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I ricordi «gastronomici» di un esule istriano in Puglia

Sul sito del giornale indipendente Mola Libera, di Bari, le curiose testimonianze del prof. Dionisio (Dino) Simone, esule da Pola

Sul sito del giornale indipendente Mola Libera, di Bari, di cui è collaboratore, il prof. Dionisio (Dino) Simone, docente di lettere classiche e scrittore, di origini istriane (è nato a Pola il 3 dicembre del 1940), autore, tra l’altro, del libro “Come un gabbiano. L’esodo da Pola settant’anni dopo (1947-2017), “Le parole nostre. Viaggio nella memoria di un profugo istriano” (entrambi per i tipi della Edizioni Dal Sud il primo nel 2014 e il secondo nel 2016) e l’anno scorso del volume “I classici ai tempi del coronavirus”, ha pubblicato recentemente un interessante articolo in cui rievoca diversi piatti tipici istriani che si preparavano nella sua famiglia. Dionisio Simone lasciò l’Istria nel 1947 trasferendosi con la famiglia prima a Polignano a Mare, paese natale di suo padre, poi a Taranto e infine a Bari, città in cui ha insegnato latino e greco al Liceo classico “Quinto Orazio Flacco” e dove vive tutt’oggi. Il nonno materno si chiamava Anton Kert, la nonna materna Antonia Verbanaz Pavincich, entrambi nati a Pola.

Polesano, istriano, profugo e italiano

”Tornando in Istria provo ogni volta nuove emozioni, nuove sensazioni e tanta nostalgia: vado a cercare le mie radise (radici) e mi chiedo: ‘Chi sono io?’. La conclusione è che a tutti gli effetti sono polesano (anche se di origini meridionali), istriano, profugo e italiano. Come il mio bisnonno materno, mia nonna e mia madre, anch’io sono nato a Pola. Il mio nonno materno era di Pinguente (paese dell’Istria centrale, la romana Piquetum); la mia bisnonna di Albona, la patria di Matthias Flacius Illyricus, importante teologo luterano dissidente del 1500. Mio padre e la sua famiglia erano invece di Polignano a Mare. Era destino, oggi si direbbe che era scritto nel mio DNA, che dovessi fare il professore di greco. Mi chiamo Dionisio (San Dionigi o Dionisio era un Santo venerato in molte località dell’Istria, ma era anche il nome del mio nonno paterno). Sono nato a Pola (il nome secondo il poeta Callimaco significa “città degli esuli”). Mi mancava solo una mare grega (madre greca), che però per i polesani non era un buon requisito, perché l’espressione tu mare grega! significava ‘quella donnaccia di tua madre!’” – scrive scherzosamente di sé il prof. Simone in uno dei testi che firma sul sito di Mola Libera.

Esuli e rimasti

“Sono un docente di lettere classiche e per anni ho riletto in classe brani dell’Eneide virgiliana, il cui protagonista, il pius Aeneas, fato profugus (profugo per volere del fato), mi ha sempre affascinato: Enea, un profugo, come noi esuli istriani, come me, che fugge dalla sua città in fiamme, portando sulle spalle il vecchio padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Ascanio (chiamato Iulo dai Latini). Enea, il progenitore dei Romani nell’immaginario dell’Occidente, per il poeta Giorgio Caproni diventa il paradigma dell’esule, del senza patria, controfigura dei vinti e degli sradicati del nostro tempo e può essere considerato anche il simbolo dei migranti dei nostri giorni che fuggono da guerre, distruzione e morte, in cerca di un avvenire migliore in Europa per sé e per i propri figli. Io mi considero un profugo sui generis, perché più fortunato di tanti bambini della mia età, in quanto non sono passato attraverso i campi profughi e i vari convitti nazionali, però anch’io conservo il tragico ricordo di una guerra, non certo di quella Troiana ma della Seconda guerra mondiale e non posso dimenticare i bombardamenti degli Alleati, le corse verso il rifugio, i racconti di papà sulla lotta partigiana e sulle foibe, l’esodo in massa da Pola… – e aggiunge – Quelli che dovettero aspettare diversi anni prima che fosse accolta la loro richiesta di poter lasciare l’Istria patirono fame, miseria, privazioni di ogni genere, disprezzo perché italiani e subirono intimidazioni e minacce, come hanno raccontato parecchi di loro nei loro diari.
Comunque, come precisa Ulderico Bernardi in Istria d’amore, i rimasti, che si trovarono a vivere spaesati nella loro terra svuotata di volti, di memorie, di riferimenti consueti… e i profughi, che si dispersero per il mondo (dall’Europa al Canada, all’Australia…), sono due forme diverse per un unico dolore…”

Addìo, Pola! Addìo per sempre!

“…Ogni volta che leggevo in classe l’Addio ai monti, dei Promessi sposi, pensavo alla mia terra abbandonata (Addìo, Pola! Addìo per sempre!) e condividevo lo strazio che provava Lucia mentre la barca puntava verso la riva opposta del lago… Anche il finale dei Malavoglia di Verga mi ha fatto pensare a profughi e rimasti: Alessi e ‘Ntoni sono posti di fronte per suggerire un’opposizione di destini: l’uno resta nella casa-rifugio e nel paese-nido, l’altro, strappato da questo tempo e da questo spazio mitici, appare ormai condannato allo sradicamento dell’esilio (Luperini)… Quelli che dovettero aspettare diversi anni prima che fosse accolta la loro richiesta di poter lasciare l’Istria patirono fame, miseria, privazioni di ogni genere, disprezzo perché italiani e subirono intimidazioni e minacce, come hanno raccontato parecchi di loro nei loro diari. In precedenza, tra le associazioni dei profughi e i rimasti, non c’era dialogo, anzi c’era disprezzo. I primi erano definiti “fascisti”, i secondi “comunisti” e complici degli “infoibatori”. Nell’ultimo ventennio tante cose sono cambiate (anche se restano diffidenze e rancori), i rapporti sono migliorati e si sono gradualmente intensificati, e ora, finalmente, esuli (andati) e rimasti collaborano per la tutela della minoranza linguistica italiana in Istria”.

Il vincolo più stretto

Tornando al testo sulle pietanze che si preparavano a casa, intitolato “La cucina istriana- Sapori antichi in cucina con mamma e nonna”, il prof. Simone scrive:

”Nel ‘47, in seguito all’esodo da Pola, ci trasferimmo a Polignano. Non fu facile l’impatto con il nuovo ambiente, oltre che per la diversa mentalità, usi, costumi, dialetto, anche per l’alimentazione. Buona la cucina pugliese, ma tanto diversa da quella istriana e polesana in particolare. L’Istria è una regione di frontiera, che nei secoli è stata occupata da popolazioni di culture diverse. Ricordiamo solo che per oltre quattro secoli è stata legata a Venezia; poi è passata sotto il dominio austroungarico (1797-1918); per circa vent’anni è stata governata dall’Italia, quindi dalla Jugoslavia (adesso è divisa tra la Slovenia a Nord, la Croazia al Centro e al Sud). A nessuno di questi luoghi mi sento legato in modo particolare, anche se sono state delle tappe importanti della mia vita. In ciascuno di essi ho lasciato una parte della mia anima e del mio cuore, ma sento che il vincolo più stretto è quello che mi lega alla terra dove sono nato, dove ho trascorso l’infanzia. Ogni popolo vi ha lasciato tracce della propria lingua, delle proprie tradizioni, dei propri cibi, che hanno fatto dell’Istria una regione multiculturale e multietnica: italiana, meglio veneziana, nella fascia costiera, prevalentemente slava nell’interno. Tra i piatti principali della cucina istriana alcuni sono tipicamente veneziani (sardele in saòr o savòr), altri appartengono alla gastronomia austroungarica, come il gulasch, il kùglof, la jota che piaceva tanto a Ceco Bepi, l’imperatore Francesco Giuseppe, come lo chiamavano gli istriani, e i gnochi de marmelada”.

Una cuoca polesana

“Il cibo contribuisce in modo importante a definire l’identità culturale di una regione per cui è importante conservare le tradizioni culinarie della propria terra, e mamma lo ha sempre fatto. Si sentiva soprattutto “polesana” (anche se aveva imparato qualche piatto tipico polignanese) e lo dimostrava preparando cibi rigorosamente istriani… Nella cucina istriana il pesce, preparato in vari modi (fritto, alla griglia, in brodeto), aveva un ruolo molto importante, invece nella cucina di mamma e nonna, essenzialmente contadina, aveva poco spazio. Gli unici pesci che ricordo erano il bacalà (baccalà e stoccafisso), le sepe (seppie), le sardele (sarde), oltre a pesce misto, di piccola taglia, che serviva per preparare il brodeto (zuppa di pesce, a Polignano ciambotto), con cui si condiva la polenta (polenta e pesse): soprattutto triglie (barboni), bobe (boghe, a Polignano le vope, anzi, per essere precisi i vaupe), oltre a molluschi (pedoci, le cozze) e crostacei, gransi e granseole (più grandi e dal sapore delicato), e poi scombri e sièvoli (cefali)…
…Ecco alcuni piatti tipici dell’Istria che mamma preparava: gnochi de patate, gnochi de marmelada (o de susini), polenta e fasoi, polenta e pesse, polenta e tripe (trippa di manzo), risi e bisi, pasta e patate, erbete (bietole) e patate, pasta e fasoi co le crodighe (cotiche), minestron, brodo de carne, polpete de pan e de carne, maranzane peveroni e zuchete ripiene, articiochi (carciofi) al forno e fritaie (frittate) di ogni genere. Gli gnocchi ripieni di marmellata (o con all’interno una prugna – susina) e conditi con pane grattugiato e cannella, erano un piatto tradizionale della cucina austroungarica. Sulla nostra tavola non mancava quasi mai la polenta, che però richiedeva una lunga preparazione. Non c’era ancora la farina di mais precotta che cuoce in pochi minuti…
…Per quanto riguarda i legumi, mamma non cucinava né ceci (piziòi) né lenticchie: solo i fagioli borlotti. La sua pasta e fagioli era diversissima da quella pugliese. Per darle più sapore faceva cuocere nella minestra la cotica di maiale (crodiga de porco) e vi aggiungeva un battuto di lardo e aglio…”
Lo scritto si può leggere nella sua versione integrale all’indirizzo www.molalibera.it/2019/12/15/in-cucina-i-ricordi-di-un-esule-istriano-in-puglia.
A chi fosse interessato invece a leggere un estratto tratto dal suo libro “Come un gabbiano”, Edizioni dal Sud, 2016, (pp. 52) segnaliamo il link www.molalibera.it/2021/01/27/le-memorie-del-prof-dino-simone-un-bambino-istriano-nella-polignano-del-dopoguerra.

A cura di Roberto Palisca – 30/05/2021
Fonte: La Voce del Popolo