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Intervento del Prof. Rossi al Senato per il Giorno del Ricordo

Intervento del Prof. Davide ROSSI (Università degli Studi di Trieste) alla cerimonia presso il Senato della Repubblica per il Giorno del Ricordo di lunedì 10 Febbraio 2020
Presidente del Senato, Presidente della Camera dei Deputati,
Onorevoli Senatori e Deputati,
Rappresentanti del Governo,
Autorità civili, militari, diplomatiche e religiose,
Gentili signori e signore, cari studenti presenti,
Amici e Fratelli dell’Istria, Fiume e Dalmazia,
«Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me»; in questo modo l’allora Presidente del Consiglio Alcide de GASPERI intervenne, in un caldo agosto del 1946, alla Conferenza di Pace di Parigi, dove le potenze mondiali erano riunite per definire le questioni pendenti a seguito dei tragici eventi bellici del secondo conflitto mondiale. I lavori della Conferenza proseguirono, poi, fino ad autunno inoltrato e partoriranno il Trattato multilaterale di Parigi del 10 febbraio 1947, data che è stata scelta nel 2004 per celebrare il Giorno del Ricordo e che oggi qui solennemente commemoriamo, in quanto – proprio a seguito di quel diktat – l’Italia dovrà subire risoluzioni imposte, quale potenza uscita sconfitta, con cui si perdeva la sovranità dei territori coloniali, di alcuni piccoli comuni del confine occidentale, ma soprattutto dell’Istria, di Fiume, del Carso triestino e goriziano, la provincia di Zara (attribuita all’Italia dal Trattato di Rapallo del 1920 per l’indiscussa italianità di quasi tutta la popolazione), oltre alla previsione della creazione del Territorio Libero di Trieste, sotto l’egida della costituenda Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nel mentre in cui, però, la diplomazia italiana cercava di guadagnarsi i favori di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, contemporaneamente esponenti del partito comunista, paradossalmente anch’esso forza di maggioranza a sostegno del secondo
Governo de GASPERI, attuavano una politica estera totalmente divergente e rispondente a logiche geopolitiche affatto diverse. Basti leggere l’articolo apparso su L’Unità del 10 novembre di quello stesso anno – data che combaciava tra l’altro con lo svolgimento di delicate elezioni amministrative – proprio a firma del segretario Palmiro TOGLIATTI e paradigmaticamente intitolato La politica dei calci nel sedere, in cui si prendeva pesantemente le distanze dall’operato della diplomazia ufficiale italiana e che faceva seguito al folle “baratto” territoriale che era emerso durante l’intervista dello stesso TOGLIATTI al Maresciallo TITO, pubblicata esattamente tre giorni prima.
Un Trattato di Pace che si era trasformato in un “amaro calice” e che, non a caso, neppure il Capo Provvisorio dello Stato Enrico de NICOLA era disposto a ratificare, consapevole che si sarebbe aggiunto sconforto per un ulteriore e salatissimo conto da pagare
in un Paese ancora diviso e ridotto in macerie.
Il confine orientale si apprestava quindi ad affrontare una sorta di duplice morsa: da una parte l’ostilità che necessariamente deve patire una Nazione uscita perdente da una guerra, che non può partecipare alle discussioni internazionali e presenzia solamente in
quanto invitata, non come interlocutrice necessaria. Dall’altra un Governo di larghe intese, al cui interno era presente una forza partitica le cui linee strategiche sovente erano antitetiche agli stessi interessi nazionali, in un’ottica internazionalistica e con uno sguardo tutto proteso verso l’Unione Sovietica.
Stretti in questo guscio, gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia patirono sulla propria pelle decisioni costruite sopra le loro teste, in un clima che anticipava quello che sarà il contesto della cosiddetta Guerra Fredda. Proprio in quell’estate del 1946, ad oltre un anno dalla Liberazione e a due mesi dal referendum che aveva visto uscire sconfitta la Monarchia, su una ridente spiaggia di Pola, per la precisione a Vergarolla, scoppiò un ordigno che causò un numero di morti e feriti tale da offrire a quella strage lo sgradevolissimo primato di essere la più cruenta mai avvenuta in periodo repubblicano. Dimenticata dalla storiografia, sopraffatta dal terrorismo degli anni Settanta, questa tragedia rimase confinata nella sola memoria locale, lasciando però un segno indelebile se solamente si pensa che la stessa Pola letteralmente si svuotò dei propri cittadini, ormai consapevoli di non poter più rimanere
nelle terre in cui erano cresciuti. Oltre 350.000 persone furono costrette ad abbandonare le loro case proprio per rimanere italiani, “optando” – mai parola fu così stonata – per mantenere la propria identità. Italiani definiti “fascisti” semplicemente perché lasciavano luoghi in cui il socialismo reale trasformava in pubblico ciò che prima era privato, dissacrava le Chiese, costringeva a parlare lingue diverse, senza valutare le effettive motivazioni di questa “pulizia etnica” (termine, bene ricordarlo, sdoganato dal Presidente Emerito della Repubblica Giorgio NAPOLITANO in un importante discorso del 2008 e acutamente ripreso dal Presidente MATTARELLA lo scorso anno) e di questo esodo che riguardava indistintamente maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori o figli. Prova ne fu anche quanto accadde ai cantierini monfalconesi, quasi 2.500 operai che, con le loro famiglie, tra il 1946 e il 1948 intrapresero un percorso opposto, spingendosi per motivi ideali verso la Jugoslavia, convinti di poter partecipare ad una nuova tappa dell’edificazione rivoluzionaria di un’unica grande patria socialista. Schiacciati dalla rottura tra Tito e Stalin, la quasi totalità fu imprigionata o costretta ad umili lavori, oltre che subire una vera e propria damnatio memoriae.
Il confine orientale, calpestato da quel combinato disposto tipico del XX secolo caratterizzato da nazionalismo e ideologia, ha dovuto così pagare il prezzo maggiore del carattere punitivo comminato all’Italia: l’aver patito le violenze delle foibe e delle
deportazioni (ottobre 1943 – maggio 1945, non a caso in concomitanza con due momenti fondamentali quali la data dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 e quella della Liberazione del 25 aprile 1945, a dimostrazione della iato tra la Storia della Penisola e quella che stava vivendo l’Alto Adriatico), quindi l’esilio, infine la beffa dei beni nazionalizzati, il cui valore fu utilizzato dallo Stato italiano per pagare il debito di guerra con Belgrado, con la promessa di un equo indennizzo la cui attesa dura tutt’ora, lasciando piaghe non ancora rimarginate.
Neppure la richiesta di indire – sulla scia tracciata alla fine del primo conflitto mondiale dai Quattordici Punti di Wilson – un plebiscito con cui poter dimostrare l’italianità di quelle terre venne ascoltata, nel malcelato timore di dover ugualmente
provvedere in altre zone di confine ancora in fase di definizione.
Sono, queste, pagine amare di storia patria che si sono trasformate in ferite aperte e che paradossalmente sembrava meglio dimenticare piuttosto che ricordare, chiudere in qualche cassetto per non disturbare un Paese che doveva pensare alla ricostruzione e che doveva ritrovare speranza. Gli esuli diventavano quindi la prova provata di una guerra perduta, l’emblema di una sconfitta che non si poteva raccontare: abbandonati in 110 campi profughi, hanno vissuto con dignità e fierezza esperienze al limite dell’umano. Basti oggi recarsi al Centro Raccolta Profughi di Padriciano, vicino a Trieste, dove venivano ospitati in baracche prive di riscaldamento, acqua corrente e isolate con lastre di amianto, prima di essere distribuiti – quasi fossero oggetti – nel resto della Penisola, in luoghi dove non regnava l’accoglienza, ma il disagio e la fatica. Il Campo di Fossoli a Carpi, ad esempio, è noto per essere citato da Primo LEVI nelle prime pagine del suo celebre Se questo è un uomo quale centro di smistamento e transito degli ebrei da parte dei nazisti. Non si ricorda mai, però, che le stesse baracche, sì proprio le stesse, dagli anni Cinquanta diventarono la casa di molti profughi istriani, che vi fondarono il Villaggio San Marco, in cui nacquero e vissero famiglie addirittura fino agli anni Settanta.
Il filo conduttore di questo mio intervento pare quindi essere contraddistinto dalla marginalità di questi racconti, quasi fossero storie di periferia e un accessorio della storiografia nazionale, esperienze da dimenticare o comunque dimenticabili, nel tempo
strattonate ed etichettate dalla politica. Si è dovuto attendere la caduta del Muro di Berlino e la sapienza di uno studioso di matrice marxista come Claudio PAVONE per poter aprire un dibattito scientifico sull’argomento. Mentre il disgregamento della Jugoslavia e le guerre balcaniche degli anni Novanta, le uniche vissute in Europa negli ultimi settant’anni, hanno confermato, in contesti chiaramente differenti, quanto già in precedenza vissuto dagli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia.
Il Giorno del Ricordo oggi compie sedici anni e non è stato unicamente una conquista o un punto di arrivo, ma rappresenta ancor più un momento di svolta, una partenza verso una nuova fase, con molti elementi ancora da tratteggiare. Il ricordo non è un termine facile da gestire, si intreccia con il mondo delle emozioni, rimanda ad un confronto con il passato che non è solamente fatto di conoscenza, ma diventa anche di incontro e confronto, in qualche modo di attualizzazione. Personalmente parlare di questi argomenti significa dare voce e vivo ricordo alla mia famiglia, ai miei nonni che quelle terre dovettero abbandonare per aver salva l’esistenza e che mi hanno insegnato a crescere nel rispetto delle proprie tradizioni, della propria lingua e dei costumi, che sono costituiti soprattutto dai luoghi, dai profumi e dai colori di terre che non hanno più potuto vedere e che io – decenni dopo – ho rivisto per loro, in contesti totalmente differenti.
Appartengo alla cosiddetta “terza generazione”, sono nato nell’anno del Trattato di Osimo, quando malamente si chiudeva la questione del confine orientale. Per le generazioni che verranno il ricordo di questi drammi non può che essere un mero racconto; è un rarefatto racconto che segna profondamente il nostro presente e che appartiene in modo significativamente diverso da coloro che l’hanno vissuto in prima persona. Il ricordo diventa un secondo o un’eternità, si somma indefettibilmente con le nostre personali esperienze, con il modo con cui gli avvenimenti vengono raccontati, con il momento e il personale stato d’animo. Tanti hanno faticato a narrare gli anni dell’esodo, preferendo non dire ai nuovi amici o colleghi la loro provenienza, perché “tanto non avrebbero capito”; altri sembravano un fiume in piena, avevano quasi bisogno di rendere partecipe il prossimo, di rivivere
ancora una volta quegli attimi, quegli anni, quasi a cristallizzarli.
Paradossalmente ora il rischio è quello di rimanere schiacciati da una strumentalizzazione livellatrice che vuole sostituire alle facce basite di coloro che sentivano nella provenienza dalle terre d’Istria o Dalmazia, l’assimilazione culturale di ciò che era accaduto, riducendo il tutto alla parola “foiba” o peggio ancora all’identificazione di un orientamento politico. Dietro a tutto questo c’è un mondo multiforme di sofferenze, una poliedricità di fatti e misfatti, una realtà ricca dell’esperienza di ciascuno che non deve
essere minimizzata o addirittura dimenticata. Le ideologie del cosiddetto secolo breve, mescolate dal bieco nazionalismo, hanno annientato nello stesso momento le vite delle persone, ma anche un idem sentire comune fatto di secoli di appartenenza e di condivisione.
Siamo a maggio del 1797 quando il doge MANIN riunisce il Maggior Consiglio per l’ultima volta, sostanzialmente ammainando la bandiera della Serenissima Repubblica di Venezia; pochi, però, ricordano che la comunità di Perasto, all’interno delle bocche di Cattaro, nell’attuale Montenegro, resiste ancora per mesi alle truppe francesi e seppellisce, nell’agosto dello stesso anno, dentro i suoi altari il glorioso gonfalone di San Marco – affinché non cadesse in mano nemica –, al celebre motto “ti con nu, nu con ti”, a
testimonianza di una fedeltà e di un amore che non era frutto del momento, ma aveva antiche e profonde radici di libertà e fedeltà.
Eppure il compito che è affidato alle nuove generazioni (e con questo termine non mi riferisco solamente ai discendenti degli esuli, ma ai tanti vicini e sensibili alle tragedie del confine orientale e che si prodigano per tutelarne la memoria) non è facile, anzi appare
altrettanto gravoso. Quando l’emozione che suscita chi porta una testimonianza diretta non sarà più possibile, come si potranno sensibilizzare le persone? Come si scalderanno i cuori di coloro che in un teatro, in una scuola, ad un convegno ascoltano le mille e diverse storie che ognuno dei 350.000 esuli potrebbe raccontare, appassionare, commuovere? Non serve scomodare PIRANDELLO per sapere che filmati e racconti in terza persona non hanno mai la medesima partecipazione, non suscitano la tenerezza di una donna che racconta quando lei – da bambina – valigie alla mano, stringendosi forte alla mamma, si metteva in viaggio, lasciando le memorie d’infanzia, quasi consapevole di non rivederle mai più. Sarà arduo sconfiggere le nuove barricate del silenzio, coinvolgere un pubblico, avere la stessa tensione che trasmette un testimone diretto. Il ricordo diventa simbolo e forza, fondamentale quanto difficile da utilizzare. Ci sono episodi che potrei narrare quasi meglio di coloro che li hanno vissuti per quanto ormai fanno parte del mio tessuto connettivo, ma che, raccontati da me, non avranno mai lo stesso significato e non desteranno mai le medesime emozioni.
Se io per primo sono consapevole come non possa esserci una condivisione totale, è altresì doveroso approfondire queste vicende, aprire un dialogo franco con la storiografia, con la politica, raccontando e ricordando, senza alcun timore reverenziale. In modo aperto ed equilibrato, si menzionino ovviamente i misfatti del cosiddetto “fascismo di confine”, evitando però di fare il gioco di quanti puntano solamente su quel periodo per giustificare quanto accadde dopo, o per proporre la banale equazione “Italia uguale fascismo”, alibi per le malefatte del Maresciallo TITO. La guerra è sempre una barbarie e segue logiche proprie, che non si possono giustificare. Come appare quasi inevitabile che, ad armistizio firmato, vi sia stata una resa dei conti e la vendetta sia arrivata puntuale, strascico della insensatezza perversa prodotta dalla bruttura degli uomini in queste situazioni. Ma accanto a ciò le azioni
e i crimini commessi dai partigiani jugoslavi rientravano nel processo di costruzione del regime totalitario, che non ammetteva la diversità. A Fiume, ad esempio, gli autonomisti (ossia quanti non volevano né l’Italia né la Jugoslavia, in virtù del Corpus Separatum del 1867) furono eliminati senza pietà fino all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento.
Circostanze, come per l’appunto ricorda il testo legislativo con cui si istituisce il Giorno del Ricordo, «complesse e articolate», davanti alle quali le ricostruzioni manichee o semplicistiche lasciano il tempo che trovano. La libertà di parola e di pensiero è sacrosanta e non si ottiene niente pretendendo di zittire chi propone versioni alternative, anzi si rischia di produrre unicamente “’martiri” del pensiero, facendo da cassa di risonanza. Alle provocazioni si risponde con la ragione, con la documentazione, con analisi serie e con un robusto lavoro di ricerca (motivo per cui da tempo si chiede siano aperti gli archivi della ex Jugoslavia o sia istituita una Commissione Parlamentare sulla strage di Vergarolla prima citata).
Una “questione giuliana” che non si ha timore di raccontare a testa alta, consapevoli delle nostre ragioni, fieri del nostro passato, certi che la verità non può essere smentita da coloro che, non riuscendo a difenderla con il potere della ragione, si affidano alla ragione del potere. Oggi, ad oltre settant’anni di distanza, si chiede rispetto da parte delle Istituzioni, adempimento degli accordi presi, consapevolezza di non essere nuovamente dimenticati.
Laicamente, senza bandiere, per evitare un silenzio generale che avrebbe il gusto di un’ennesima sconfitta.
Una strada l’ha di recente aperta il Parlamento Europeo: lo scorso settembre ha infatti adottato una risoluzione sull’ “Importanza della memoria per il futuro dell’Europa”, sostanzialmente equiparando il nazismo e il comunismo rispetto al segno totalitario e
riprendendo così le teorie di Hanna ARENDT volte a spiegare come nei regimi totalitari non è tanto l’essenza, il contenuto dell’ideologia a fare la differenza, quanto la sua funzione oppressiva, di integrazione con il terrore e di occupazione ipertrofica dello spazio pubblico.
Consentitemi di chiudere parafrasando l’ex Presidente della Repubblica Federale di Germania – altra realtà che sta necessariamente facendo i conti con il suo Novecento – Joachim GAUCK, che prima dell’unificazione era stato un fervente attivista per i diritti umani nella Germania Orientale: «certo noi non siamo responsabili del nostro passato, ma siamo sicuramente responsabili di come ad esso ci rapportiamo. E questo tipo di rapporto decide del nostro presente e del nostro futuro».
Grazie.