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Tutte Le Strade Conducono A Roma Corsera

“In armi per riconquistare la libertà” di Leo Valiani con il Corriere della Sera

In edicola con il Corriere della Sera «Tutte le strade conducono a Roma» del Senatore fiumano Leo Valiani (1909-1999), già Presidente Onorario della Società di Studi Fiumani.

Qui la prefazione del volume a cura di Andrea Ricciardi. Si tratta di un testo autobiografico in cui il dirigente del Partito d’Azione e del Cln racconta la sua esperienza di combattente contro la tirannia nazifascista. 

Tutte le strade conducono a Roma è il libro più coinvolgente di Leo Valiani. Scritto nell’estate del 1945, nella prefazione egli ne chiarì il senso: «Questa non è la storia della nostra guerra di liberazione. La storia conviene scriverla a maggior distanza di tempo e la scriverà meglio, probabilmente, chi non sia stato attore del dramma. Questo è solo il racconto di uno che a quella guerra ha partecipato, ha combattuto, ha odiato, ha ordinato di sparare sui nemici e ha mandato a morte degli amici, che il caso o la selezione della lotta avevano posto alle mie dipendenze. Ma che non perciò ha cessato di amare e di ridere. È un diario».

Il libro in realtà è più di un diario, è un pezzo di autobiografia. Contiene analisi acute che, elaborate in corrispondenza o a ridosso degli eventi narrati, hanno retto al tempo e dimostrato che Valiani, come Gaetano Salvemini, si fece storico del presente. Scrive della Resistenza armata e della politicizzazione delle bande, degli Alleati e dei programmi dei partiti, degli scioperi e della rinascita della centralità operaia, di fallimenti e speranze, dubbi e incertezze, dei bombardamenti e delle torture perpetrate dai nazifascisti, delle rappresaglie sui civili, delle trattative e della fine di Mussolini, di cui Valiani dà una versione lineare.

Nell’aprirsi dal punto di vista umano come non farà più, Valiani tratta la sua sfera privata. Racconta di sua moglie Nidia e del figlio Rolando che, nato nel 1939, conobbe nel 1943 quando sposò Nidia, incontrata dopo essere espatriato nel 1936 a Parigi dove, militante del Pcd’I con dubbi crescenti sulla politica del Comintern, lavorava nella redazione de «La Voce degli Italiani». Intanto frequentava Garosci e Venturi, i suoi amici più cari e i più assidui interlocutori sul piano politico-culturale, a lui accomunati da una militanza intellettuale totalizzante, novecentesca.

Il libro è attraversato da episodi drammatici, aneddoti e ritratti fulminanti di vari protagonisti di un conflitto combattuto su più livelli in un Paese diviso. Quando Valiani giunge in Italia gli sembra che il fascismo non sia mai esistito. A Palermo le librerie sono ricche di volumi antifascisti. Poi a Salerno, a piedi verso Nord oltre le linee nemiche, nel vivo della lotta non con paura ma con entusiasmo (e incoscienza), con la volontà di costruire una patria diversa. Il presente s’interseca con il passato: Valiani ripensa ai suoi anni giovanili; ai contatti con Rosselli, al cui socialismo liberale si sentirà vicino fino alla fine; al confino e al carcere, condiviso con Secchia, Spinelli, Terracini. Cita Bartellini, il suo primo maestro che morì a Dachau poco prima della Liberazione e dalla cui descrizione traspaiono gratitudine e nostalgia.

Con la risalita della penisola aumentano i pericoli, ma il pensiero di rivedere Nidia lo sostiene. Le dedica pensieri amorevoli, in contrasto con l’annullamento della dimensione intima che mostrerà poi, guardando ad altri scritti autobiografici e ai carteggi: «Mille chilometri più in su, ci sta una ragazza che amo. L’ultima volta la vidi a Marsiglia. Tirava vento di mare che rendeva salate le sue guance. Io me ne andavo in Africa, lei ritornava in Italia. “Ti rivedrò tra un anno”, le dissi. Ne sono passati tre. Mi aspetterà ancora? Vorrei rivederla il giorno del suo compleanno. Sarà impossibile, mancano pochi giorni. Ma essere almeno a Roma per quella data… Sarebbe la prova divina che sono tornato per lei».

Il 9 ottobre 1943 Valiani arriva a Roma, comincia una nuova vita. Rivede compagni di carcere e di esilio, ne conosce di nuovi con cui, segretario del Partito d’Azione per il Nord, suo rappresentante nel Clnai e direttore dell’edizione lombarda de «L’Italia Libera», punterà alla rivoluzione democratica incentrata sui Cln. Gli organi di uno Stato ispirato alle autonomie e alla discontinuità anche rispetto all’Italia liberale, che consenta ai sudditi anestetizzati dalla propaganda di regime di acquisire coscienza e senso critico, diventando cittadini.

I partigiani sfiorano la morte e la tortura per mere casualità, in attimi eterni. Il confine tra la vita e la fine di tutto è labile, Valiani ricorda i compagni caduti per piccole imprudenze o delazioni di spie, che devono essere punite. È cosciente del suo ruolo, si definisce spietato ma il risultato finale fa premio sul resto, ogni incertezza può essere fatale. Tra i partigiani e i nazifascisti la gente comune, capace di gesti di generosità incondizionata ma impaurita dalle rappresaglie e allo stremo delle forze.

Valiani inquadra le priorità politiche e le personalità dei compagni: la forza tranquilla di Parri, circondato da un alone di calma ieratica quasi mistica. Struggenti i ritratti di Willy Jervis, che non rivela il suo indirizzo nonostante le torture e muore sostenuto da una profonda fede religiosa; Leone Ginzburg («nessuno avrebbe potuto colmare il vuoto da lui lasciato. Con lui scompariva l’unico di noi che fosse capace di forte creatività spirituale, di mettersi al di sopra della politica in atto»); Duccio Galimberti; Silvio Trentin che, prima di morire, gli affida il figlio Bruno.

Arriva il 25 aprile, il 26 il comizio in piazza Scala, la sera una telefonata a Secchia: «Vorrei dirgli tante cose, ma la voce mi viene a mancare dopo le prime parole, che confermano l’avvenuta insurrezione, a lungo sognata». Valiani è membro di un comitato ristretto che, in linea con la maggioranza del Clnai, condanna a morte il duce. Il fascismo è sconfitto, ma il prezzo è altissimo e il futuro è tutto da costruire: «La rivoluzione italiana non ha avuto il consenso che di una scarsa metà del nostro popolo».

È la presa di coscienza della realtà, che non lenirà la nostalgia di una rivoluzione incompiuta che accompagnerà gli ex azionisti. Le ricostruzioni di Valiani diverranno poi più distaccate, una crescente inquietudine non lo abbandonerà ma rimarrà in lui la volontà di sviluppare la coscienza critica, guardando non all’individuo ma alla collettività. Cadranno in lui le illusioni, non la speranza. L’idea di non disperare nelle situazioni più disperate che si respira in Tutte le strade conducono a Roma parla all’oggi e al futuro.

Andrea Ricciardi
Fonte: Corriere della Sera – 23/04/2022

È in edicola con il «Corriere della Sera» il libro di Leo Valiani Tutte le strade conducono a Roma, al prezzo di euro 9,90 più il costo del quotidiano. Il volume, che resta in vendita per un mese, si apre con un’introduzione del biografo di Valiani Andrea Ricciardi (in questa pagina una sintesi) e un testo di Antonio Carioti sull’attività di Valiani come editorialista del «Corriere». Il libro, che narra l’attività svolta dal dirigente del Partito d’Azione nella Resistenza, uscì nel 1947, edito da La Nuova Italia, ed è stato poi riproposto dal Mulino nel 1983 e nel 1995. Leo Valiani, il cui cognome originario Weiczen fu poi italianizzato, era nato nel 1909 a Fiume (allora Austria-Ungheria), in una famiglia di ebrei non osservanti. Sin da ragazzo abbracciò gli ideali socialisti e nel 1928 fu arrestato perché in possesso di stampa antifascista e inviato al confino per un anno sull’isola di Ponza, dove aderì al Partito comunista d’Italia. Tornato a Fiume, avviò un’attività cospirativa e fu di nuovo arrestato nel 1931 e condannato a 12 anni e 7 mesi di carcere. Liberato per un’amnistia nel 1936, espatriò in Francia, dove si dedicò all’attività giornalistica nelle file del Pcd’I. Nel 1939 fu internato dalle autorità francesi e venne espulso dal partito per il suo dissenso dalla linea del Comintern. Nel 1940 aderì al movimento di Giustizia e Libertà, poi confluito nel Partito d’Azione, e fuggì dal campo di prigionia nel 1940. Emigrò in Messico e tornò in Italia solo nel 1943 per partecipare in prima linea alla lotta partigiana. Nel dopoguerra, dopo la fine del Pd’A, lavorò alla Comit e proseguì il suo impegno, dal 1970, anche come firma del «Corriere della Sera». Nominato senatore a vita nel 1980, aderì da indipendente al gruppo repubblicano. Morì nel 1999.