Intervento di Antonio Ballarin al Giorno del Ricordo
Intervento del Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati
dr. Antonio BALLARIN
alla cerimonia del Senato della Repubblica per il Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo Giuliano-Dalmata.
Roma, 9 Febbraio 2018
Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente del Senato,
Signora Presidente della Camera,
Signori Rappresentanti del Parlamento e del Governo,
Autorità,
Signore e Signori.
Amici e Fratelli dell’Istria, Fiume e Dalmazia,
Noi oggi, qui, non celebriamo una memoria di cose che furono e che non ci sono più, ma la Memoria per fatti che hanno esteso le
loro conseguenze alle generazioni successive. A distanza di settant’anni queste generazioni chiedono che i conti aperti dallo
Stato italiano con la storia sulla pelle di gente senza colpa vengano chiusi in maniera definitiva.
La nostra richiesta, rinnovata di anno in anno, è una richiesta civile che avviene nel rispetto delle regole, com’è sempre stato, e
viene espressa con determinazione e fermezza proporzionali al grande senso di civiltà del popolo istriano, fiumano e dalmata.
Nel 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, celebrando solennemente il Giorno del Ricordo al Quirinale, così
si esprimeva: «Lo scorso anno il Presidente Ciampi volle che si svolgesse qui la prima cerimonia di conferimento della medaglia del
“Giorno del Ricordo” a famigliari delle vittime […] delle foibe, dell’esodo e della più complessiva vicenda del confine orientale. Raccolgo l’esempio del mio predecessore a conferma del dovere che le istituzioni della Repubblica sentono come proprio, a tutti i livelli, di un riconoscimento troppo a lungo mancato. […]
Da un certo numero di anni a questa parte si sono intensificate le ricerche e le riflessioni degli storici […] e si deve certamente farne tesoro per diffondere una memoria che ha già rischiato di esser cancellata, per trasmetterla alle generazioni più giovani […]. Così, si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre,
nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.»
Queste parole del Presidente, attese da decenni dalla nostra gente, pronunciate al Quirinale, Casa degli italiani, sembravano
squarciare definitivamente la coltre di silenzio accuratamente costruita per tacere la tragedia di un popolo e per mentire, ad un’intera Nazione, che l’Italia, quale Stato aggressore, aveva perso e non di certo vinto la Seconda Guerra mondiale.
La nostra gente si sentiva, finalmente, non più italiani si serie B, ma si illudeva.
Infatti, se da un lato noi, popolo dell’Esodo, testimoniamo con la Memoria della nostra storia un’etica volta all’accoglienza, all’integrazione, al rispetto umano – proprio perché a noi tali categorie sono state negate – se da un lato noi, popolo dell’Esodo,
testimoniamo la necessità della costruzione di una società entro la quale la violenza conseguente all’ideologia – come quella da noi
subita – non abbia mai più cittadinanza, dall’altra assistiamo a rigurgiti violenti di giustificazionismo e di riduzionismo della
nostra storia, che rappresentano una continuazione delle violenze patite, sottomettendo, una volta ancora, la ragione all’ideologia.
Ha senso giustificare una violenza ad un’azione primaria anch’essa violenta? Ha senso farlo nei confronti di qualcuno che non era connesso con l’azione violenta originaria? Evidentemente no, altrimenti, se così non fosse, sarebbe corretto, dal punto di vista logico, giustificare anche altri efferati eccidi.
Nel disinteresse di una certa società, che non esprime come dovrebbe alcuna reazione di sdegno, sentiamo giustificare le violenze sulla popolazione civile subite in Venezia-Giulia e Dalmazia, poiché considerate come azioni di guerra, alla stessa stregua di quelle condotte dall’Esercito Italiano. Ma se così è, allora, perché trucidare, annegare, deportare anche dopo la guerra?
Anche negli anni ’46, ‘47’, ’48, ’49 e per la prima metà degli anni ’50? Perché farlo a guerra finita?
Nonostante le evidenze che certificano la verità storica non otteniamo risposta a questa domanda, se non una brutale forzatura
della realtà.
Ma il giustificazionismo non è l’unica realtà con la quale la nostra gente si trova a dover confrontarsi. A distanza di sett’anni, siamo
ancora alle prese con un’infinita battaglia per il rispetto di diritti umani ancora in attesa di essere ristabiliti.
Non possiamo negare che molto sia stato fatto e che una certa maggior attenzione dello Stato nei confronti delle pendenze aperte, sia stata manifestata, ma la strada è ancora lunga ed a volte sembra quasi di essere in relazione con funzionari ostili, affetti da
pregiudizi, non edotti sulla storia né sui trattati e le leggi e, peggio, indifferenti per il debito con noi ancora aperto.
I punti dei quali parliamo sono:
Il risarcimento definitivo dei nostri Beni Abbandonati, utilizzati dallo Stato per pagare il suo debito di guerra con la ex-Jugoslavia in violazione di quanto stipulato nei Trattati internazionali.
La consegna della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla città di Zara, la città italiana bombardata 51 volte dall’aviazione Alleata
e con il maggior numero di vittime civili nella popolazione. Medaglia assegnata dal presidente Ciampi ma mai consegnata.
L’attuazione completa del Trattato di Osimo.
L’inserimento dell’argomento Trattato di Pace del 1947 nei piani formativi della Pubblica Istruzione.
La definitiva risoluzione dei problemi anagrafici che vedono, a volte, configurare una nostra persona nata in un Comune che fu
italiano come extracomunitario.
Le onoranze ai caduti, ovvero la possibilità di tirare fuori dai luoghi dove furono assassinati i resti di chi è ancora rimasto senza degna sepoltura o, per lo meno, la possibilità di onorare quei luoghi (impedita, di fatto, ancora oggi) indicandoli con lapidi multilingue.
La proroga del periodo temporale che assegna le onorificenze ai congiunti degli infoibati al fine di estendere l’orologio delle stragi che si ferma al 1950.
La cancellazione della tassa per gli immobili acquisiti all’estero per la nostra gente che dopo una vita di sacrifici ricomprano il
bene espropriato all’epoca.
Ed infine l’attuazione, con minori vincoli burocratici, della legge 72 del 2001 che tutela il patrimonio storico e culturale delle
comunità degli Esuli dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
La cultura non è l’eco di alcun nazionalismo ma rispecchia l’elemento stabile dell’esistenza umana e del suo sviluppo. Per noi
la cultura è l’elemento che consente la conservazione dell’identità, salvaguardandola nonostante la dispersione.
Per questo la legge 72/2001 è cruciale nel delicato ecosistema che si estende a cavallo tra le due sponde dell’Adriatico.
Ebbene, oggi, febbraio 2018, siamo in attesa dei fondi del 2013!
È proprio questo il tipo di negligenza che il popolo dell’Esodo attribuisce alla classe politica ed alla burocrazia.
Se da un lato manifestiamo soddisfazione per l’attenzione che alcuni organi dello Stato centrale ci riservano (come nel caso del
Ministero degli Affari Esteri, dei Beni Culturali, dell’Istruzione, della Difesa), dall’altro evidenziamo ancora ostilità, pregiudizio
ed indifferenza.
Noi crediamo che questi atteggiamenti, che le Istituzioni non si possono permettere nei nostri confronti, siano gli strascichi della
coltre di silenzio e di menzogna con la quale si è negata per anni la nostra storia.
La Memoria è uno degli elementi costitutivi di una civiltà laica, evoluta, civile, aperta al senso religioso, fermarsi soltanto al
Ricordo trasforma questa giornata in sterile rimpianto del tempo che fu.
Il Giorno del Ricordo non è un punto di arrivo, ma di partenza. Da bravi e tenaci eredi di una civiltà nobile, colta, aperta e briosa, ci
rimbocchiamo le maniche e ricostruiamo, giorno dopo giorno, la nostra appartenenza viscerale ad una Terra, la nostra stessa
identità.