Vista da lontano, la Dalmazia nel pensiero degli Italiani
Autore: Lucio Toth
Ci siamo chiesti tante volte come ci vedono gli “altri”, gli altri italiani innanzitutto. Perché per parlare di noi, dalmati italiani, e della nostra esistenza nella storia, da molti ignorata o negata, occorre innanzitutto capire con chi parliamo. Che cosa sa o pensa di noi il nostro interlocutore italico. Quello che vorremmo ci capisse di più. I due volumi di Luciano Monzali “Italiani di Dalmazia” costituiscono una base scientifica irrinunciabile e gliene saremo sempre grati. Ma la domanda che oggi ci poniamo - che è emersa in una polemica dell’estate appena passata – è quando la nostra regione è entrata negli interessi del pensiero politico e della cultura italiana in generale. Mi voglio limitare naturalmente all’età contemporanea, da Campoformio in qua. Perché è da allora che comincia la nostra “passione adriatica” ed è da allora che l’Italia, volendo raggiungere indipendenza e unità politica, si è posta il problema dei suoi confini, cioè di fino a dove avrebbe dovuto arrivare l’Italia nuova, libera e sovrana, liberata dal giogo straniero e dalla frammentazione statale che di questo giogo era parte essenziale. Il problema è collegato a quello analogo dell’Istria e di Fiume, di cui inevitabilmente dovrò parlare. L’esodo ci ha colpito tutti indistintamente, anche se assai diverse erano le prospettive di partenza. Noi certo eravamo, di tutti gli italiani dell’Adriatico orientale, i più lontani e i meno conosciuti. Quindi di tutti i più esposti. Diversi i luoghi, diversi i tempi e il contesto storico nei quali il problema del confine orientale si articola. Se quello che per gli istriani era quasi acquisito nella mente dei “regnicoli”, per noi e per i fiumani lo era assai meno. Non tratterò infatti di come noi ci vedevamo, dall’altra parte di questo mare che abbiamo davanti. Anche se abbiamo maturato solo con il tempo l’aspirazione netta e definita di voler entrare in uno stato italiano unificato. Italiani ci chiamavano i nostri vicini e conterranei: tedeschi, slavi e ungheresi. Italiani ci consideravamo noi. La nozione di “italofoni” è venuta fuori dopo, per giustificare agli occhi di croati e sloveni perché la nostra terra sia diventata parte dei loro stati nazionali. I nostri si sono sacrificati nelle guerre della Patria perché erano semplicemente italiani, non italofoni! Mi occuperò di come ci vedevano da questa parte, soprattutto dal Po in giù. Dato che per i veneti la sensazione era diversa, per ragioni che qui è inutile ricordare e delle quali Alvise Zorzi ci è maestro. Una prima constatazione amara è che l’elemento italiano dell’Adriatico orientale, dall’Isontino alle Bocche di Cattaro, sembra guardare all’Italia e alle sue vicende risorgimentali come se ne facesse parte, sia pure in forme inizialmente non ben definite e solo verso la fine dell’Ottocento con la volontà decisa di entrare a far parte dello stato unitario italiano nato nel 1861 (l’Irredentismo Adriatico). Diversa è la valutazione che si deve constatare studiando la letteratura, i carteggi personali, gli scritti e i discorsi politici, i documenti diplomatici delle personalità più in vista dell’Ottocento e del Novecento, al di qua dell’Isonzo, quelle che hanno forgiato l’opinione pubblica del Paese e di conseguenza l’azione politica dei suoi governi. Volendo distinguere i tempi – ed è necessario sul piano metodologico – si arriva a riconoscere sei periodi abbastanza delineati e omogenei: il primo dal 1810 al 1848; il secondo dal 1848 al 1866; il terzo dal 1866 al 1915; il quarto dal 1915 al 1947; il quinto dal 1947 al 1991; l’ultimo dal ’91 ad oggi. Il primo periodo è caratterizzato da un idealismo immaginario. Nel pensiero comune la Dalmazia resta una terra della Repubblica di Venezia, come tale segnata nelle mappe e ingiustamente cancellata dal Congresso di Vienna. Ed essendo la Repubblica considerata uno “stato italiano” anche la Dalmazia per riflesso ne è investita, come dalla luce di una lanterna, o di un faro il cui raggio illumina tutto l’Adriatico orientale. Se ne lamenta la consegna all’Austria da parte di Napoleone con l’Istria e il Veneto nel trattato di Campoformio, e Ugo Foscolo, greco-dalmata, insorge nei suoi scritti. Nello stesso Compianto di Perasto emerge questo senso di appartenenza: “E se i tempi presenti, infelicissimi per imprevidenza, per dissension, per arbitri illegali, per vizi offendenti la natura e el gius de le genti, non Te avesse tolto da l’Italia, per Ti in perpetuo sarave le nostre sostanze, el nostro sangue, la vita nostra…” (G.Praga Storia di Dalmazia, Padova CEDAM, 1954). Così si rivolge, come sapete, al Veneto Gonfalon, che verrà custodito sotto gli altari delle cattedrali dalmate con le reliquie dei Santi. Certo questo documento viene dall’altra sponda. Ma, nessuno al di qua, ce lo contesta. Anzi il motto “Ti con nu, nu con Ti” commuoverà tutta la Penisola e sarà ripreso dalle fanteria di marina italiane. Al momento dell’annessione di tutta la costa adriatica orientale al Regno d’Italia (1806-1809) il gen. Mathieu Dumas poteva lanciare il 19 febbraio 1806 il suo proclama: “Dalmati! L’Imperatore Napoleone, Re d’Italia, Vostro Re, vi rende alla vostra patria…Il trattato di Presburgo garantisce la riunione della Dalmazia al Regno d’Italia. Bravi Dalmati!...sommessi alle Leggi sotto le quali Egli ha riuniti i Popoli d’Italia come membri di una sola Famiglia.” (ibidem) E il “Reggimento Real Dalmata” venne inquadrato nell’armata del regno italico di Beauharnais e con essa parteciperà con onore alla campagna di Russia. Nelle gazzette ufficiali della capitale, Milano, i dipartimenti dalmati restano inseriti anche dopo la creazione delle Province Illiriche (1810-1814), essendo uniforme l’ordinamento amministrativo e giudiziario. Nell’Italia del periodo napoleonico nessuno trova nulla da obiettare a questa assimilazione della Dalmazia al resto d’Italia. Le insorgenze antifrancesi che si verificano nell’entroterra dalmato, alimentate dal clero cattolico e dai governi di Vienna e di Londra, non sono diverse da quelle dell’Italia meridionale, anche se a leggere tra le righe dei proclami asburgici un fattore etnico anti-italiano comincia a delinearsi. Nel blocco inglese ai porti del continente Lissa sarà per anni base della flotta di Sua Maestà britannica mentre Zara reggerà bravamente gli assedi austro-inglesi, dimostrandosi solidale e fedele alle truppe franco-italiane che la presidiano. Tale sensazione di appartenenza della nostra regione alle sorti d’Italia continua ad irradiarsi anche dopo la Restaurazione, anche se la province dell’impero asburgico considerate “italiane”, essendovi l’italiano lingua ufficiale, vengono divise in Regno Lombardo-Veneto e Illiria, che inizia già a Cormons e ad Aquileja, futuro confine del 1866. Nelle sette segrete che si diffusero in tutta Italia e nella stessa Dalmazia nei decenni tra il Venti e il Quaranta dell’Ottocento, sia la “Setta dei Guelfi” che la Carboneria considerano la Dalmazia parte dell’Italia e delle sue rivendicazioni di libertà e indipendenza. Nello statuto della Società Ausonia, che era la carta fondante della Carboneria, di chiara matrice massonica, si legge: “La vecchia Italia, assumendo l’antica denominazione di Ausonia, doveva essere liberata tutta dalla triplice marina alla più alte vette delle Alpi: da Malta al Trentino, dalle Bocche di Cattaro a Trieste e comprendere tutte le isole per un raggio di cento miglia dalla sua costa”. Non sfugge lo stile un po’ visionario di queste proclamazioni, tipiche dello spirito dell’epoca, né ci è dato sapere quali cognizioni avessero i loro redattori della situazione etnica della nostra regione. Ma non esistendo all’epoca nessun movimento nazionale croato o sloveno tornava naturale che la ribellione all’”oppressione” asburgica si rivolgesse a tutti territori degli ex-stati italiani ante Congresso di Vienna. Già in Mazzini tuttavia, al momento della fondazione della Giovine Italia (1831), l’appartenenza della Dalmazia all’Italia sfuma e vacilla fino a perdersi. Malgrado tra i suoi seguaci, perseguitati dalle polizie ci fossero molti dalmati. Col tempo gli ideali mazziniani avevano preso il largo estendendosi alle aspirazioni di tutti i popoli “oppressi” dai tre imperi centro-orientali: Austria, Russia e Turchia. Nello statuto della Giovine Italia infatti la Dalmazia scompare e i confini del futuro stato si fermano al Quarnaro. Così Mazzini scriveva negli anni della Repubblica Romana: “Ma il vero obiettivo della vita internazionale dell’Italia, la via più diretta alla sua futura grandezza, sta più in alto, là dove si agita oggi il più vitale problema europeo, nella fratellanza col vasto, potente elemento chiamato a infondere nuovi spiriti nella Comunione delle Nazioni o a perturbarle, se lasciato da una improvvida diffidenza a sviarsi, di lunghe guerre e di grandi pervertimenti: nell’alleanza con la famiglia slava. I confini orientali d’Italia sono segnati da quando Dante scrisse ‘ a Pola presso del Carnaro ch’Italia chiude e i suoi termini bagna’ (Inf. IX. 113) L’Istria è nostra. Ma da Fiume, lungo la costa orientale dell’Adriatico, fino al fiume Bojana sui confini dell’Albania, scende una zona nella quale tra le reliquie delle nostre colonie, predomina l’elemento slavo.” Mazzini indicava due zone slave: una a sud e una a nord della “barriera” dacio-magiara dell Ungheria e della Romania, e riteneva provvidenziale la fascia slava tra Germania e Russia, contro il predominio tedesco e il panslavismo zarista. “Là, nell’alleanza con le popolazioni di queste due zone stanno…le nostre speranze, la nostra iniziativa in Europa, la nostra futura potenza politica ed economica.” (in “Politica internazionale” nn. 4, 5 e 6 su “La Roma del Popolo”, Roma 1848-49). Nelle rivoluzioni del 1848 la Dalmazia – come osserva Monzali – non fu teatro di grandi rivolgimenti. Eppure sappiamo, dalle memorie di Niccolò Tommaseo, che la guarnigione italiana di Zara si sarebbe dovuta ribellare e fu lui stesso a fermarla. E che la municipalità di Spalato chiese di aderire alla risorta Repubblica democratica veneta. Un’intera Legione istriano-dalmata combatterà nella difesa di Venezia e dalmati furono i suoi principali protagonisti. Altri ne troviamo nella difesa della Repubblica Romana, come Federico Seismit-Doda, autore tra l’altro della canzone più popolare tra i combattenti: “La Romana”. Trasuda di amore per la patria italiana il repubblicano e mazziniano Seismit-Doda. Non sa cosa pensa il suo idolo della sua terra natale? A proposito di vocazioni musicali non è un dalmata, Enrico Cossovich, a scrivere nel 1848 la più nota canzone napoletana: “Santa Lucia”? Suo fratello Marco intanto è volontario garibaldino e diventerà colonnello nelle future guerre dell’Eroe dei Due Mondi (G. Garibaldi, “Memorie”, BUR ediz.1998, Milano). Ma come vedevano gli altri italiani un Sirovich, un Caravà, un Cattalinich, un Solitro, un Paulucci delle Roncole, che combattevano al loro fianco per l’unità dell’Italia? Come patrioti italiani venivano percepiti, ma ciò non significava che la loro terra fosse compresa necessariamente nel sogno unitario. Questo era ancora indefinito nei suoi contorni costituzionali (monarchia costituzionale, repubblica o federazione di stati) e territoriali. Illuminante è la posizione di Terenzio Mamiani, come marchigiano e adriatico il più interessato al confine orientale. In una lettera dell’11 aprile 1848 ad un giornale romano così sviluppa il suo pensiero: “Sostengo che è grandemente mestieri menar la guerra nel Tirolo… e di qui un buon nerbo di milizie scendendo dal Cadore e dal Friulano dee spingersi con ardire e prestezza ad occupare Trieste, e porgere ajuto ai partigiani e fautori della causa italiana che sono pure colà…In questa sollecita occupazione di tutta l’Istria raccogliesi a parer mio un punto principalissimo della liberazione d’Italia e un gran pegno della sicurezza avvenire… Potrebbe Lamagna muover fortemente per serbar dominio sopra Trieste, la qual città d’altra parte rompe in mezzo le terre italiane poste tra l’Isonzo e il Quarnaro. Sino dai tempi di Augusto hanno l’Alpi Giulie e le Carniche segnato i confini d’Italia, e però tutta l’Istria e il litorale che corre da Pola a Venezia è nostro e niun vessillo vi deve sventolare salvo che l’italiano… Per rispetto poi all’Illiria e alla Dalmazia, basti per ora il notare che abita in quelle province una gente nel cui arbitrio sta il dichiararsi per la causa italiana o per quella dei popoli slavi; imperocché di schiatta sono slavi; di costume, di lettere, di governo si sentono italiani. A noi importa solo questo, ch’elli non siano e non vogliano essere austriaci, e non possa l’Austria nei porti di Dalmazia prepararci contro offese e molestie”. Tra velleità belliche e realismo strategico si muove dunque il nostro più fervido sostenitore. Ma c’è anche un realismo idealista, se così lo vogliamo chiamare, ed è quello del Manin, del Tommaseo, di Valussi: costruire per Veneti, Friulani, Istriani e Dalmati, e quindi anche per Fiumani e Triestini, delle piccole repubbliche federate tra loro sul modello svizzero. Siamo nell’ambito del pensiero di Carlo Cattaneo. Andato perduto perché contraddetto dalla realtà effettuale. Il 2° periodo (1849-1866) è improntato proprio ad un prevalente realismo e possibilismo. Il fallimento del ’48, delle sue illusioni e delle sue confusioni ideologiche porta Cavour e il Piemonte a formulare piani più concreti. E a metterli in pratica. Con astuta determinazione e con una avvolgente strategia, che non disdegna – come sappiamo- la grazie femminili. Mai più l’Italia avrà un simile genio alla sua guida. Eppure in una relazione riservata, che Cavour porta con sé a Plombières nell’estate del 1857 per l’incontro con Napoleone III si può leggere: “Cosa può fare Napoleone III?...La leva dell’Inghilterra è l’Austria. Bisogna spezzarla e si spezza soltanto cacciandola dall’Italia. Con la Francia sarebbe tutta l’Italia…. Raggiunta la pace dovrebbe poi farsi una Lega delle tre Italie: la Superiore dal Piemonte alle coste dell’Istria e della Dalmazia con le Bocche di Cattaro sotto il re Sabaudo. La Inferiore…” (Arrigo Petacco, Il Regno del Nord, Mondadori 2009). Ma è quasi certo che Cavour non abbia mostrato all’imperatore francese quel documento. Se nel 1859 raccomanderà all’amico pesarese Terenzio Mamiani, in piena seconda guerra d’indipendenza, di non parlare ufficialmente di Istria e di Dalmazia per non spaventare troppo Napoleone III, già pentito del suo aiuto per l’estendersi delle annessioni sabaude all’Italia centrale. In effetti la flotta franco-piemontese aveva occupato l’isola di Lussino, festeggiata dalla popolazione con festoni tricolori italiani. Ma era chiaro che per Napoleone un regno sabaudo limitato al nord andava benissimo come alleato, perché gli sarebbe rimasto subordinato come ai tempi del grande avo. E sarebbe andata bene anche la Dalmazia, con le basi dalmate e istriane e la Via Napoleonica aperta da Marmont tra le scogliere dinariche. Ma un nuovo stato che occupasse tutta la penisola al centro del Mediterraneo diventava al contrario una minaccia per le ambizioni francesi di dominarlo. Ed entrava in gioco l’interesse opposto dell’Inghilterra di sostituire una grande Italia all’impero austriaco, proprio per mantenere l’egemonia su quel mare. Sulla questione adriatica Cavour tornerà poco prima di morire, confidando ai suoi amici dopo l’unificazione: «…Garibaldi vuole andare a Roma e a Venezia, e ci voglio andare anch’io. Nessuno ha più fretta di me…Quanto all’Istria e al Tirolo, è un’altra cosa. Toccherà a un’altra generazione. Noi abbiamo fatto abbastanza. Abbiamo fatto l’Italia». (Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino 2007) La travolgente impresa dei Mille, architettata da Garibaldi con il consenso espresso ma nascosto del re Vittorio Emanuele II, scavalcando Cavour, porrà infatti nuovi problemi alla diplomazia piemontese. Perché l’appoggio inglese nella conquista del Sud turba gli equilibri mediterranei. Per altro verso, dopo l’armistizio di Villafranca, non si può spaventare troppo l’Austria sull’Adriatico, per non tentarla di mandare le sue truppe – come sempre aveva fatto – a difendere lo Stato Pontificio, prendendo alle spalle l’esercito sardo che nel settembre 1860 lo aveva invaso scendendo lungo l’Adriatico per incontrarsi con Garibaldi. Suprema spregiudicatezza dopo lo schiaffo di Villafranca: usare i due grandi alleati uno contro l’altro. A brigante brigante e mezzo. Se Napoleone III gli aveva negato il Veneto Cavour si prende il Regno delle Due Sicilie, alla cui conquista si era inizialmente opposto! Tra i liberali moderati le ambizioni territoriali verso oriente sono viste del resto con imbarazzo e come velleità fantapolitiche. Massimo D’Azeglio, già Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri piemontese nel 1849, in uno scritto da Pisa del 15 gennaio 1861, difende a spada tratta l’armistizio di Villafranca e il conseguente Trattato di Zurigo e se la prende con le impazienze dei repubblicani. “L’opposizione repubblicana – scrive con sferzante ironia – ha risuscitato un’antica malizia che risale alla mitologia greca e si ritrova poi nelle novelle e nei romanzi cavallereschi. Euristeo impose ad Ercole le XII fatiche. I re del ciclo d’Arturo e della Tavola Rotonda propongono a’ pretendenti delle loro figliole imprese impossibili, col pensiero che vi trovino la morte; e la demagogia dominante a Napoli (appena liberata da Garibaldi e acquisita al regno sabaudo) presentava al conte Cavour il modesto programma di spianare Verona, Mantova, Legnago e Peschiera, liberar Venezia a primavera, il Tirolo, Trieste, la Dalmazia, ecc. Occupare Roma mandandone altrove il papa ed i francesi, e coronar l’opera coronando Vittorio Emanuele in Campidoglio! A questo prezzo Vittorio Emanuele poteva sperare nella loro approvazione. Se no, no!” Nel 1866 Cavour non c’è più. E la prudenza del nuovo Regno d’Italia è ancora maggiore. L’alleato questa volta è la Prussia, decisa a togliere agli Asburgo l’egemonia sulla Confederazione Germanica. Ma di questa Confederazione fanno parte integrante Trieste, Gorizia, il Trentino e la Contea di Pisino. Garibaldi tenta lo stesso. Entra in Trentino, ma deve rinunciare al progettato sbarco in Dalmazia, che della Confederazione Germanica non fa parte, a seguito della sconfitta di Persano a Lissa. Nelle pubblicistica croata è ancora viva la convinzione che l’Italia in quell’anno volesse prendersi la Dalmazia e celebra Lissa come una vittoria sua, schierandosi chiaramente con la causa degli Asburgo e respingendo ogni afflato risorgimentale di indipendenza. Ma le memorie di Garibaldi sui suoi progetti devono essere oggetto di riflessione “…era intenzione nelle alte sfere, per non metter tanti volontari insieme, di dividerli in due e lasciarne la metà nell’Italia meridionale, con certi pretesti divulgati per mascherar la magagna… Qui io devo fare giustizia al re: sino dai primi momenti - vi si legge infatti – in cui si comunicava la sua intenzione di propormi al comando dei volontari…egli mi partecipava l’idea di gettarci sulle coste dalmate per cui mi sarei inteso con l’ammiraglio Persano, e si disse che tale determinazione fu assolutamente combattuta dai suoi generali, e in particolare dal generale Lamarmora. La risoluzione di spingerci verso l’Adriatico mi piacque talmente ch’io ne feci fare a Vittorio Emanuele i miei complimenti per il concetto proficuo e grandioso. Era veramente troppo bello il concetto, perché potesse capere in certi cervelli del Consiglio Aulico italiano, ed io presto potei persuadermi che il trattenere cinque reggimenti di volontari ad ostro, altro non era che diffidenza… Che magnifico orizzonte si presentava all’oriente per noi! Sulle coste dalmate con trentamila uomini, v’era proprio da sconvolgere la monarchia austriaca, quanti elementi simpatici ed amici trovavamo noi in quella parte dell’Europa orientale, dalla Grecia all’Ungaria! Tutte popolazioni bellicose, nemiche dell’Austria e della Turchia e che poca spinta abbisognano per sollevarle contro i loro dominatori…” Mazzini nell’agosto 1866, sdegnato per l’esito della guerra, ribadiva i diritti dell’Italia su tutta quella che poi sarà la Venezia Giulia, giungendo a dire che era “nostra anche la Postoina e la Carsia sottosposta amministrativamente a Lubiana.” Quindi non si preoccupava della composizione etnica del territorio, dando valore al dato orografico del “confine naturale”. (M.Cattaruzza, op.cit.). Non è rivendicazione da poco. Ma non nomina la Dalmazia. Il Vate genovese sviluppava così il suo pensiero: “L’Impero Turco e l’Austria sono irrevocabilmente condannati a perire. La vita internazionale d’Italia deve tendere ad accelerarne la morte. E l’elsa del ferro che deve ucciderli sta in mano agli slavi. Suonata dai popoli sommossi l’ora suprema la costa occidentale dell’Adriatico diventerebbe la nostra base d’operazione per ajuti efficaci ai nuovi alleati. Le nostre navi da guerra riscatteranno l’onore violato della bandiera conquistando agli slavi del Montenegro lo sbocco del quale abbisognano, le Bocche di Cattaro, e agli slavi della Dalmazia le città principali della costa orientale. Lissa, chiamata giustamente da altri la Malta dell’Adriatico e campo di una nostra immeritata disfatta che importa per l’onore del navilio di cancellare, rimarrebbe stazione italiana.” Fu in quell’estate del 1866, tra incertezze, paure e progetti ambiziosi, che si consumò il nostro destino di dalmati italiani. La mala sorte di Lissa ne fu la conclusione. Il 3° periodo (1866-1915) si può definire di rinuncia ufficiale e fermento culturale. Da un lato abbiamo da parte dei governi di Firenze e di Roma l’abbandono di qualsiasi rivendicazione non solo sulla Dalmazia, ma anche sul Trentino, Trieste e l’Istria. Dall’ altro un movimento, minoritario sul piano numerico, ma molto attivo sul piano culturale, operava al contrario. Se nel 1869 già si mandava in Dalmazia la nave “Monzambano” per ricognizioni nautiche e in segno di amicizia, per poi averne la bella sorpresa di Sebenico (con una ventina di marinai feriti dai nazionalisti croati), paradossalmente con l’ascesa al potere della Sinistra Storica l’atteggiamento di riavvicinamento all’Austria prenderà corpo con un’azione diplomatica coerente e rigorosa, per lo meno in superficie. Depretis, divenuto premier nel 1876, chiamava le aspirazioni su Trento e Trieste “de vieux cancans”, non rinunciando ai francesismi della classe dirigente piemontese. Fu il suo governo a stipulare la Triplice Alleanza nel 1882. Da quel momento le autorità governative italiane non fecero che ostacolare e perseguitare anche penalmente i sostenitori di un “compimento” del Risorgimento. Il fallito attentato di Oberdan e la sua impiccagione nel dicembre di quello stesso anno furono occasione per tutta la sinistra radicale e repubblicana, rimasta fedele agli ideali originari, di aspre critiche al governo Depretis e poi a quello di Francesco Crispi, che proseguiva nella linea del predecessore. Nelle commemorazioni di Oberdan i disordini di piazza, specie a Roma, ma anche a Udine e altrove, furono repressi con durezza. I Circoli Oberdan, sorti soprattutto nell’Italia centrale, che nel 1887 erano 47, vennero sciolti definitivamente da Crispi nel 1890. In quell’anno il ministro delle Finanze, il raguseo Sismit-Doda, fu obbligato alle dimissioni per aver partecipato ad Udine a un banchetto dagli accenti irredentisti. In questo periodo i fuorusciti dalmati, come gli istriani e i triestini - rifugiatisi nel Regno per essere stati espulsi dalle pubbliche amministrazioni austro-ungariche o comunque impediti a svolgere le loro attività professionali per le loro posizioni filo-italiane - venivano tenuti d’occhio dalle regia polizia, in stretta collaborazione con la polizia e i “servizi” austriaci. Questi ultimi sottolineavano il carattere sovversivo e antimonarchico di ogni manifestazione irredentista, come l’inaugurazione della tomba a Dante a Ravenna, cui dalmati, giuliani e trentini recarono l’olio per la lampada votiva. Nonostante queste segnalazioni fossero in netto contrasto con le manifestazioni di cordoglio che si ebbero nei territori austro-italiani e anche in Dalmazia per l’assassinio di Umberto I. Accuse quindi in parte vere, in parte inventate per carpire la fiducia degli organi di polizia italiani. Cos’era successo intanto sul piano culturale? L’ascesa al potere di Depretis, dopo l’accordo “trasformista” in parlamento, spaccò la sinistra italiana. Uomini che avevano combattuto con Garibaldi nelle stesse battaglie si trovarono uno contro l’altro. E l’irredentismo nacque proprio dallo scontento della sinistra radicale e repubblicana di fronte alla politica filo-austriaca e filo-tedesca dei governi Depretis e Crispi. Il primo a usare il termine di “terre irredente” fu Matteo Renato Imbriani in un convegno a Napoli nel 1877, da cui nacque l’”Associazione per l’Italia Irredenta”. Ad essa aderirono personalità come Garibaldi, Avezzana, Saffi, Bovio, Cairoli, Cavallotti. La definizione ebbe successo e a questo successo concorsero gli esuli trentini, giuliani e dalmati nelle città italiane. Nella propaganda irredentista non sempre appare la Dalmazia, tanto che “i dalmati si sentono quasi sempre dimenticati se non esclusi” (Attilio Tamaro, voce “Irredentismo” nell’Enciclopedia Italiana, 1933). Ma sia la loro presenza nelle associazioni che la diffondono, sia l’indeterminatezza degli eventuali confini orientali fece sì tale movimento finisse per comprendere anche la Dalmazia. Alla Dalmazia in particolare dedicherà la sua attenzione uno storico friulano poco conosciuto, Giuseppe Marcotti, cogliendo appieno nel 1885, il processo di declino dell’italianità dalmatica con la progressiva presa di coscienza di un’identità nazionale croata (“giovane nazione ricca di cupidigie e di audacia”), che si diffonde proprio tra i croati di Dalmazia, abbandonando il lealismo asburgico per abbracciare la causa di un’unione iugoslava, dopo i successi serbi nelle guerre balcaniche (L.Monzali, op. cit.) Interessante a questo punto è constatare come l’atteggiamento del governo di Roma fece “pendant” con quello di Vienna, prospettando agli italiani d’Austria, come unica speranza di salvezza dall’egemonia slava, il lealismo verso gli Asburgo nel quadro dell’autonomismo, mettendo in sordina le velleità di unirsi allo stato italiano. Espliciti sono gli inviti del Console a Trieste Durando e dell’ambasciatore Nigra a Vienna, tramite il suo collaboratore, il diplomatico Avarna (Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia - Le Lettere, 2004). Le rivendicazioni adriatiche – argomentavano – avrebbero messo contro l’Italia tutti gli slavi del sud, saldando una parte di essi, croati e sloveni, alla monarchia austriaca. Fu questa poi la linea seguita dai leader autonomisti dalmati, come Luigi Lapenna e a Zara il podestà Niccolò Trigari. Ciò non impedirà alla polizia imperial-regia di definire gli appartenenti al partito autonomista “partitanti italiani”. La strategia dei governi italiani si ricollega anche a un’altra prospettiva geo-politica che si dimostrerà altrettanto fallimentare. L’idea – promossa tra i primi da Cesare Balbo – era di dirottare le tendenze imperialiste della monarchia danubiana verso il sud dei Balcani fino all’Egeo, dopo l’accordo austro-magiaro del 1867, per ottenere compensi territoriali nel Nord-Est italiano. Ma questa idea mostrava la corda, perché da un lato ignorava le aspirazioni all’indipendenza dei Serbi e dei Bulgari e di compimento dell’unità nazionale della Grecia (i cui confini “naturali” arrivavano al Bosforo e all’Asia Minore), dall’altro se poteva aiutare per il Trentino peggiorava le prospettive italiane in Adriatico, giacché i territori eventualmente conquistati nell’hinterland balcanico avrebbero aumentato le necessità di sbocchi sull’Adriatico assai più di quanto ne avesse l’Austria-Ungheria nel 1867. Pur tuttavia nel 1883, con una contraddizione tipicamente italiana, Crispi, mentre condannava pubblicamente l’irredentismo e scioglieva il Comitato romano pro Trento e Trieste, decise di sovvenzionare riservatamente le organizzazioni di difesa dell’italianità nei territori irredenti, Dalmazia compresa. Dall’ispirazione irredentista erano nate infatti prima la “Pro Patria” e poi la Società Dante Alighieri, su iniziativa dei triestini Felice e Giacomo Venezian, con lo scopo di difendere la presenza italiana un po’ ovunque fuori dai confini del Regno, ma soprattutto nei territori austro-italiani. La stessa politica di sovvenzioni occulte fu poi estesa alla Lega Nazionale, che fu fondamentale nel difendere le scuole italiane in Istria e soprattutto in Dalmazia, mano a mano che le autorità austriache le venivano sopprimendo sul finire dell’Ottocento nelle città dalmate dove esistevano, da Arbe a Traù, a Cattaro, a Curzola, a Lesina. Col passare degli anni infatti fu sempre più evidente che la pressione slovena e croata su tutto il litorale dell’Impero, da Gorizia alle Bocche, aveva l’appoggio dichiarato delle autorità governative. La caduta della giunta autonomista di Baiamonti a Spalato nel 1882, sotto la minaccia della flotta imperiale, non era che un esempio. In Italia tali eventi alimentavano la crescita di sentimenti anti-austriaci nella pubblica opinione, come già era avvenuto con la conquista austriaca della Bosnia-Erzegovina nel 1878, risvegliando la pretesa di “compensi” alla frontiera orientale. Così avvenne con l’insurrezione di Pirano nel 1894 contro la progettata introduzione del bilinguismo italo-sloveno, che infatti fu respinta per la ferma opposizione dei piranesi e di tutti gli italiani dell’Istria. Così gli incidenti di Trieste nel 1898 dopo l’uccisione a Ginevra dell’imperatrice Elisabetta da parte di un anarchico italiano o gli scontri tra studenti italiani e tedeschi all’università di Innsbruck nel 1904, cui avevano partecipato studenti dalmati. I poeti più noti dell’epoca sposarono la causa adriatica. Giosuè Carducci dedicò a Trieste e all’Istria una delle “Odi barbare” (1877 – 1889): “Molosso ringhia, o antiche versi italici…’Quando?’ fremono i giovani che videro pur ieri da San Giusto ridere glauco l’Adria. Oh al bel mar di Trieste…volate di San Giusto sopra i romani ruderi! Salutate nel Golfo Giustinopoli, gemma dell’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia; salutate il divin riso dell’Adria fin dove a Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare!.. Poi…in faccia allo stranier che armato accampasi sul nostro suolo, cantate: Italia, Italia, Italia!” D’Annunzio nel 1895, nel suo viaggio verso la Grecia con Fenoglio, toccava per la prima volta le coste istriane e dalmate, restandone affascinato per sempre. A Capodistria dedicò una delle più delicate poesie dell’Alcione, “La Loggia”: “Settembre, il tuo minor fratello Aprile/ fioriva le vestigia di San Marco/ a Capodistria, quando navigammo/ il patrio mare che Trieste addenta/ con i forti moli/ per tenace amore./ Capodistria, succiso adriaco fiore!/…S’ode nell’ombra quella parlatura/ che ricorda Rialto e Cannaregio./ Una colomba tuba sul bel fregio.” Ma già nomina la Dalmazia nel sonetto a Gubbio: “Agobbio, quell’artiere di Dalmazia/ che asil di Muse il bel monte d’Urbino/ fece, l’asprezza sua dell’Appennino/ guerreggiato temprò con la sua grazia”(Elettra, 1907) Non c’è ancora il fervore epico dei “Tre salmi per i nostri morti” del 2 novembre 1915 (“Mie tutte le città del mio linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia…Ma in Zara è la forza del mio cuore,su la Porta Marina sta la mia fede/ in Santa Anastasia arde il mio voto… Ruggi, o città, coi tuoi leoni! A te darò la stella mattutina. A te verrò e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi stendardi. Li spiegherò nel vento di Levante…”). o nel Cantico per l’Ottava della Vittoria del novembre 1918 (“E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede…O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi…O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne dalmate la più dorata1…”) Ma era già un segno che uno degli intellettuali più in vista della cultura italiana ed europea dell’epoca rivolgesse a questo tema il suo interesse estetico. Per quello che può valere anche le guide turistiche italiane respiravano lo stesso clima se l’editore Treves dedicava una guida del 1881 a “Venezia e il Veneto – Trento-Trieste –Istria”. Complessivamente tuttavia il movimento irredentista tradizionale, di ispirazione mazziniana e democratica, segnala sul piano politico un lento declino a cavallo tra i due secoli e si affaccerà così una sua versione più aggressiva, dai toni fortemente nazionalisti, come in Ruggero Timeus. Sta di fatto che nel 1907 il ministro degli esteri italiano Tittoni, faceva sue con soddisfazione la parole del governatore austriaco di Trieste Hohenlohe, che ‘”l’irredentismo era morto”. Lo ripeté anche il ministro San Giuliano nel 1910. Singolare affermazione se proprio in quegli anni si verificò la svolta irredentista del Corriere della Sera, il più autorevole quotidiano italiano, con le corrispondenze di Luigi Barzini che denunciavano il disagio della popolazione italiana delle province austriache. Ma anche Slataper affermava con amarezza che “l’irredentismo, nella storia dell’Italia unita, rappresentava più uno stato d’animo che un fattore dotato di concreta efficacia politica” (M.Cattaruzza, op.cit.) Pochi anni dopo sarà smentito dai fatti, e da lui stesso, che lascerà la vita sul Podgora nel 1916, presso a quel Carso che amava e cui aveva dedicato la sua prosa migliore. E siamo giunti al 4° periodo (1915-1947), quello dell’esaltazione emotiva e della drammatizzazione, che in drammi e tragedie si concluderà. In questa fase l’irredentismo riprende vita confluendo nel vasto movimento interventista, probabilmente minoritario nel paese e limitato ai ceti borghesi e intellettuali, ma rappresentato da forze molto vivaci sul piano culturale, ma anche economico. A questo punto la Dalmazia diventa un fattore essenziale della “questione adriatica”. Non credo molto nella teoria del “complotto massonico” per distruggere la cattolicissima Austria. Se ci fosse stato avrebbero dovuto capirlo per primi a Vienna, evitando di cadere nella trappola di Sarajevo. Certo è che i fervori patriottici delle piazze italiane furono strumentalizzati da quanti avevano interesse a un intervento dell’Italia a fianco dell’Intesa. E la Dalmazia diventò nodo di contrasti e oggetto insieme delle trattative bilaterali e multilaterali di Roma con Vienna, Berlino, Parigi, Londra e San Pietroburgo. A leggere il carteggio diplomatico di quei primi mesi frenetici del 1915 ci si rende conto che le concessioni di Vienna erano veramente poca cosa. E non il “parecchio” di cui parlava Giolitti. Il massimo cui si giunse alla vigilia della denuncia della Triplice furono il Trentino e la Destra dell’Isonzo. Non Gorizia, non Trieste, né l’Istria. Figuriamoci la Dalmazia! Veniva anche alla luce in quelle incertezze un conflitto costante nella cultura politica italiana, tra il richiamo delle concezioni liberali occidentali, rappresentate dalla Francia e dai paesi anglosassoni, e l’attrazione verso le correnti filosofiche e giuridiche dell’idealismo tedesco. Se sul piano mediatico nel congresso a Roma della “Trento e Trieste” il 29 marzo del 1915 Enrico Corradini auspicava la liberazione del Trentino, dell’Istria e della Dalmazia, sul piano diplomatico le manovre italiane non erano meno esplicite ed audaci. Il 4 marzo l’ambasciatore a Londra Imperiali dettava le condizioni dell’Italia per entrare in guerra con l’Intesa: il Trentino fino al Brennero, Trieste e l’Istria fino a Volosca, la Dalmazia tra Fiume (da dare alla Croazia!) e la Narenta con tutte le isole a nord e ad est, Valona e Saseno in Albania, il Dodecanneso (già occupato nel’ 1911), compensi in Africa e in Turchia (Adalia e il territorio circostante). Le Bocche di Cattaro potevano andare al Montenegro, per conquistarne l’appoggio o per un favore alla Regina Elena. Il 20 marzo il ministro degli esteri inglese Edward Grey rimetteva al marchese Imperiali un memorandum nel quale si osservava che “la domanda italiana della Dalmazia e la pretesa delle isole del Quarnaro lasciavano alla Serbia opportunità e condizioni molto ristrette per il suo accesso al mare e rimaneva divisa nelle sue province iugoslave, che avevano con ragione guardato alla guerra come a quella che avrebbe assicurato loro le legittime aspirazioni di espansione e di sviluppo di cui erano state fino allora private”. Il 29 marzo Imperiali consegna a Grey un nuovo memorandum in cui le richieste italiane sul confine meridionale della Dalmazia erano più ridotte. Ma avvertì che di più non si poteva rinunciare. Il 2 aprile in uno dialogo tra Sonnino e il ministro degli esteri austriaco Stephan Burian da parte italiana esce una proposta di creare uno stato autonomo e indipendente che comprenda l’Isontino con Gorizia, il Trentino e l’Istria settentrionale. Le isole della Dalmazia centrale all’Italia (Curzola, Lesina, Lissa, Lagosta, Meleda e Pelagosa). La proposta viene respinta. Il 26 aprile 1915 Imperiali raggiunge l’accordo (Patto di Londra) con l’inglese Grey, il francese Cambon e il russo Benchendorff: all’Italia tutti i territori al di qua della crinale alpina delle Giulie, la Dalmazia fino a Capo Planca con tutte le isole a nord e ad est della costa dalmatica; alla Croazia, Serbia e Montenegro il Litorale ungherese con Fiume, la “Costa croata” con Novi e Carlopago, e le isole di Veglia e Arbe e il resto della Dalmazia da Traù alle Bocche di Cattaro. Il 3 maggio l’Italia denuncia il trattato con l’Austra-Ungheria e la Germania. Il 5 maggio D’Annunzio pronuncia il famoso discorso di Quarto. Significativo l’atteggiamento di Vittorio Emanuele III. Ordina alle autorità civili e militari di non presenziare alla manifestazione, ma invia un telegramma di incoraggiamento invocando l’unità della patria e il compimento dell’opera iniziata dal suo Grande Avo e dal “Duce dei Mille” fino all’”Alpe d’Oriente”. Loda poi “i fuoriusciti di Trieste e dell’ Istria, gli esuli dell’Adriatico e dell’Alpe di Trento, i più fieri e candidi, che diedero alle capanne costrutte i nomi delle terre asservite, come ad augurarne e ad annunziarne il riscatto”. Non nomina quindi esplicitamente la Dalmazia, ma inserisce tra i fuoriusciti gli esuli dell’Adriatico e tra le “capanne” che gli organizzatori avevano costruito a Quarto c’erano anche quelle intitolate alle città e isole dalmate. Nelle manifestazioni dei giorni che precedettero il 24 maggio, il “Maggio radioso” – come fu chiamato – le folle nelle piazze invocavano tutti i territori d’oltre Adriatico, dentro e fuori il Patto di Londra. Tra gli organizzatori c’erano tanti dalmati rifugiatisi nella Penisola, come i futuri senatori Antonio Tacconi e Roberto Ghiglianovich, perseguitati dalle autorità austro-ungariche per il loro aperto irredentismo. L’intervento divise tutte le forze politiche e le correnti di pensiero. Nella stampa furono a favore il Corriere della Sera, di cui era stato direttore lo zaratino Arturo Colautti, Il Popolo d’Italia, L’Idea Nazionale, L’idea Democratica. Contro Il Giornale d’Italia, la Nuova Antologia, La Tribuna, La Stampa, L’Avanti, L’Avvenire, l’Osservatore Romano e l’Unità Cattolica. Se gli organi ufficiali e le direzioni del partito socialista e dei sindacati si dichiararono neutralisti, una larga frangia dei loro iscritti erano tra i più animosi interventisti, come Bissolati, Mussolini, De Ambris e tutti i socialisti delle regioni irredente come Battisti e Sauro. Tra i cattolici si schierò per l’intervento Don Luigi Sturzo, il futuro fondatore del Partito Popolare e durante il conflitto numerose associazioni cattoliche incoraggiarono i loro iscritti al volontariato in armi e alla difesa “della Patria”, specie dopo la disfatta di Caporetto. Le gerarchie furono generalmente molto distaccate se non ostili. Nel movimento interventista si trovarono così insieme sia la destra nazionalista di Federzoni e di Timeus/Fauro, sia la sinistra radicale, repubblicana e “democratica”, sia parte del mondo cattolico e socialista, come una parte di liberali moderati. Si sostiene che fosse un movimento minoritario. Ma come misurarlo in un’epoca di scarsa alfabetizzazione e partecipazione popolare alla vita politica? Fu un periodo di grande esaltazione, non mitigata dall’esperienza tragica delle prime battaglie sul fronte occidentale e su quello orientale, che avevano rivelato quanto fosse diventato micidiale, in termini di vite umane, il nuovo armamento degli eserciti. Drammatico fu l’incontro tra Giolitti e Salandra, presidente del consiglio dimessosi e confermato nel giro di pochi giorni, a casa di quest’ultimo il 9 maggio 1915. Giolitti confermò la sua opinione che “la guerra sia un grave pericolo date le condizioni del Paese e possa trasformarsi in un danno anche riuscendo vittoriosa”. Ben 350 deputati e 100 senatori lasciarono il loro biglietto da visita sul tavolo di Giolitti per dimostrare al loro solidarietà. Votarono però la fiducia al Governo Salandra, che sapevano interventista. La dichiarazione di guerra tuttavia fu iniziativa del re senza consultare il parlamento, come del resto gli consentiva lo Statuto Albertino. Nel mondo intellettuale i pareri erano discordanti. All’interno della rivista fiorentina “La Voce”, cui avevano collaborato Slataper, Giani Stuparich e altri irredenti, Papini si schierò per l’intervento, mentre nettamente contrario era Angelo Vivante che negava i diritti dell’Italia sulla stessa Trieste. Salvemini fu tra gli interventisti. L’Italia non poteva – nella sua acuta analisi - rinunciare al compimento dell’unificazione senza rinnegare il Risorgimento, e quindi la fonte stessa dell’indipendenza nazionale (M.Cattaruzza, op. cit.). Ma espresse chiaramente la sua contrarietà alle pretese sulla Dalmazia. “Pretendere tutta o quasi la Dalmazia è rendere impossibile il compromesso, è spingere tutti gli Slavi del Sud a fare massa con l’Austria contro l’Italia”. Richiamandosi al pensiero mazziniano vagheggiava una confederazione tra Carinzia, Croazia, Dalmazia, Bosnia, Montenegro, Serbia e Bulgaria, per arginare l’imperialismo tedesco verso l’Europa balcanica e danubiana, che le nostre eccessive rivendicazioni territoriali finivano per favorire. Ma nell’interventismo confluivano – com’è noto – correnti vitalistiche di pensiero, come Papini o Marinetti, che vedevano nella guerra in quanto tale un fattore di rigenerazione di un’Italietta imbolsita e governata da un moderatismo che comprimeva le energie vitali della nazione. I dubbi sulla Dalmazia si evidenziano anche nelle posizioni irredentiste. Se nel comitato interventista costituitosi a Roma nel settembre 1914 troviamo con Salvatore Barzilai, Albino Zenatti, Ettore Tolomei, Ruggero Timeus anche il traurino Antonio Cippico, aperto quindi alle rivendicazioni più estese, nel memoriale “I confini naturali d’Italia”, che Tullio Mayer e il chersino Francesco Salata consegnano a Sidney Sonnino, nel marzo 1915 si esprimeva l’opportunità di annettere anche Fiume, mentre quella di parte della costa dalmata avrebbe dovuto prospettarsi solo qualora alla fine della guerra l’Austria fosse rimasta padrona dell’Adriatico orientale. A tale linea finì per aderire anche lo stesso ministro Sonnino. Chiara fu quindi la contrapposizione tra chi, come gli esuli dalmati e giuliani, vedevano il nemico principale nell’espansionismo slavo, e chi invece lo individuava nella monarchia asburgica. In piena guerra, nel gennaio del ’18, si costituì a Milano la Democrazia Sociale Irredenta, alla quale appartenevano Ernesto Sestan, Giovanni Semich e Dante Lipman, di ispirazione democratico-socialista, nei cui obiettivi si rinunciava alla Dalmazia, in cambio di Fiume e della sola Zara. Era la prima volta che la sorte della capitale della Dalmazia veniva distinta dal resto della regione, in forza del suo mantenuto carattere italiano. (Cattaruzza, ibidem). Occorre tener conto che, secondo valutazioni attendibili, gli esuli dai territori irredenti erano già oltre 40.000 nel 1914, arrivando ad oltre 80.000 all’entrata in guerra dell’Italia. Se i primi appartenevano per lo più alle classi sociali più elevate, perseguitate in qualche modo dalle autorità imperiali, i secondi, autentici profughi, venivano anche dalle classi più umili, identificandosi spesso con la categoria dei “regnicoli”, cioè di quanti pur vivendo nei territori austriaci da generazioni avevano mantenuto la cittadinanza italiana (carbonai, paroni di barche, quadri industriali, piccoli commercianti, ecc., provenienti in Dalmazia da famiglie di origine friulana, marchigiana, romagnola, pugliese, ecc. ). E come profughi furono trattati in “campi di raccolta” in tutto il Regno (Relazione parlamentare sui territori irredenti). Ammontavano a circa 60.000, in condizioni non sempre ottimali. Tra gli esuli dalmati più influenti furono certamente Ghiglianovich, Cippico, Tacconi, Alessandro Dudan e altri. Luigi Ziliotto rimase a Zara come podestà e fu internato dall’Austria, come Natale Krekich, nel maggio 1915 con l’intera giunta appartenente al partito autonomista. Era tra quei 50.000 giuliano-dalmati e trentini dei campi di internamento tra Stiria, Boemia, Ungheria, ecc. Date queste premesse, le incertezze sulla sorte della Dalmazia si rinnovarono alla fine del conflitto. L’opinione pubblica italiana si divideva tra chi voleva mantenute almeno le promesse del Patto di Londra, chi voleva di più, Fiume e la Dalmazia sotto Capo Planca, chi voleva rinunciarvi del tutto per non inimicarsi serbi e croati, chi prospettava “stati liberi”, come fu poi per Fiume nel Trattato di Rapallo del novembre 1920. Non occorre che ricordi a voi la passione patriottica delle nostre città, da Arbe a Cattaro, e degli sforzi profusi a Roma, a Parigi, a Londra, a Washington dai nostri dirigenti, esuli e liberati dall’internamento austriaco. Il Senato ne ha riconosciuto il valore dedicando a Roberto Ghiglianovich un busto nei corridoi d’onore di Palazzo Madama. Altrettanto cerchiamo di raggiungere per Luigi Ziliotto, nominato senatore alla fine del conflitto. Né tanto meno l’impresa fiumana iniziata nel settembre del 1919, cui Zara, Sebenico, Spalato, Traù. Curzola, Veglia parteciparono “con trepidazione”, come si diceva allora, ma anche con un contributo di sangue. In quella breve stagione anche in Italia le manifestazioni popolari in favore dell’annessione della Dalmazia e di Fiume, più o meno spontanee (come tutte le manifestazioni di piazza), furono frequenti e quasi oceaniche, anche con esiti drammatici, come a Roma il 24 maggio del 1920. Se c’era chi le appoggiava con fervore, c’era ovviamente chi le osteggiava o derideva (“Dalmata non è un’origine geografica, ma una professione”). Come i giornali nazionali così i partiti politici rappresentati in parlamento avevano atteggiamenti diversi. Se i socialisti intendevano limitare le nostre pretese prendendo atto della nascita di un nuovo stato che univa gli Slavi del Sud e quindi dell’inopportunità di negare ad esso i naturali sbocchi sull’Adriatico, i liberal-nazionali, presenti nel governo, tendevano a confermare il Patto di Londra almeno per quanto riguardava il crinale delle Giulie, rinunciando alla Dalmazia eccetto Zara, come poi avvenne a Rapallo. Si riaffacciava inoltre nella nostra diplomazia l’idea di chiedere compensi a tale rinuncia sul piano coloniale. Il risultato fu la cessione all’Italia di un triangolino settentrionale del Kenia con Chisimaio, da unire alla Somalia italiana. Oggi è teatro di scontri cruenti tra milizie islamiste e governative, appoggiate da Nairobi e Addis Abeba. Fu così che negli scontenti si creò il mito della “Vittoria mutilata”, espressione dannunziana che ebbe il consueto risultato dirompente delle sue invenzioni letterarie. Non è qui il caso di affrontare il dibattuto problema di quanto questo mito abbia influito sulla nascita e la vittoria politica del fascismo. Certo non fu un fattore non indifferente del suo consenso. Ma le radici del fenomeno vanno ricercate altrove, come ha rivelato con coraggio Renzo De Felice: nella profonda crisi dei partiti democratici e liberali tradizionali, nelle divisioni tra socialisti riformisti, massimalisti e comunisti, con i disordini che ne seguivano e la criminalità politica montante nelle formazioni estremiste, nel ritardo dei cattolici politicamente organizzati, che non sapevano ancora avvalersi del conquistato suffragio universale del 1911; non ultimo nella crisi economica determinata dai debiti di guerra, dalla fine delle commesse militari, dalla smobilitazione delle forze armate. I disordini di piazza con morti e feriti non riguardavano solo la Venezia Giulia, ma tutte le regioni italiane, dalle Puglie al Piemonte. Anche il quegli anni del primo dopoguerra gli intellettuali italiani si divisero sul problema della c.d. “Terza Sponda”. Per fare solo un esempio Piero Gobetti si dichiarava nel 1918 nettamente contrario all’unione della Dalmazia al Regno, in base alla considerazione realistica che per acquisire al territorio nazionale 40.000 italiani si finiva per comprendervi centinaia di migliaia di slavi. A livello di pubblica opinione tuttavia l’entusiasmo per i “fratelli di Dalmazia” era notevole, anche tra i ceti popolari, più per un sentimento patriottico scaturito dai sacrifici della guerra che per una vera conoscenza della situazione e delle sue problematiche. Fu in quegli anni che l’odonomastica delle città italiane si arricchì di Vie Zara, Piazze Fiume, Lungomari Spalato. Dopo la soluzione della questione fiumana del 1924 l’entusiasmo si placò, trasformandosi da un lato in soddisfazione dei ceti politici per il problema che si erano tolto dai piedi, dall’altro in protesta covata per la “vittoria mutilata”, utilissima nei comizi e nei discorsi commemorativi. Intanto la sorte dei dalmati italiani fuori di Zara è quella che conoscete. Conservando la cittadinanza italiana, come fecero i più, perdevano però ogni diritto politico, divenendo estranei e irrilevanti nella vita pubblica delle loro città. Perdendola finivano gradualmente con la generazione successiva in una lenta ma inesorabile slavizzazione. Dopo le violenze anti-italiane degli anni 1918-1920 anche questa condizione di inferiorità civile indusse almeno diecimila italiani autoctoni ad abbandonare la Dalmazia. Fra essi ricordiamo un Giovanni Soglian, poi provveditore agli studi di Spalato nel 1941-43, un Vincenzo Fasolo, architetto e urbanista tra i più noti tra il Venti e il Cinquanta del Novecento, un Lallich, pittore della scuola romana, un Manlio Cace, anch’egli rientrato a Sebenico nel 1941, i Lubin, i Mazzoni e i Nutrizio di Traù, i Missoni di Ragusa e molti altri, che lasceranno la vita nella II guerra mondiale per l’italianità della loro terra. Ma come ci vedevano in quegli anni del ventennio fascista gli altri italiani? Zara era meta di gite scolastiche e del Dopolavoro, i cui gitanti domenicali se ne incantavano per la sua “grazia veneta”. Militari e funzionari, insegnanti e impiegati che vi arrivavano dalla Penisola si sentivano un po’ spaesati all’inizio, in una condizione psicologica non dissimile da chi andava in colonia o in Sardegna… Molti cercavano di andarsene al più presto in sedi meno esotiche. Altri si affezionavano alla città, ne assorbivano lo spirito di gaiezza spensierata e di appassionato patriottismo. Diventavano più zaratini dei zaratini. Nei campi sportivi italiani ci si stupiva di anti cognomi slavi, tedeschi, ungheresi che portavano allori olimpionici alle squadre italiane. Nei primi anni qualche comitiva di squadristi dell’opposta sponda venivano a Zara a impartire lezioni di italianità alla minoranza croata e serba. Tornavano con le pive nel sacco perché i loro metodi non piacevano ai giovani di Zara, fascisti o no che fossero. Per noi dalmati italiani suonavano offesa. Sta di fatto che a Zara nelle elezioni del 1924 non fu il PNF a vincere, ma una lista liberal-nazionale di centro. Nella storiografia giuliana si parla di un “fascismo di frontiera”. Nella Zara italiana non so questa espressione quanto abbia riscontro nella realtà. Posizioni estremiste si ritroveranno a Spalato nel 1941-43 in una condizione di forte inferiorità numerica dell’elemento italiano e di un terrorismo comunista cittadino che a Zara non aveva spazio. Sul piano diplomatico la Convenzione di Nettuno del 1925 sistemò le ultime questioni transfrontaliere, soprattutto a Fiume e a Zara, con la creazione intorno alla piccola ènclave zaratina di tre zone, ove era consentito lo spostamento di merci e persone, così da non troncare i rapporti vitali tra la città, il suo retroterra e le isole dell’arcipelago. E’ evidente che il regime fascista cercò di mitigare l’isolamento della nostra città con l’introduzione del porto franco e alcune opere pubbliche, che rientravano nella politica generale del partito sul piano dell’educazione dei giovani e della sanità. Gli imprenditori zaratini seppero trarre profitto da tali provvidenze dando alla città venti anni di benessere. Tuttavia il problema della Dalmazia e le non spente aspirazioni dei dalmati italiani di riaprire la questione dei confini restò una pietra d’inciampo nei rapporti italo-iugoslavi, che il governo di Roma cercava di superare nel quadro della più vasta politica verso l’area danubiana e i Balcani. Il patto Ciano- Stojadinović del 1937, con la rinuncia ad ogni aspirazione territoriale italiana, creò non poche apprensioni sia nella Venezia Giulia che a Zara, così come il discorso di Mussolini in Piazza dell’Unità a Trieste del settembre 1938 in cui, dopo aver annunciato insieme le leggi razziali e l’avvicinamento alla Yugoslavia, si sentì di dover dire: “Non abbiate qualche volta l’impressione che Roma, perché distante, sia lontana. No. Roma è qui…” Il colpo di stato a Belgrado del marzo 1941, l’invasione della Iugoslavia da parte dell’Asse il 6 aprile fece cambiare nuovamente i toni. Tutte le rivendicazioni furono rimesse in campo (“da Arbe fino a Spizza”) e più vibrante si fece la propaganda del regime con l’annessione all’Italia nella primavera del 1941 delle nuove province dalmate di Spalato e Cattaro e l’allargamento a Sebenico e Tenin della provincia di Zara. Ricordiamo però che nei nuovi territori annessi i quadri dell’amministrazione iugoslava restarono in gran parte al loro posto e il serbo-croato rimase lingua ufficiale in un bilinguismo simile a quello dell’epoca austriaca. Le cooperative ad esempio di chiamavano “zadrughe” con l’indicazione bilingue o trilingue, in caratteri cirillici, se il comune era abitato anche da serbi. Ciononostante l’annessione, per i gravissimi problemi creati dalla feroce guerriglia incrociata insorta su tutto l’hinterland dalmato, rafforzò nella maggior parte degli italiani l’opinione che la nostra regione fosse un groviglio di inesauribili guai. L’8 settembre confermò come gran parte dei militari italiani si sentisse in Dalmazia come in terra straniera, quando gettando fucili e giberne gridavano di voler “tornare in Italia”, tra lo sgomento della nostra gente, che si sentì tradita. Rinnegavano così l’eroismo dei loro commilitoni caduti con onore, dalmati compresi, per difenderci dalle minacce nemiche. Gli eventi successivi, la crisi tra gli Alleati e Tito nella “corsa per Trieste” condannò la Dalmazia all’abbandono più totale. De Gasperi farà alla conferenza di Parigi un ultimo tentativo, per salvare Zara, proponendo uno Stato Libero che comprendesse Fiume, Zara e le isole di Cherso e Lussino. Si vide quanto queste proposte fossero fuori della storia, dato che la debolezza dell’Italia non le consentì nel 1947 di difendere nemmeno Trieste. Questo non vuol dire che la stampa dell’Italia divisa tra Nord e Sud non si interessasse alla tragedia di Zara, quasi distrutta dai bombardamenti e al nostro esodo. Ma il governo di Roma, sotto tutela alleata, nulla poté fare se non mandare nell’estate del 1945 le navi dell’ancora Regia Marina a raccogliere i profughi dalmati che si erano rifugiati a Lussino. Il 5° periodo e quello dell’oblio e della censura politica, la damnatio memoriae. Anche questo lo avete vissuto di persona. E’ stato come se Zara non fosse mai stata italiana e che parlare della Dalmazia fosse soltanto propaganda neo-fascista. Le nostre città e le nostre isole diventarono nella stampa, nell’editoria, nei dèpliant turistici Krk, Rab, Pag, Zadar, Sibenik, Trogir, ecc. A nessuno interessò che l’80% della popolazione zaratina avesse optato per la cittadinanza italiana e che dopo il Memorandum di Londra del 1954 un’ultima ondata di zaratini italiani scegliesse la strada dell’esodo, quando furono abolite le ultime scuole nella nostra lingua e divenne quindi chiara la volontà di sradicare ogni traccia della nostra presenza. Bisogna riconoscere che da parte della Chiesa cattolica qualche rispetto per la nostra vicenda non cessò mai, come avvenne nei rari incontri dei rappresentanti della Diaspora giuliano-dalmata con i Papi. Questa attenzione era dovuta anche alla presenza in Italia di tanti sacerdoti esuli, come il nostro vescovo Mons. Munzani, don Scutarich, Mons. Duca, don Luigi Stefani, Mons. Lovrovich, Padre Flaminio Rocchi, e alle persecuzioni che i cattolici tutti subivano da parte del regime comunista di Tito. Quanto abbiamo sofferto nell’immediato dopoguerra, soprattutto le famiglie ricoverate per anni nei campi-profughi, dall’ostracismo politico che la militanza comunista italiana mise in essere con ostinata pervicacia, anche con episodi di violenza, lo sappiamo solo noi. Il 6° periodo, che possiamo chiamare di un risveglio dell’attenzione sul piano storiografico e sentimentale, è quello che va dal 1991 ad oggi. Il triste e lungo quarantennio di silenzio è cessato infatti quando la cruenta dissoluzione della Federazione Iugoslava mostrò al mondo quanto fosse effimera quella costruzione politica, quanto fosse oppressivo ed economicamente sballato il vantato “modello iugoslavo”, di quali efferatezze fossero capaci le contrapposte fazioni. Si aprì allora una breccia nella pubblica opinione del paese che le nostre associazioni hanno saputo intelligentemente allargare, riportando alla luce della memoria nazionale la nostra vicenda di giuliano-dalmati. In questa riscoperta storica, cui concorsero scrittori e giornalisti di ogni tendenza politica, anche la Dalmazia tornò ad affacciarsi all’attenzione della nazione. Molto contribuirono le parole dei Presidenti della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Fu Ciampi in un messaggio di Capodanno ad affermare che “i nomi di Fiume, di Pola e di Zara sono nel cuore di tutti gli italiani”. Erano decenni che non sentivamo qualcosa del genere. Le leggi approvate dal parlamento, quasi all’unanimità, nei primi anni del 2000 confermarono questa attenzione con l’introduzione del Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo, la tutela del patrimonio storico e culturale degli Italiani dell’Adriatico Orientale, la normativa sull’Anagrafe di noi esuli e sull’acquisto agevolato delle case popolari, furono il segno tangibile, seppure modesto, di questo ritorno alla superficie del fiume carsico della nostra storia e della nostra cultura. E ancora, onestamente, ci è difficile capire perché noi sia mai stata ufficializzata la concessione della medaglia d’oro alla nostra città. La Regione Veneto, come altre regioni della Penisola, ha voluto emanare leggi a protezione della nostra tradizione culturale, per non fare precipitare nell’oblio secoli di vita italiana della nostra Dalmazia. Oggi, guardando all’avvenire – come ho accennato un anno fa e come stiamo già facendo – il nostro obiettivo si è fatto ancora più ambizioso: riconquistare l’attenzione della cultura e dell’opinione pubblica croate nel riconoscere l’esistenza di una radicata presenza italiana lungo la costa dalmata. E’ un compito nobilissimo perché non vuole riaprire antiche ferite reciproche, ma ricostruire una memoria che non disconosca a priori il carattere plurinazionale della nostra terra. L’obiettività delle nostre posizioni, la rinuncia a rivendicazioni territoriali (ancora così vive tra i paesi della ex-Iugoslavia tra Slovenia e Croazia, Croazia e Bosnia, Bosnia e Serbia), il riconoscimento del carattere minoritario dell’italianità dalmata di fronte ad una innegabile maggioranza croata della popolazione, secondo l’insegnamento di quel grande dalmata e italiano che fu Niccolò Tommaseo, devono servire a vincere le tendenze negazioniste dell’estremismo nazionalista croato e del nostalgismo comunista titino. Anche l’affermazione dell’autoctonia della presenza latina e italiana in Dalmazia, al di là della “colonizzazione veneziana” dal XIV secolo al 1796, deve essere da noi suffragata con serietà storiografica e documentaria, pronti anche ad accettare quello che la propaganda nazionalista italiana voleva ignorare. La verità trionfa sempre. E non dobbiamo avere paura di proclamarla a testa alta. Quando si sa stare nei limiti della realtà è la realtà stessa a darci ragione. E nessuno ci potrà smentire.