Il senso della Patria nella Grande Guerra
Il centenario della Prima Guerra Mondiale ha oscillato tra due estremi: da un lato una rivisitazione patriottarda e retorica dei fatti d’arme, dall’altro la denigrazione pacifista e buonista delle bandiere arcobaleno. Nel mezzo si è trovata una miriade di associazioni, piccoli editori e cultori della materia che, in una sostanziale apatia da parte delle istituzioni, formalmente per colpa della spending review (ossia: ulteriori tagli alla cultura), si sono adoperati allo scopo di dare un più ampio significato a tale anniversario, per il quale si erano preparati da anni. Tra costoro figura Paolo Gaspari, editore friulano nonché autore in prima persona di preziosi saggi e ricerche sulle tematiche della Grande Guerra, che proprio nella sua regione visse alcune tra le fasi più importanti. Il saggio Il senso della Patria nella Grande Guerra. La fierezza e l’identità italiana, pubblicato nel 2014, ha rappresentato e ancora configura un significativo contributo al dibattito sui significati e sul senso di quel gigantesco conflitto nell’edificazione della coscienza nazionale italiana.
L’autore/editore coglie innanzitutto la dimensione collettiva di tale fenomeno, in antitesi con altri due momenti declamati come fondamentali nella formazione degli Italiani, vale a dire Risorgimento e Resistenza, che in realtà videro la partecipazione attiva di frange minoritarie ed assunsero i caratteri della guerra civile. La mobilitazione di massa fin da principio e la cosiddetta “unione sacra” realizzatasi non al momento dell’entrata in guerra (come avvenne nel resto d’Europa nella terribile estate 1914) bensì dopo la catastrofe di Caporetto, vengono rappresentati come i passaggi decisivi nel portare studenti delle grandi città, contadini delle campagne, operai delle fabbriche e militari di carriera a diventare cittadini soldati italiani. Seguendo un dettagliato parallelismo con altre esperienze coeve, viene evidenziato il percorso di acquisizione della cittadinanza e dei diritti civili non solo attraverso l’estensione del suffragio, ma anche e soprattutto nell’arruolamento e nella consequenziale capacità di amalgamare persone provenienti da spaccati socioculturali diversissimi in una forza coesa e compatta.
Valido conoscitore di storia militare (la carenza del cui insegnamento viene acutamente criticata), Gaspari spiega bene al lettore l’inutilità delle undici battaglie dell’Isonzo, sia da un punto di vista bellico, sia dal lato della formazione di una coscienza nazionale nelle migliaia di fanti scaraventati all’assalto di postazioni inespugnabili. Già in questi primi due anni e mezzo di guerra, tuttavia, si colsero i prodromi della formazione di uno spirito di corpo e del senso del sacrificio per la Patria, la cui difesa sulla linea del Piave avrebbe significato difendere pure i diritti che al suo interno sarebbero stati garantiti. Il Regio Esercito non appariva più come lo spietato strumento sabaudo che aveva devastato le campagne meridionali al fine di estirpare il brigantaggio e preso a cannonate i manifestanti di Milano, al suo interno cominciavano a emergere un cameratismo ed un senso di corpo testimoniati da un profluvio di medaglie e decorazioni, dalle cui motivazioni emergono episodi di eroismo e di abnegazione assolutamente straordinari. Chiaramente non ci fu dappertutto un’idilliaca armonia tra ufficiali e subordinati e neppure tra commilitoni, tuttavia le masse popolari, che erano rimaste ai margini del processo di unificazione nazionale ed avevano recentemente acquisito più facilmente un’identità partitica che patriottica (cattolici nella campagne, socialisti nelle fabbriche), fecero registrare percentuali di diserzione ed ammutinamento inferiori rispetto ad altri eserciti. Tale sviluppo dimostrava la correttezza della visione del conflitto come di un momento potenzialmente rivoluzionario che presiedeva all’interventismo democratico di estrazione mazziniana e a quello dei sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni ed Alceste De Ambris. Completamente avulso a tali dinamiche si dimostrò il Partito Socialista, che a guerra finita si rivelò inoltre incapace di incarnare le rivendicazioni dei reduci che reclamavano la riforma agraria ed un maggiore coinvolgimento nella vita pubblica («trincerocrazia» l’avrebbe definita Benito Mussolini, dimostratosi ben più astuto nell’intercettare tali umori).
Comprovano il coinvolgimento totalitario della società italiana, denotano una capacità unificante interclassista e creano ancor oggi un senso di appartenenza i monumenti ai caduti e gli elenchi dei concittadini morti in battaglia scolpiti a fianco del celebre Bollettino della Vittoria presenti in tutti i Comuni della penisola. Nel suo agile libretto (62 pagine), l’appassionato autore non si esime, infine, dall’evidenziare le colpe delle classi dirigenti e docenti italiane nell’aver rimosso questo importantissimo mito unificante dalla coscienza delle nuove generazioni, liquidando semplicisticamente la Grande Guerra come l’antefatto del ventennio fascista e soffermandosi invece in maniera autolesionista sulle sconfitte militari del periodo unitario. Un popolo si compatta e si riconosce nelle vittorie e quella conseguita il 4 novembre 1918 è un punto di riferimento da rivalutare non solo in senso patriottico, ma anche sociale, con riferimento agli auspici di riforme e di cambiamento scaturiti allora ed ancor oggi per tanti versi di attualità.
Lorenzo Salimbeni
Il senso della Patria nella Grande Guerra