Da ragazza a Fiume gli incontri con Palatucci
Autore: Rosanna Turcinovich Giuricin
Meira Moise, nata a Cherso il 3 ottobre 1923 da Francesco Moise di Cherso (7 dicembre 1885) e da Pulcheria Missetich (Ragusa, 24 dicembre 1889) ha festeggiato la sua terza laurea con gli amici del suo corso all’Università di Verona. “Gli anni non contano – dicono i suoi occhi azzurri pieni di vivacità – io mi sento una di loro”. La incontriamo nella sua casa in una piccola località del Veneto dove si danno convegno i compagni di corso che lei aiuta per le tesi di laurea. C’è quasi una sorta di pudore a parlare con lei del passato, proiettata com’è nelle vicende del presente e pronta a immaginare scenari futuri ricchi di spunti e di impegni seri. Ma siamo qui per ragionare di Fiume, su suggerimento di Fulvio Mohoratz, città che l’ha accolta ragazza e dove lei aveva avuto modo di frequentare, ogni mattina, la medesima chiesa di Palatucci. Com’era? “Un bell’uomo, elegante, si distingueva”. Ma come è arrivata a Fiume dalla natìa Cherso? “Ci sono arrivata dopo una tappa intermedia. Nel 1934, infatti, mi spostai a Zara per frequentare il ginnasio inferiore, avevo 11 anni. Era una città bellissima, raccolta, con una riva meravigliosa. Lungo la Strada grande (lo struscio) si ritrovavano tutti gli studenti guardati a vista dagli adulti. Arrivavano da Sebenico, da Spalato, da Ragusa e dal resto della Dalmazia, rampolli di famiglie benestanti che volevano per loro una cultura italiana, quella della loro appartenenza. Ricordo Ottavio Missoni, mio compagno di classe, strabocciato. Quando ci incontriamo insiste sul fatto che io sia plurilaureata e io gli rispondo che lui è diventato ricco e famoso, siamo pari. Poi ero in classe anche con Enzo Bettiza, altro dalmata eccellente, a scuola era molto bravo. Ottavio invece brillava per le assenze, lo ritrovavamo allo stadio. Con Mussolini tutti dovevamo essere sportivi. Anch'io facevo corsa, lancio del giavellotto, un mucchio di attività perché al nostro sabato non venivano lasciate alternative”. Dal punto di vista culturale cosa offriva in quegli anni Zara? “Molto, ma noi si viveva soprattutto di scuola, che era molto seria, non come quella di oggi. Anche i professori, poi, erano di un'altra pasta, persone speciali. Ho telefonato recentemente a uno dei miei professori di filosofia che è ancora vivo, ha 97 anni, scrive libri, fa conferenze. Si è commosso nel sentire che una alunna di 88 anni ancora si ricorda di lui. Mia madre invece frequentava un circolo femminile molto elegante dove si recava per discutere di varie tematiche, erano molto impegnate”. Come ricorda il passaggio a Fiume? “Arrivai col vapor. La riva non era bella come quella di Zara e la stessa città di Fiume non reggeva, a mio avviso, il confronto. Aveva un fascino diverso determinato dal movimento di una città commerciale, aperta al mondo, grande. Zara era una città raccolta, piccola, graziosa, ci si conosceva tutti, per cui Fiume mi apparve più fredda e distante. Ma una volta conquistata dimestichezza con l’ambiente tutto divenne più semplice ed immediato”. Come conobbe Palatucci? “Andavo a messa nella chiesa di San Vito tutti i giorni. Io e la mia amica Nuccia di Milano assistevamo alla messa e vedevamo ogni giorno questo bellissimo giovane che partecipava alla funzione con grandissima devozione. Non sapevamo che si trattasse di Giovanni Palatucci. Allora abbiamo chiesto in giro e abbiamo saputo che era proprio lui, il Questore. Molto più tardi sono riuscita a sapere ma anche a capire tutto quello che aveva fatto, perché aveva proprio un amore vero per le persone. Se uno va ogni giorno in chiesa ma non riesce ad amare gli altri allora vuol dire che non ha capito niente dell'esistenza. Lo vedevo, nei primissimi banchi della chiesa di San Vito, poi ho saputo della sua fede profonda che l’ha portato a spendersi per il prossimo. Si parlava molto di lui sia tra gli alunni del liceo ma soprattutto tra le mie compagne di università, non passava inosservato”. Lei si richiama spesso al senso di fede profonda, che cosa intende? “Intendo vivere il Vangelo nella realtà della vita. Fede è amare l'altro, altrimenti è un concetto vuoto. La fede deve essere vissuta. Il Vangelo non è fatto per essere letto, ma per essere messo in pratica. Sono le parole di Gesù sul Testamento. Chi lo capisce, lo vive. Io penso che Palatucci vedesse Cristo nell'altro. E gli ebrei che hanno sofferto gli sono grati. In Israele hanno un bellissimo giardino dove ogni albero rappresenta una persona che ha fatto del bene al popolo ebraico, uno è dedicato a lui, a quest’uomo incredibile che avrei voluto conoscere personalmente. Poi la vita però, sempre a Fiume, mi ha fatta incontrare padre Quattrocchi e ciò ha determinato una svolta nella mia esistenza. E’ scomparso recentemente all'età di quasi cent'anni, figlio di quella coppia Beltrame – Quattrocchi che fu beatificata da Giovanni Paolo II. Aveva fatto una conferenza a Fiume e io ne rimasi enormemente colpita, parlò dell'amore come io non ne avevo mai sentito parlare. Mia madre mi aveva trasmesso un'immagine di Dio terrificante dicendomi “te bruserà all'inferno se no te fa la brava!”. Così ho cominciato ad andare a messa perché avevo necessità di confermare questa capacità di amore incondizionato. Mia madre ne era spaventata. Andavo in chiesa alla prima messa del mattino, alle sei, ecco perché incontravo Palatucci, a quell’ora lui era lì”. Quanto l'ha aiutata nella vita la sua apertura verso il prossimo? “Essendo arrivata al capolinea posso affermare che la fede è tutto. Vorrei poterlo gridare perché chi non ha fede non ha vissuto. La fede aiuta a superare i grandi dolori. Ne ho avuto tanti con la guerra e gli anni successivi, ma ce l’ho fatta”. Perché ha deciso di tonare a studiare? “Ho sentito il bisogno di farlo, di riprendere i libri in mano. Mi sono iscritta all'università, ho scelto filosofia. Ho cominciato a frequentare ed è stata una bellissima esperienza. Alla fine ho conseguito la mia seconda laurea e poi la terza, in Scienze Filosofiche, che completa l'altra. Il direttore della segreteria mi ha proposto di iscrivermi a medicina ma temo che mi boccerebbero al test d'ingresso, con tutta quella fisica ed economia che c'è. Però mi piacerebbe”. Dove ha insegnato? Un po' dappertutto. A Cherso, a Fiume dove insegnavo anche alle scuole medie e contemporaneamente a Sussak, poi a Gorizia per 6 anni e poi sempre a Verona. Ho insegnato inoltre per sessantadue anni catechismo. Sono sempre stata fra i giovani. Tanti li criticano ma in realtà i giovani possiedono moltissime qualità. Son buoni, generosi, aperti. Mi hanno accettata, io che sono vecchissima, come fossi una bella ragazza di vent'anni, alla pari. Hanno molto da dare, forse bisogna saperli capire”. Che rapporto ha conservato con Cherso e Fiume? “Torno a Cherso una volta all'anno, anche per un mese intero. Fiume invece non la vedo da una vita. A Cherso conosco tutti e tutti mi conoscono. Ho ancora viva qualche mia compagna delle elementari e allora ci troviamo per parlare, andare indietro nel tempo. Poi mi vengono a cercare appena arrivo. Sono molto affettuosi, mi invitano a pranzo e a cena, mi dimostrano in mille modi l'affetto che provano per me. E sono contenta che la Croazia entri in Europa. Dal punto di vista della fede sono dei fratelli e penso che vederli nell'ottica giusta sia il modo migliore per superare antiche divisioni. Entrare in Europa significa cambiare tante cose, a partire dalla moneta. Ma anche rivalutare gli aspetti culturali. Ci sono tanti chersini, per fare un esmpio, che hanno dato tanto nel campo delle lettere, della filosofia, nel campo della musica come padre Lizzi, che ha fatto delle scoperte grandiose. Anche l'abate Moise, mio antenato, era un grammatico eccellente dell'Ottocento ed era amico del Carducci. Tendono invece a salvare soltanto Francesco Patrizi, sul quale tra l'altro ho fatto la tesi sottolineando il fatto che fosse un naturalista, che riuscì ad inserirsi in un periodo difficile come quello della Riforma protestante e la Controriforma cattolica attraverso un modo intelligente, senza farsi coinvolgere, a differenza di altri come Giordano Bruno che venne bruciato vivo”. Per quale motivo secondo lei un ambiente come Cherso è riuscito a produrre un personaggio di questo calibro? Per il fatto che provenisse da una della famiglie più in vista della Cherso dell'epoca. Lui si chiamava Petris di cognome, Patrizio derivava dal latino chiaramente, ed apparteneva a una della famiglie nobiliari più antiche e più in vista. Erano anche miei parenti, alla lontana. La famiglia era presente sull'isola già dal 1300 e nasce nel 1529, non è vero che siano arrivati dalla Bosnia nel 1460. C'è la prova vicino a casa mia dove c'è la chiesetta dove venivano seppelliti i morti anche della loro famiglia e la chiesetta è del 1300. Che cosa c'è di attuale nel pensiero di Francesco Patrizi? “C'è la sua idea perenne di costruire una città felice. Ne parla molto e l'opera dove lui teorizza tutto questo è un'opera che mi ha affascinato moltissimo. Intanto la immagina lungo il mare perché è convinto che una città possa essere felice solamente stando vicino al mare e vicina ad un golfo cosicché la sua difesa risulti più agevole. Poi dice che la città felice dovrebbe pensare per prima cosa al benessere e alla salute dei suoi cittadini. Pone l'accento sulla salute perché dice che un uomo sano è capace di dare molto alla città. Divide la società in categorie. La prima è quella degli agricoltori che devono seminare, gestire la terra, produrre il pane. Poter dare il cibo “giusto” ai cittadini. Rispecchia, nello stesso tempo, è l'indole della nostra gente. A nove anni la famiglia gli fa interrompere gli studi per mandarlo a navigare con lo zio lungo il Mediterraneo. Volevano fare di lui un uomo di mare, un marinaio. A 15 anni però sbarca a Venezia e riprende gli studi di grammatica, latino e di greco anche se, secondo il padre, avrebbe dovuto fare medicina. Invece lui scelse Lettere. Nei suoi scritti però ricorda sempre il mare, quel periodo nel quale assieme allo zio vide tanti posti, conobbe tantissima gente diversa. Ecco, per lui il mare è una nota importante nella sua vita, come nella mia e in quella di chi ci assomiglia”.