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Alcuni cenni sul dalmatico e sulle lingue romanze

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Autore: Francesca Lughi

La filologia romanza, come è noto, è la scienza che studia le lingue neolatine e i testi scritti in tali lingue. La prospettiva di questa disciplina è triplice: da un lato, essa esamina lo sviluppo di queste lingue (detto aspetto diacronico), ossia la loro evoluzione storica e comparata. Da un altro lato, essa si occupa di cogliere la morfologia di una data lingua come sistema in sé (detto aspetto sincronico). Infine, fornisce il fondamento scientifico per la realizzazione di edizioni critiche dei testi scritti in lingue romanze. Essa nasce, come del resto più in generale la moderna filologia, verso la fine del XVIII secolo, grazie all'impulso dato dal Romanticismo allo studio delle lingue. Già Dante, nel De vulgari eloquentia, vide chiaramente le affinità tra le lingue romanze dell’Europa occidentale. Sua è la distinzione tra lingua d’oclingua d’oïl elingua del si. In seguito Poggio Bracciolini e altri umanisti osservarono come l’italiano e le altre lingue romanze derivassero dal latino volgare. Il padre della filologia romanza come moderna disciplina scientifica, tuttavia, può essere considerato il francese François Raynouard (1761-1836), benché altri importanti contributi nella sistematizzazione della filologia siano giunti dall’opera del filologo cassico tedesco Karl Lachmann verso la metà del XIX secolo, dalle osservazioni dello studioso francese Joseph Bédier a inizio Novecento e dalle successive intuizioni dell’antichista Giorgio Pasquali negli anni Trenta dello scorso secolo. Va in ultimo rilevato come in Italia questa disciplina copra anche aspetti linguistici, per lo più legati alla linguistica storica, che riguardano l’evoluzione dal latino alle lingue romanze. Nel disaminare le derivazioni linguistiche romanze per prima cosa ci si potrebbe chiedere se il latino sia una lingua morta. La risposta è che, in realtà, le lingue romanze sono la prova evidente che il latino continua a essere parlato in un’ampia area dell’Europa Occidentale. Il dalmatico, dunque, si inserisce all’interno del panorama delle lingue romanze, ove con l’aggettivo romanzo ci si riferisce a quelle lingue che sono derivate dal latino a seguito dell’espansione dell’Impero romano. Il termine romanzo deriva dall’avverbio latino romanice che si riferisce al parlare in vernacolo (romanice loqui) rispetto al parlare in latino (latine loqui). Secondo questa breve premessa si potrebbe dire che il numero di lingue romanze corrisponde, grosso modo, a quello delle varietà parlate sul territorio di dominazione romana che formano il cosiddetto continuum romanzo, ma per semplificare le cose, i romanisti distinguono nove lingue: portoghese, spagnolo, catalano, occitano o provenzale, francese, sardo, italiano, ladino o romanzo alpino, romeno. A queste nove andrebbe aggiunta una decima, il dalmatico, di cui l’ultimo parlante è morto a Veglia nel 1898 per lo scoppio di una mina di terra. Per questo, oggi il dalmatico è una lingua romanza estinta, un tempo parlata sulle coste della Dalmazia e di cui si distinguevano due varianti, il settentrionale o veglioto e il meridionale o raguseo. Secondo il linguista Carlo Tagliavini esisteva anche un terzo dialetto, il fiumano, molto simile al veneto dell’Istria e classificabile per questo motivo sotto quest’ultimo idioma. Con la caduta dell’impero romano d’occidente, le popolazioni romanizzate dell’Illiria rimasero in balìa degli invasori barbari che, principalmente, erano Avari e Slavi. Nel VII secolo la regione risultava divisa in due entità: la Dalmazia, cioè la costa, e l’area montuosa interna. La seconda era stata slavizzata, nonostante sopravvivessero gruppi neolatini come i morlacchi, mentre la prima resistette alle invasioni e mantenne la sua identità originale: infatti la popolazione era riuscita a rifugiarsi in porti fortificati come Zara, Spalato e Ragusa. Le popolazioni della Dalmazia mantennero vivi i contatti con la penisola italica, grazie anche alla vicinanza al mare. Nel secolo XI, secondo lo storico Giovanni De Castro, i parlanti dalmati erano oltre 50.000. Con le conquiste della Repubblica di Venezia il dalmatico fu sostituito dal veneto: sembra che, per esempio, nella città di Zara questo cambiamento avvennisse prima del Rinascimento. Il dialetto raguseo che venne parlato dalla maggioranza della popolazione della Repubblica di Ragusa fino alla metà del XV secolo, si estinse nel XVII secolo anche a causa delle massive migrazioni degli Slavi che cercavano rifugio nelle terre cristiane, protette dalla Serenissima, per sfuggire alle invasioni dei Turchi. Solo in alcune aree limitate, come le isole del Quarnero, si continuò a parlare, fino ai tempi di Napoleone, il dalmatico. Del dialetto veglioto restano alcune trascrizioni dirette ottocentesche. Il Bartoli, il maggiore studioso del dalmatico è riuscito a raccogliere nel 1897 dalla voce dell’ultimo parlante veglioto, Antonio Udina Burbur, quelle che sono le ultime testimonianze di questa lingua. Fonti supplementari della conoscenza del dalmatico sono il serbo-croato e il veneziano che l’hanno sostituito e che ne conservano parecchi elementi lessicali. A livello morfologico il dalmatico presenta caratteri arcaici, come per esempio le dittongazioni i> éi (déigoòu, dòuroki e ke velari: vegl.kenur «cenere», dik «dici», loik < lucet) [Bartoli, 1906, II, par. 425]. Presenta anche una serie di tratti comuni, in parte, all’italiano toscano e centro-meridionale che lo distinguono dal veneziano: conservazione di t intervocalico e davanti a r: per esempio, patruno e non padhròn o paròn; Ē <ai come per esempio vegl. akait«aceto». Il dalmatico, quindi, per la sua fisionomia risulta piuttosto originale rispetto all’italiano, anche se non può costituire, come sostiene Bartoli, una congiunzione verso l’«individualità» del romeno, a Est, nel cuore dei Balcani. BIBLIOGRAFIA M. G. Bartoli, Il dalmatico. Resti di un’antica lingua romanza parlata da Veglia a Ragusa e sua collocazione nella Romània appennino-balcanica, cura di A. Duro, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 2000. M. G. Bartoli, Das Dalmatische. Altromanische Sprachreste von Veglia bis Ragusa und ihre Stellung in der Apennino Balkanischen Romania, Nendeln/Liechtenstein, Kraus, 1975, 2 voll. (I ed. Wien, Halder, 1906). G. Inglese, Come si legge un’edizione critica. Elementi di filologia italiana, Roma, Carocci, 2003. P. Maas, Critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1984. G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Sansoni, 1974 (I ed. 1934). L. Renzi - A. Andreose, Manuale di linguistica e di filologia romanza, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 178-179. L. D. Reynolds - N. G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Padova, Antenore, 1987. A. Varvaro, Critica dei testi classica e romanza. Problemi comuni ed esperienze diverse, in Id., Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma, Salerno editore, 2004.