Autore: Lucia Bellaspiga
La mia prima volta a Pola, da bambina, è il ricordo di mia madre che piange aggrappata a un cancello. Un’immagine traumatica, che allora non sapevo spiegarmi. Eravamo là in vacanza, il mare era il più bello che avessi mai visto, le pinete profumate: perché quel pianto? Al di là di quel cancello una grande casa che doveva essere stata molto bella, ma che il tempo aveva diroccato e ingrigito. Alle finestre i vetri blu, “erano quelli dell’oscuramento” mi disse mia madre, eppure la seconda guerra mondiale era finita da trent’anni. Tutto era rimasto come allora. La finestra si aprì e una donna gentile, con accento straniero, capì immediatamente: “Vuole entrare?”, chiese a mia madre. Solo adesso comprendo la tempesta di sentimenti che doveva agitare il suo cuore mentre varcava quella soglia e rivedeva la sua casa, la cucina dove era risuonata la voce di mia nonna, le camere in cui aveva suonato il pianoforte e giocato con i fratelli. Sono passati molti anni prima che io capissi davvero: la scuola certo non ci aiutava, censurando completamente la tragedia collettiva occorsa nelle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia, e d’altra parte molti dei testimoni diretti, gli esuli fuggiti in massa dalla dittatura del maresciallo Tito e dal genocidio delle foibe, rinunciavano a raccontare, rassegnati a non essere creduti. Ciò che durante e dopo la II guerra mondiale era accaduto in decine di migliaia di nostre famiglie restava un incubo privato da tenere solo per noi perché al resto degli italiani non interessava. Eppure era storia: storia nazionale, storia patria… Anche i miei numerosi zii e cugini sparsi per l’Australia sembravano quasi irreali, figure fantastiche che immaginavo mentre, imbarcati sulla nave “Toscana”, lasciavano Pola per sempre, e poi anche l’Italia, via verso l’ignoto. Ogni ritorno porta con sé un dolore (questo significa nostalgia in greco: “dolore del ritorno”), così per molti anni a Pola non tornammo più. Ma dentro di me intanto lavorava il richiamo delle origini, cresceva il desiderio che ogni donna, ogni uomo ha di sapere da dove è venuto, così, come tanti miei coetanei, ho iniziato a ripercorrere l’esodo dei nostri padri in senso inverso, sono tornata davanti a quel cancello. Intanto il Novecento è diventato Duemila, l’Europa una casa comune sotto il cui tetto abitano popoli un tempo nemici, e i giovani oggi, da una parte e dall’altra, sognano un mondo nuovo, segnato dalla pace e dal progresso condiviso. E noi? I figli e nipoti dell’esodo, noi nati “al di qua”, che ruolo abbiamo in questo mondo che cambia ma che non deve dimenticare? Tocca a noi, dopo il secolo della barbarie, tenere alta la memoria non per recriminazioni o vendette, ma perché ciò che è stato non avvenga mai più e si possa segnare un strada futura, comune, da percorrere. Se il perdono, infatti, è sempre un auspicio, la memoria è un dovere, è la via imprescindibile per la riconciliazione: non è vero che rimuovere aiuti a superare, anzi, la storia dimostra che il passato si supera solo facendo i conti con esso e da esso imparando. Sono trascorsi settant’anni da quando 350mila giuliano-dalmati sopravvissuti agli eccidi comunisti abbandonarono con ogni mezzo la loro amata terra, sperimentando la tragedia dello sradicamento totale e collettivo. La maggior parte di loro è morta senza avere non dico giustizia, ma almeno il sacrosanto diritto di veder riconosciuto il proprio immane sacrificio. Chiedo in prestito le parole al presidente emerito Giorgio Napolitano: “La tragedia di migliaia e migliaia di italiani imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, ha detto nel 2007, rompendo dopo 60 anni la cortina del silenzio. “Il moto di odio e di furia sanguinaria” (cito ancora Napolitano) aveva come obiettivo lo “sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia”. Ma soprattutto gli siamo grati per il mea culpa pronunciato a nome dell’Italia: “Dobbiamo assumerci la responsabilità dell’aver negato la verità per pregiudizi ideologici”. Un altro grande passo sulla via della verità è stato compiuto proprio qui alla Camera il 13 giugno scorso, quando - promotrice la eurodeputata del Pd Laura Garavini - per la prima volta dopo 68 anni si è commemorata (e riconosciuta) la strage di Vergarolla, 28 ordigni fatti esplodere sulla spiaggia di Pola, oltre cento vittime tra adulti e bambini. Era l’agosto del 1946, già in tempo di pace, si tratta quindi della prima strage della nostra Repubblica, più sanguinosa di piazza Fontana, più della stazione di Bologna, eppure da sempre nascosta. Con Vergarolla fu chiaro che la sola salvezza era l’esilio. Neppure noi, che pure siamo i figli e i nipoti dell’esodo, possiamo lontanamente immaginare che cosa sia stato il momento del distacco definitivo. Proviamo a immaginarlo ora: uscire dalla casa dove sei sempre stato e non per tornarci la sera, no: mai più. Tiri la porta e delle chiavi non sai che fare: chiudere? A che serve? Domani stesso nelle tue stanze entrerà gente nuova, che non sa nulla della vita vissuta là dentro. Ti porti dietro quello che puoi, poche cose, ma ciò che non potrai portare con te, che mai più riavrai, è la scuola che frequentavi, le voci degli amici, un amore che magari sbocciava, il negozio all’angolo, l’orto di casa, i campi, i volti noti, il tuo mare, il paesaggio, il campanile… persino i tuoi morti al cimitero. Insomma, non perdevano dei “beni”, perdevano la vita intera. Addio Pola, addio Fiume, addio Zara. I racconti sono spesso uguali: in una gelida giornata di bora, in un silenzio irreale rotto solo dai singhiozzi dei più vecchi, la nave si staccava dalla riva che era sempre più piccola, sempre più lontana. Da laggiù la tua casa, la tua stessa finestra, il campanile diventavano già quel dolore-del-ritorno che mai sarebbe guarito. Da che cosa si scappava? Dai rastrellamenti notturni, dalle foibe, dai processi sommari. Dai massacri perpetrati in quelle regioni d’Italia dai partigiani jugoslavi nell’autunno del 1943 e di nuovo dal maggio del 1945, cioè a guerra finita, quando il mondo già festeggiava la pace. Se nel resto d’Italia il 25 aprile a portare la Liberazione erano gli angloamericani, nelle terre adriatiche facevano irruzione ben altri “liberatori”. E iniziava il terrore. Da Gorizia e Trieste fino giù a Zara in tutta la Venezia Giulia dei colpi alla porta con il calcio del fucile preannunciavano l’ingresso dei titini e il rapimento dei capifamiglia, centinaia ogni notte. Poi sparirono anche le donne, persino i ragazzini, i vecchi, e tanti sacerdoti: “Condannato”, si legge sulle carte dei processi farsa, in realtà fucilati a due passi da casa o gettati vivi nelle foibe, tanti nel mare con una pietra al collo. Da questo si fuggiva. Ma dove? In un’Italia povera e da ricostruire, anche solo un parente o un amico in una città lontana era l’ancora di salvezza, a Milano, La Spezia, Ancona, Venezia, Cagliari, Roma, Taranto… Dialetti diversi, mentalità sconosciute, ma a fronte di qualche episodio orribile di rifiuto e di nuove persecuzioni, ancora più dolorose perché ricevute dai propri connazionali, ben più numerosi furono l’accoglienza e l’abbraccio della gente. Sorsero villaggi giuliano-dalmati, quartieri di esuli, ma anche campi profughi, più di 100 in tutta Italia, ex campi di prigionia, ex carceri, caserme dismesse, dove le famiglie si trovarono scaraventate in un nuovo incubo. Pensate, pensiamo cosa significhi: comunità spezzate, tessuti sociali frantumati, improvvisamente non più i profumi e i colori della propria terra ma miseri accampamenti dove restarono per anni, le coperte appese a fare da parete tra una famiglia e l’altra. Qualcuno impazzì, qualcuno, svuotato della propria identità, si tolse la vita, molti morirono di crepacuore (così morì mia nonna). Al loro arrivo, presero loro le impronte digitali, come fossero delinquenti. Precursori dei migranti di oggi, erano temuti e isolati come fossero venuti a rubare il lavoro… ma loro non erano immigrati, erano italiani in Italia. Fascisti! Così erano chiamati, solo poiché fuggivano da un regime comunista, e il grave equivoco resta ancora oggi incancrenito in residue forme di ignoranza, che il Giorno del Ricordo vuole dissipare: gli italiani della Venezia Giulia uscivano dall’Italia che era stata fascista esattamente come gli italiani di Roma, Trento, Napoli… I nostri nonni e genitori erano stati fascisti o antifascisti esattamente come tutti gli altri italiani, come tutti avevano approvato o invece subìto o combattuto il regime. Si usciva tutti, indistintamente, da un ventennio fascista e da una guerra persa. Nelle foibe non furono gettati “i fascisti”, come si sente ancora dire, ma maestri di scuola, impiegati, carabinieri o finanzieri che in Istria erano venuti dal sud d’Italia (proprio come accade oggi), medici, artigiani, operai, imprenditori, negozianti… tutti, purché fossero o italiani o avversi alla nuova dittatura. E quanti erano stati antifascisti! Ma c’è poi un secondo enorme equivoco in cui ancora oggi incorre chi non conosce la storia: “Di che vi lamentate? – dicono – L’Italia ha perso la guerra, era giusto che pagasse”. Vero, ma tutta l’Italia era stata sconfitta, eppure per saldare i 125 milioni di dollari, debito di guerra dell’intera nazione, il governo utilizzò le case, i negozi, i risparmi di una vita soltanto dei giuliano-dalmati. Promettendo indennizzi poi mai erogati. Se dunque noi oggi abbiamo le nostre case qui, se Milano, Palermo, Torino, Bari sono ancora Italia, è perché i giuliano-dalmati hanno pagato per tutti. Le loro vite hanno riscattato le vite di tutti noi. Vogliamo almeno dire grazie? Vogliamo che almeno si sappia e che si studi a scuola? E intanto che cosa succedeva al di là dell’Adriatico, dove poche migliaia di italiani erano rimasti per vari motivi, per non lasciare la propria casa, per non separarsi dai loro vecchi, perché fiduciosi nel nuovo regime comunista, o invece perché dallo stesso regime non ottenevano il permesso di partire? Accusati dagli esuli di essere comunisti e dagli jugoslavi di essere italiani quindi fascisti, a loro volta patirono una sorta di esilio in casa loro. E questo mi permette di tornare alla domanda iniziale: che ruolo abbiamo oggi noi, figli e nipoti, i nati dopo l’esodo? Due ruoli principalmente. Il primo: farci tutori di una memoria che – cito ancora Napolitano – “ha già rischiato di essere cancellata” e tuttora è a rischio. Difendere una verità ancora non del tutto condivisa. Esigere quel risarcimento morale che i nostri cari – i pochi di loro ancora in vita – solo di recente hanno iniziato a ricevere. Ma in questa opera di civiltà riusciremo solo con il sostegno forte e incondizionato delle Istituzioni. Se infatti l’essere qui, oggi, alla presenza delle massime cariche dello Stato legittima senza se e senza ma la nostra Storia, atti di vandalismo non solo morale contro la nostra memoria sono sempre in agguato (basti accennare all’amministratore locale che pochi mesi fa, proprio in un anniversario storico per gli esuli e per l’Italia intera, ha ufficialmente esaltato Tito come liberatore delle nostre genti). Secondo nostro ruolo è guardare al futuro, perché il Giorno del Ricordo non diventi col tempo un retorico appuntamento celebrato per dovere o una sorta di lamentoso amarcord. A noi il compito di congedare per sempre il Novecento con tutti i suoi opposti misfatti e contribuire a una pace duratura, prendendo come esempio la grande lezione di rettitudine e mitezza dei nostri esuli: raccogliendo il loro testimone, saremo l’antidoto a un mondo ancora troppo intollerante ed estremo. In questa direzione va anche il riavvicinamento tra noi e i nostri coetanei nati al di là, figli e nipoti dei rimasti, cui dobbiamo gratitudine per aver mantenuto nei decenni, contro mille difficoltà, le nostre tradizioni millenarie, la lingua e la cultura italiana, l’impronta indelebile che abbiamo lasciato dall’antica Roma alla Repubblica di San Marco fino ai giorni nostri. E’ grazie soprattutto a loro se oggi – come si dice – in Istria e Dalmazia “anche le pietre parlano italiano” e due millenni di storia non sono stati spazzati via. Insieme a loro, ora sono i giovani croati e sloveni ad abitare le terre dei nostri padri, e girando per le cittadine venete di Istria e Dalmazia ho constatato l’amore e il rispetto con cui le conservano, forse ignari del sangue che vi fu sparso. Ma in quel patrimonio inestimabile che il mondo ci invidia, simboleggiato dall’Arena romana di Pola, risiede la nostra identità e oggi qui vi chiediamo, per favore, di aiutarci a far sì che non vada dispersa. Ognuno faccia la sua parte. Io come giornalista di un quotidiano a diffusione nazionale, ho avuto il privilegio di raccogliere negli anni centinaia di interviste e posso testimoniare che tutte grondano dolore, ma mai ho sentito parole di odio. Tra le tante vicende umane concludo citandone due. La signora Giorgia Rossaro Luzzatto, goriziana, nella cui famiglia si intrecciano i drammi del Novecento: il padre ucciso dai partigiani di Tito, la nonna deportata ad Auschwitz dai tedeschi, uno zio assassinato alle Fosse di Katyn, due cugini morti nei gulag sovietici. Ancora oggi a 92 anni va per le scuole, voce irrinunciabile,perché i ragazzi sappiano. E Sergio Uljanic, che ha vissuto tutta l’infanzia, sette anni, nei campi profughi di Gorizia, Bari, Bagnoli e Torino. Nato il 16 settembre del 1947, è l’ultimo esule di Pola: il giorno prima gli inglesi avevano consegnato le chiavi della città agli jugoslavi. Com’è noto anche grazie al musical di Simone Cristicchi, a Trieste nel Magazzino 18 restano le masserizie degli esuli, oggetti antichi nei quali è vivo lo spirito dei nostri cari. Ma nelle case di ognuno di noi c’è un Magazzino 18 personale, anche io ho il mio. E’ un grande specchio dalla casa di Pola, partito anche lui con l’esodo, e mi piace pensare che su quella superficie si riflettevano i volti dei miei nonni, di mia madre bambina, delle persone di cui mi parla sempre. In un certo senso nessuno li può cancellare, sono rimasti là dentro, chiusi in uno scrigno e invisibili, ma come dice Saint-Exupéry nel Piccolo Principe “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Loro sono il nostro essenziale, non dimentichiamo di onorarli. Grazie a tutti.