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Centro Pannunzio Quaglieni Guerri

Giordano Bruno Guerri ha conseguito il Premio Pannunzio 2023

Intellettuale libero e irriverente, che nel corso della sua prestigiosa attività di storico, biografo, autorevole editorialista e direttore di importanti riviste non si è mai asservito a nessuna ideologia; biografo che ha saputo ricollocare storicamente personaggi controversi, quali Curzio Malaparte, Filippo Tommaso Marinetti, Giuseppe Bottai, Italo Balbo, il sacerdote scomunicato e perseguitato Ernesto Buonaiuti, e, soprattutto, Gabriele D’Annunzio, liberando definitivamente il Vate dall’etichetta di “Poeta del Ventennio” che gli era stata attribuita dagli storici e dalla vulgata; Presidente del Vittoriale degli Italiani, la sontuosa residenza dannunziana che ha salvato dalla decadenza, rendendola attraente e in continua evoluzione, in omaggio al Poeta che la definiva “un libro di  pietre vive”.

Queste le motivazioni del Premio Pannunzio 2023 che è stato assegnato a Giordano Bruno Guerri dal Direttore del Centro Pannunzio Pier Franco Quaglieni  al termine di una serata fra gli specchi, gli stucchi, i velluti e le opere d’arte dello storico Ristorante del Cambio, che ha brillato per la cura di ogni dettaglio, e per la squisitezza di un menu ispirato alla più raffinata tradizione sabauda, terminato con un brindisi a base di “sangue morlacco”, il nome con cui quel genio di d’Annunzio ribattezzò l’innocente ratafià durante l’epica impresa di Fiume.

Il premiato risponde con piacere a qualche domanda al termine della serata.

Presidente, Lei appare molto soddisfatto. Fra i numerosi  premi che Le sono stati finora assegnati, quale significato particolare attribuisce al Premio Pannunzio?

Un significato assolutamente unico, perché si tratta di un Premio i cui vincitori, ben 54, sono tutte persone che stimo. Sembra una banalità, ma a pensarci bene è rarissimo individuare ben 54 persone degne di stima, soprattutto per un toscano polemico come me. Il fatto che io mi trovi in sintonia con tutti coloro che mi hanno preceduto significa essere in sintonia  anche con i criteri di scelta e con i valori a cui si ispira il Centro che li ha premiati, intitolato al grande Mario Pannunzio, “anticomunista, antifascista e antidemocristiano”, come si potrebbe dire di me. Al vertice della mia ammirazione, in questa lista, sta Giovanni Spadolini, straordinario sia come storico che come giornalista, che a differenza di me, è stato anche un politico.

Se ben ricordo, un’esperienza politica non è mancata nemmeno a Lei, nel 1997, come “Assessore alla provocazione culturale e al dissolvimento dell’ovvio” nel Comune di Soveria Mannelli…

Quella fu la definizione che pretesi come condizione per accettare l’incarico di Assessore alla Cultura; ma lasciai l’incarico dopo quattro settimane, adducendo il pretesto di  ‘eccesso di cene ufficiali’. Di vita politica ne ho fatta poca, ma in compenso la mia vita personale è stata, per usare un eufemismo, molto attiva.

Anche Lei, dal 2011, conferisce ogni anno un premio, quello del Vittoriale: quali sono i criteri di scelta dei vincitori?

Per i primi dieci anni ho individuato io i personaggi a mio parere più carismatici, in piena autonomia, diffondendo la leggenda che era stato il Comandante stesso ad impartirmi ordini precisi comparendomi in sogno, oppure sull’autobus. Poi, quando la cerchia dei papabili si è fatta più ristretta e mi è venuta meno l’ispirazione, ho deciso di coinvolgere il Consiglio d’amministrazione del Vittoriale, per cui da anni il Premio è frutto di una decisione collettiva.

Quali sono i luoghi torinesi che predilige?

Amo moltissimo il Valentino, ma mi affascina molto anche il Lingotto, dove ritorno ogni anno per il Salone del libro. Non solo si tratta di bellissimo esempio di riqualificazione architettonica, ma, avendo studiato Agnelli e la FIAT, trovo anche emozionante la consapevolezza di ritrovarmi nell’ex stabilimento dove sembra ancora di vedere e sentire gli operai al lavoro.

Si è appena conclusa a Torino Artissima, con le sue sperimentazioni e la sua scia di polemiche. Pensando a Gabriele D’Annunzio, è inevitabile il collegamento alla famosa massima che riuscì a mettere in pratica, contenuta ne Il piacere: “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”. Non è un caso che la sua vita sia più conosciuta della sua immensa opera letteraria: quali sono i motivi della censura che per decenni lo ha condannato all’oblio, prima che i Suoi studi lo rivalutassero storicamente?

Questa è una domanda che ne contiene molte. A mio parere, però, il fatto che D’Annunzio sia più ricordato per la sua vita non rappresenta uno svantaggio. Tenendo conto che ormai perfino i poeti e letterati più scadenti hanno i loro studiosi, parliamo dei grandi: se si pronuncia il nome di Giovanni Pascoli, tutti ricordano sempre e soltanto La cavallina storna; il nome di Giacomo Leopardi evoca immediatamente la siepe dell’Infinito, o il Sabato del villaggio. Invece, basta pronunciare il nome di D’Annunzio perché immediatamente appaia nella nostra immaginazione tutto un mondo vorticoso e bellissimo; un mondo fatto di lusso, di imprese di guerra, di gesti eclatanti, di trasvolate, di donne, di amori…Fra la sua personalità letteraria e quella biografica, lo scarto era minimo; e questa sua vita turbinosa, ispirata al bello e all’eroico rappresenta qualcosa in più rispetto a quella degli altri grandi scrittori: è un capolavoro che si assomma ai suoi capolavori letterari. Certo, la sua figura è stata equivocata, danneggiata dalla falsa convinzione di un suo presunto legame con il Fascismo; e ridarle la dignità storica è stato ed è il mio impegno più importante, molto più gravoso rispetto a quello di restaurare e far rivivere il Vittoriale, obiettivo che probabilmente avrebbe saputo conseguire anche il brillante manager di qualche grande azienda.

“Aspetto l’unica poetessa che abbia oggi l’Italia”: Gabriele D’Annunzio annunciò con queste parole l’arrivo all’Hotel Europa di Amalia Guglielminetti nell’inverno del 1912 a Torino. Dal resoconto dei suoi innumerevoli amori, sembra proprio che il Vate non fosse affascinato solo dalle attrattive fisiche delle donne ma anche e soprattutto dal loro mondo interiore e  che ammirasse sinceramente il genio di attrici come la Duse, di artiste come Romaine Brooks, insomma che fosse innamorato dalla ‘femminilità’ ampiamente intesa. ..

Sicuramente. Sarà anche stato una “catapulta perpetua”, ma secondo me in lui viveva un’anima lesbica. Uno dei suoi giochi preferiti era quello di quello di comportarsi da donna; e le donne sapeva sedurle perché le capiva profondamente. In quanto al rispetto che provava per loro, basti pensare alla Carta del Carnaro, la Costituzione della Reggenza di Fiume, che in ben 6 articoli sottolineava la parità fra uomini e donne, alle quali veniva riconosciuto, nel lontano 1920, non solo il diritto di votare, ma addirittura quello di essere elette, quando in Europa se ne discuteva ancora, e in Italia il loro diritto al voto venne concesso, come si sa, solo nel 1946.

Dalle donne di ogni ceto e di ogni età che si accalcavano ai cancelli del Vittoriale, cosi numerose da obbligare D’Annunzio, al “sacrificio della cernita”, come lui stesso dichiarò, si distinse proprio un’artista, Tamara de Lempicka, che non gli si concesse, nonostante il notevole impegno profuso dal Vate nella sua conquista: gioielli meravigliosi, l’invito serale sulla Nave di Puglia rimontata nel parco del Vittoriale… Quale fu, a suo parere, il motivo di questo rifiuto?

Già: la Nave Puglia, falliti tutti gli altri tentativi, rappresentava per D’Annunzio davvero  l’arma  suprema, l’ultima spiaggia. La ragione ufficiale del rifiuto della Lempicka risiedeva nella paura della sifilide, che il Vate aveva contratto nel periodo francese, ma dalla quale, in realtà, era già guarito da tempo. Penso piuttosto che la de Lempicka, essendo polacca, non potesse venir sedotta dall’uso sapiente della parola al quale sapeva ricorrere il Poeta, motivo di fascino irresistibile per le altre donne. Consideriamo anche che il senso estetico di Tamara poteva essere urtato dalla decadenza fisica del Vate, che negli ultimi anni si presentava in pessime condizioni, come dimostrano le sue ultime fotografie. Sicuramente l’intenzione della de Lempicka era quella di realizzare un ritratto di D’Annunzio, come aveva fatto meravigliosamente Romaine Brooks; un’opera che, data la celebrità del Poeta, l’avrebbe lanciata definitivamente, e che aveva posto come condizione per concedersi. D’Annunzio però non era abituato a mercanteggiare, e quando si rese conto dell’opportunismo della de Lempicka si irritò moltissimo. Per questo, la storia non andò in porto. Paradossalmente, così, la de Lempicka divenne famosa  non per un ritratto di D’Annunzio, ma proprio per il fatto di non esserglisi concessa. Se lo avesse fatto, non sarebbe stata che una delle sue migliaia di amanti.

La leggendaria ricchezza lessicale di D’Annunzio era tale da permettergli di competere con Dante; anzi, come se non gli fossero sufficienti i vocaboli della lingua italiana, il Vate creò numerosi neologismi che sono sopravvissuti nel tempo  e fanno ormai parte del linguaggio comune. Come si comporterebbe nell’epoca contemporanea, nella quale ogni allusione al genere provoca polemiche e censure, e la libertà di parola viene pesantemente limitata dal politically correct?

Avrebbe senza dubbio rotto questi assurdi schemi ideologici. Un poeta che considerava la lingua sacra, tanto da scrivere spesso con le maiuscole ‘Parola’ e ‘Verso’ non si sarebbe mai assoggettato a queste aberranti violenze.

“Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza”. Nella personalità complessa di D’Annunzio convivevano profondità di pensiero e senso umoristico; l’ebbrezza vitalistica e la malinconia provocata dalla decadenza fisica degli ultimi anni, quando, tramite la cameriera Emilia, incominciò a ricorrere alla cocaina, come racconta nel Suo libro La mia vita carnale. Come viveva, il Vate, questa evidente contraddizione fra libertà e dipendenza dalla droga?

La viveva malissimo. Lo faceva sentire in colpa, tant’è che non ne scrisse mai. Dobbiamo però pensare che incominciò a far uso della cocaina dopo il Notturno, quando aveva già scritto tutto. Se fosse morto prima di ricorrere alla droga, la sua opera sarebbe stata comunque quella che conosciamo. Non ne fece mai uso per stimolare la creatività, dunque, ma solo come rafforzativa della sua prestanza sessuale.

Un altro bellissimo motto del Vate è “Ama il tuo sogno seppur ti tormenta”. Lei ha certamente realizzato molti sogni; quali ancora vorrebbe soddisfare?

I miei sono sogni banali, tutto sommato. Quando si hanno figli, si sogna per loro.  Adesso il mio desiderio più potente è quello di diventare nonno. Intendiamoci: non mi auguro affatto che mio figlio di diciassette anni mi dia un nipote; mi auguro invece di vivere cosi a lungo da vedere i miei nipoti, di essere in grado di lanciarli in aria e giocare con loro. Sogno anche  un viaggio: non sono ancora andato in Australia e in Nuova Zelanda. E poi, parecchi anni dopo l’esperienza di Italia mia benché su Rai3 mi piacerebbe anche condurre un’altra trasmissione televisiva per raccontare gli intellettuali irregolari con un’ottica inusuale, ridando loro la corretta connotazione storica; una sorta di neovulgata

Da quindici anni Lei vive al Vittoriale, a stretto contatto con D’Annunzio, ed è  inevitabile immaginare che si sia creato fra voi due un potente transfert. Come è stato influenzato il Suo modo di vivere e di pensare dalla ‘presenza’ costante del genius loci? Non pensa di essere ormai per lui un amico insostituibile, anziché “la sua vedova”, come si diverte a definirsi?   

Effettivamente fra di noi c’è una grande intesa intellettuale: teniamo conversazioni sull’arte e abbiamo un dialogo continuo sui fatti della vita. A volte litighiamo ferocemente; ma ci confrontiamo sempre.

Per esempio?

Per esempio, quando si pensa a una nuova installazione al Vittoriale, gli chiedo: “Comandante, Le piace questa statua? Che ne direbbe di metterla qui’?” Qualche anno fa ho dovuto risolvere un problema che mi ha fatto sorgere molti dubbi. Le magnolie del boschetto che circonda l’Arengo, il luogo più sacro del Vittoriale, una sorta di tempio laico consacrato alle cerimonie commemorative delle imprese di guerra e di Fiume, erano diventate invasive. Le radici avevano dissestato il terreno e spezzato il trono dove sedeva D’Annunzio e i sedili di pietra riservati ai fedeli fiumani; mentre le loro fronde avevano prodotto un muschio che aveva completamente danneggiato le pietre dannunziane, rendendo illeggibili le scritte in latino. Dopo aver riflettuto a lungo, ho fatto intervenire un chirurgo delle piante, e così sono riuscito a salvare l’opera dell’uomo senza danneggiare quella della Natura. Il Comandante, con il quale ho mantenuto un confronto in tutto corso dell’intervento, mi ha approvato. Io lo chiamo così, ‘Comandante’, mentre lui si rivolge a me con un più modesto ‘Gibì’, dalle iniziali dei miei nomi.

Nella sua famiglia si ammirava il filosofo Giordano Bruno?

Non sapevano neppure chi fosse. Il mio doppio nome nacque da una lite esplosa sul sagrato della chiesa di Monticiano, il paesino toscano in cui sono nato, fra i miei due nonni, che parteggiavano l’uno per Giordano e l’altro per Bruno, mentre stavo per essere battezzato. Alla fine decisero di impormeli ambedue. Quando, al fonte battesimale, il sacerdote ne venne informato, trasecolò, e raccontò in breve ai miei familiari la storia e la fine di Giordano Bruno. Ormai, comunque, il dado era tratto. E così uscii dalla chiesa battezzato, ma con il nome del più famoso eretico della Storia.

Qual è la più grande soddisfazione di uno storico?

Scrivere libri di storia è una fatica immane; nel mio caso, quindi, mi accingo all’impresa solo quando penso di dire qualcosa di nuovo su un personaggio o un avvenimento, per liberarli dai luoghi comuni e ridare loro la corretta collocazione storica. Per questo mi sono dedicato alle biografie di personaggi come il colto e onesto Giuseppe Bottai, argomento della mia tesi di laurea, che suscitò grande scandalo; come Curzio Malaparte, che volevo liberare dall’etichetta semplicistica di ‘voltagabbana’, o come il sacerdote scomunicato Ernesto Buonaiuti, dimenticato per volontà del Vaticano. Quando, in seguito alle mie pubblicazioni, il sindaco di Roma Rutelli decise di dedicare una via a Bottai; quando l‘Avvenire del 2 settembre 2022 dedicò un pagina intera a Buonaiuti, intitolandola “Guerri ha ragione: Buonaiuti è stato un profeta”, capii che avevo raggiunto il mio scopo, e provai una gioia immensa. Queste sono le mie grandi soddisfazioni.

Quanto Le è costato il suo rifiuto di aderire alle ideologie, rimanendo  un intellettuale fuori dal coro?

Dal punto vista pratico moltissimo. Potrei essere molto più ricco e più famoso, ma la mia vita non è poi così male. Mi posso accontentare.

Intervista di Marina Rota a Giordano Bruno Guerri
Fonte: Pannunzio Magazine – 12/11/2023