sorride lei in tailleur nero, occhiali scuri, diva e bambina, appoggiata al suo bastone, alla quale non sfugge nulla, amara, dolce, ma anche stigmatizzante, accompagnata dal marito scenografo e dal figlio produttore. “Mi chiama Gerard da Parigi. Gianna? Come stai? Ti passo una persona. Chi è, penso. Era François Truffaut, che mi propose di lavorare con lui nel capolavoro del cinema francese L’ultimo metrò, con Depardieu e Catherine Deneuve. Con rammarico rifiutai: mio figlio non stava bene e io non me la sentii di lasciarlo. Mio marito me lo ha sempre rimproverato: Hai fatto un errore, te lo avrei portato sul set, mi diceva. Ma io no, non feci quel passo verso il cinema internazionale, ho privilegiato la famiglia e la mamma”.
La ascolto, prendo coraggio (a volte ce ne vuole per affermare un’intuizione) e le dico: “No, signora Gissi, lei non solo non ha accettato per suo figlio, ma per un altro motivo, profondo e che adesso le dirò e lei capirà quanto è vero. Lei non ha accettato di andare in Francia, all’estero, di spostare la professionalità e il successo fuori dall’Italia perché per essere italiana, per tornare in Italia, per lavorare e saldare le radici e l’identità italiana, lei ha lottato. Ed è questa appartenenza che vuole lasciare alle sue nipoti per dirlo alle epoche future: essere italiano”. La storia, nostra e collettiva, spesso è tragica e tremenda, ma ha sempre un senso. Io poi credo nella Divina Provvidenza, per cui credo quello che ho risposto a una signora che mi parlava della sua famiglia e del ritardo storico: “Sì, certo, un errore, ma voglio pensare che sia stato anche un disegno, perché oggi più che mai queste testimonianze assumono enorme valore, essenziale e altrettanto disperato. Va detto, ai giovani, a tutti, quanta fatica, quanto impegno hanno versato i giuliano-dalmati per il nostro talento italiano”.
(*) Gianna Gissi. Un’istriana al cinema, a cura di Alessandro Cuk, Alcione Editore 2021
Donatella Paci
Fonte: l’Opinione delle Libertà – 28/06/2024