Autore: Rosanna Turcinovich Giuricin
Partire per l’Antartide…praticamente la fine del mondo, laddove tutto si ridimensiona e l’uomo ritrova se stesso, potrebbe sembrare una fantasia irraggiungibile e invece molti lo fanno, per lavoro, svolgendo missioni scientifiche e a volte portando con se la nostalgia per Trieste. Ne parliamo in un pomeriggio d’autunno, mescolando la quotidianità, il banale gesto di sorseggiare un caffè, con l’eccezionale estremo che la vita, a volte, riesce a regalare. A chi? A chi ha passione, a chi è fortunato, a chi osa… Che cosa significa fare rotta per l’Antartide? Sorride il capitano, Tullio Russiani, mentre il ricordo illumina i suoi grandi occhi adriatici. “Non è una passeggiata ma ti prende, è una sfida continua”. Mamma triestina ma di origine isolana con nonno piranese. “Unico con quel cognome svizzero, Plocher, di famiglia legata alle vicende dell’Arsenale veneziano. Che storia queste nostre famiglie! Io ho frequentato il Nautico a Trieste e nel 1956, ho cominciato a navigare sulle Liberty del Lloyd Adriatico. Ho fatto anche due viaggi con la nave Toscana che portava gli esuli e gli emigranti in Australia”. Che ricordi ha, capitano, di quei viaggi? “Non mi piaceva quel piroscafo, era una nave cosiddetta negriera: 800 persone stipate in cameroni da 50 posti nelle stive, d’estate si toglievano i materassi alle cucette e si tiravano le tele per far meglio circolare l’aria. La chiamavamo la nave incinta per la sua particolare forma panciuta. Nave tedesca che giunta in Mediterraneo si occupava di spostare truppe durante la guerra d’Africa”. Ma come è iniziata la sua avventura sulle rotte per l’Antartide? “Così, semplicemente. Nel 1965 diventai comandante, proprio il giorno in cui mio figlio compiva tre anni, ero a bordo di una petroliera, doveva essere quello il mio destino, invece, dopo aver incrociato i mari del mondo, mi trovai a fare rotta per l’Antartide. Era la vigilia di Pasqua, partimmo con l’Explora dal Nord del Pacifico”. La meta era il mare di Ross. Col capitano c’era anche Paolo Visnovic, addetto alla strumentazione scientifica a bordo, che s’inserisce nel racconto. “Dovevamo tirare 4.500 metri di cavo sismico, praticamente uno strumento per il il lancio di bolle d’aria che colpendo il fondale, mandano dati significativi per i geologi. Bisogna sapere che le perturbazioni in quei mari arrivano con un’incredibile velocità, senza preavviso, senza darti il tempo di recuperare la strumentazione. E’ una lotta con gli elementi, una sfida continua, ogni disattenzione può significare la fine della missione, uno stop al lavoro, la vanificazione di tanta preparazione”. Eppure…come mai chi vi è stato è preso da una specie di “mal d’Antartide” per cui desidera tornarci? Si guardano e sorridono divertiti, loro la conoscono la risposta, e infatti… “Quando ci si trova nello stretto di Magellano, e si vedono i relitti che rendono pericoloso il passaggio, ci si accorge che non è certo uno scherzo. Ma c’è qualcosa in quel mare, la sua violenza, le improvvise calme, l’imprevedibilità, che te lo fanno amare, ti mette alla prova e se lo racconti è con una sorta di soddisfazione per aver vinto la paura”. Che cosa significa affrontare il ghiaccio, comandante Russiani? “Quando nel ’95 lasciai Punta Arenas, avevo alle spalle delle esperienze nel Baltico ma è tutt’altra cosa, non lo stesso mare e soprattutto l’incognita del vento che quando arriva in quei mari antartici è un’esperienza unica, soffia a 50 nodi costanti, come le peggiori raffiche di Bora ma senza le pause intermedie, e non c’è modo di mettersi al riparo “drio el canton”, spesso ci si trova immersi nella nebbia. Verso il mare di Ross il vento arriva a soffiare anche a 300 km all’ora, poi all’improvviso giunge la calma col bel tempo e tutto si accende, l’atmosfera nitida, i colori brillanti, il mare è straordinariamente bello. Ti prende, ti rimane dentro”, e si mette una mano sul cuore. Ma una volta giunti, per 180° gradi nel mare di Ross, che cosa succede? “Si raggiunge la base italiana, dove si svolge il lavoro degli scienziati da novembre a marzo. Poi, nel giro di pochi giorni tutto si svuota, quando il rompighiaccio lascia la base è ora di ripartire. Indugiare potrebbe significare rimanere intrappolati e, credetemi, è un’esperienza da non fare”. Ricorda molto il racconto di Shakleton che vide stritolare la sua nave dalla pressione dei ghiacci… “Proprio così, è una morsa che non perdona, era successo anche alla nostra Explora col capitano Valles che dovette fare delle manovre incredibili per liberarsi. Quando si affrontano quei mari, tutto è calibrato da precisi ritmi e disciplina, anche nel quotidiano. A bordo non ci si annoia, le mansioni sono tante, la sorveglianza continua, il freddo terribile. Eppure i marines della base americana si buttano in acqua per temprarsi, per cercare di vivere quelle condizioni estreme. In alcune basi hanno tentato di far vivere delle famiglie ma è difficilissimo”. Che cosa c’è di diverso laggiù? “I profumi, gli odori, per esempio, tutto è amplificato, si sente la presenza dei pinguini dall’odore del guano. Le orche nuotano a fianco della nave, le foche ti accolgono. Il ghiaccio e il mare creano paesaggi incredibili. Il silenzio ti accompagna, supera anche i rumori, ti circonda. E quando arriva il maltempo, devi affrontare la paura, muoverti con cautela in una nave dove ogni oggetto è bloccato, altrimenti verrebbe lanciato con furia. Ci si sposta senza salvagente perché non c’è modo d’indossarlo ma si sta insieme a tavola, col cuoco che riesce a preparare qualcosa, nonostante tutto. E’ duro affrontare il rifornimento di carburante in mare ma lo si fa e solo raramente ricordi di essere partito dal porto di Trieste, dal Pedocin praticamente, un altro mondo. A bordo salgono geologi di tutte le nazionalità”. E che lingua si parla quando si è tutti insieme? “El triestìn”. Rispondono. Ma l’Explora ora dov’è? “Attende, nel porto di Crotone, che si sblocchino i fondi. La crisi ha coinvolto, per prima, proprio la ricerca. I nostri geologi oggi partecipano a iniziative congiunte per ottimizzare i finanziamenti. La ricerca in mare era utile soprattutto per le compagnie petrolifere che hanno spostato altrove i loro interessi. Quindi si fa ricerca pura nelle basi antartiche”. Che cosa significa navigare lungo le coste della Patagonia? “E’ una destinazione magica – rispondono – una natura selvaggia, foreste che si affacciano su canali navigabili di pareti scoscese. Ma quando scendi a terra e vai a visitare i luoghi abitati trovi una strana commistione di genti. Al cimitero sembra di essere dalle nostre parti per la moltitudine di cognomi di gente di diversa provenienza, tedeschi ma anche tanti croati e italiani delle nostre coste. Ci capitò di entrare in un fattoria e il proprietario che ci sentì parlare nel nostro dialetto, disse: de dove ti xe. Lui era lussignano. E’ bellissimo, senti che il mondo ogni tanto svela le incognite e ti fa sentire a casa”. Superati i sessant’anni, Russiani, che tutti gli scienziati erano abituati a chiamare “Zio Tullio”, è rimasto a casa, in pensione, ma ancora ricorda nettamente quella voglia di ripartire che concludeva ogni viaggio. Visnovic, spera di tornarci laggiù, rispondendo ad un richiamo antico, al desiderio di esplorare, di conoscere nuove mete, anche dentro se stessi che è la vera sfida, la più difficile.