Italiani di Dalmazia: dall’unità d’Italia alla disintegrazione della Jugoslavia
Affrontare la questione della Dalmazia nelle relazioni italo-jugoslave, e in genere laquestione adriatica, è obbligo civile nella ricorrenza del «Giorno del ricordo del 10 febbraio». Farlo significa, però, cimentarsi con quello che è forse il campo d’indagine più controverso e spinoso posto all’attenzione dello storico della politica estera italiana. Infatti, significa porsi costantemente la domanda su quanto sia stata imperialista, nazionalista ed espansionista quella politica dopo l’unità e fino al 1943, non nascondendosi anche che tracce di tale imperialismo siano continuate a sopravvivere nel secondo dopoguerra.
Luciano Monzali, tuttavia, non elude la sfida e, con il suo saggio (“Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento”, Marsilio Eitore), fornisce agli studiosi e agli appassionati di storia un quadro esaustivo del tema dalmata nella politica estera italiana dal 1861 sino alla fine del Novecento. Il suo volume insegna anche che, pur analizzando una questione appunto spinosissima, dove le passioni, i sentimenti e il “patriottismo” possono sempre prevalere, è possibile mantenere da parte del vero storico una posizione obiettiva, volta a capire i fatti e i protagonisti delle vicende che si vuol raccontare.
È noto che la Dalmazia rappresentò per una nazione giovane come l’Italia unita – che si reputava darwinianamente in ascesa nel novero delle grandi potenze e che era sorta, come ha ben spiegato Federico Chabod, con il mito dell’antica grandezza di Roma da rinnovare – l’occasione per costruire uno Stato ancor «più grande» di quello che si era potuto edificare con il Risorgimento. L’Italia, infatti, avrebbe voluto incorporare al suo interno non solo le regioni di confine, a nord e nord-est, che non si erano potute riunire alla patria entro il 1861 e dove era netta la prevalenza della popolazione di lingua ed etnia italiana, ma anche quelle, al di là dell’Adriatico, dove vi erano importanti nuclei di gente italiana e dove, quindi, la lingua e la cultura italiane ricordavano la passata dominazione di Roma o di Venezia.
Naturalmente, è evidente che in un simile progetto espansionista le sfumature fossero molte e molto importanti. Infatti, non tutti gli statisti dell’Italia liberale avrebbero voluto ingrandire il Paese oltre quelli che erano i suoi confini basati su incontrovertibili linee etniche e geografiche. Perfino alcuni esponenti del fascismo, non a caso, si sarebbero ritratti davanti all’idea che fosse possibile annettere all’Italia tutte le isole, il litorale e l’intero retroterra dalmata. Tuttavia, la Dalmazia costituì, tra il 1861 e il 1941, una costante tentazione: l’argomento sul quale molti si cimentarono, in Dalmazia stessa e soprattutto nella Penisola, al fine di capire se, circostanze permettendo, potesse essere riunita o almeno collegata in maniera più stretta e stabile all’Italia una regione dove l’«italianità» era presente e visibile sotto tante e importanti forme.
D’altronde, la Dalmazia, pur trovandosi appunto fuori dai confini etnici e geografici della Penisola, annoverava nelle sue principali città costiere e in alcune isole consistenti nuclei di popolazione italiana. Gli «italiani di Dalmazia» si distinguevano dalla popolazione slava – a sua volta di gran lunga maggioritaria nei sobborghi delle città e in genere nelle campagne – come una élite culturale, politica ed economica, che si inseriva in un paesaggio dove i monumenti, l’architettura e le infrastrutture ricordavano l’impero di Roma o la civiltà marinara di Venezia. Che fare allora di quella terra? Come si sarebbe dovuto comportare il governo italiano in rapporto a una regione in cui era presente tanta «italianità», ma che si era venuta a trovare, tra il 1861 e il 1918, sotto la sovranità dell’impero degli Asburgo e poi, dal 1919, sotto quella della Jugoslavia monarchica, divenuta infine, dal 1945, Jugoslavia titina e comunista?
Monzali spiega benissimo la «tentazione» costituita dalla Dalmazia, i progetti e le riflessioni, pur con tutte le loro sfumature e distinguo come detto, che si rincorsero nella Penisola e in Dalmazia stessa al fine di sciogliere l’interrogativo: «che fare?». Nel libro vi è quindi tutta la storia di una questione che ebbe come sue tappe fondamentali il 1915 (patto di Londra), il 1918-1919 (la vittoria italiana nella Grande Guerra e le tribolazioni sperimentate dalla diplomazia italiana al tavolo della pace sul tema dalmata e adriatico), il 1920 (trattato di Rapallo), il 1941 (l’attacco nazifascista alla Jugoslavia) e il 1943-1945 (la fine di ogni ambizione di sovranità dell’Italia sulla Dalmazia e, per contrappasso, l’inizio da parte della Jugoslavia comunista della cancellazione di qualsiasi forma di «italianità» oltre Adriatico).
Si comprende così lo sviluppo di una politica che non sarebbe potuta sboccare che ove sboccò. In altre parole, i progetti di dominio che fino al 1914 erano stati visti a volte come sogni impossibili e anche controproducenti, a volte come mere elucubrazioni di personaggi ultranazionalisti e imperialisti, ma a volte anche come giustificabili alla luce di un preteso principio di nazionalità e soprattutto alla luce del ruolo dell’Italia quale grande potenza, chiamata a procurarsi una sicurezza militare assoluta in Adriatico, sembrarono concretizzarsi dapprima con Sonnino e poi, per pochissimi mesi durante la Seconda guerra mondiale, con Mussolini, ma ebbero la loro fine con la sconfitta italiana e, quindi, con il ritorno della Dalmazia al suo legittimo proprietario, la Jugoslavia comunista e, a maggior ragione, dopo il 1991, la Croazia.
Tuttavia, Monzali non vuole accontentarsi di spiegare con dovizia di particolari, unita a un’ottima capacità di sintesi, questa sequenza di eventi. Per lui, la questione della Dalmazia diviene piuttosto l’occasione per capire perché essa fu sprecata da tutti i governi che vi si trovarono coinvolti: il governo di Roma, quello di Belgrado, quelli delle grandi potenze nel 1919 e nel 1945-47. In questo senso, la Dalmazia e i suoi abitanti, in primo luogo l’élite italiana, divennero le vittime del tragico XX secolo, dell’epoca dell’imperialismo, dell’ultranazionalismo, delle ideologie, delle guerre senza quartiere. Infatti, l’unica soluzione giusta per una terra dove si incrociavano e mescolavano da secoli etnie, lingue, culture, sarebbe dovuta essere quella volta a farne un «ponte» tra i popoli e le nazioni gravitanti sull’Adriatico.
In altre parole, se anche la Jugoslavia, monarchica o comunista, e la Croazia post-1991, poterono e possono reputarsi gli Stati maggiormente titolati ad avere la sovranità sulla Dalmazia, in quanto la maggioranza della sua popolazione è indubbiamente di etnia slava, essi, però, avrebbero dovuto ritenere come opportuna l’autolimitazione nell’esercizio di tale sovranità, non pretendendo la snazionalizzazione o peggio la scomparsa degli «italiani di Dalmazia». A sua volta, anche l’Italia avrebbe dovuto accettare il progetto racchiudibile nell’espressione «fare della Dalmazia un ponte». L’Italia avrebbe dovuto cioè limitarsi a utilizzare il suo peso politico, diplomatico ed economico – molto grande, probabilmente il principale, nell’area dell’Adriatico – per ergersi a Stato «protettore», dall’esterno, di una comunità, quale quella degli «italiani di Dalmazia», molto avanzata culturalmente e a livello sociale. Se si fosse fermata a questo, l’Italia, forse, avrebbe evitato tutte le tragedie a cui andò incontro la Dalmazia e avrebbe risparmiato agli italiani di Dalmazia di dover fuggire infine dalla loro terra.
Viste le cose sotto quest’ottica – e ci sembra che Monzali le veda in questo modo – la soluzione che più si avvicinò al punto ottimale fu forse quella escogitata da Giolitti e Sforza nel 1920, con il trattato di Rapallo. In un’epoca, infatti, quella tra le due guerre mondiali, ancora segnata da forti nazionalismi e imperialismi, quei due statisti mostrarono una relativa moderazione al tavolo negoziale con la Jugoslavia, accontentandosi della richiesta dell’annessione della sola Zara, la città più italiana tra quelle dalmate, e della supervisione di Roma sulla vita degli altri nuclei italiani ricadenti sotto la sovranità jugoslava. Ma se Sonnino, tra il 1915 e il 1919, e Mussolini tra il 1941 e il 1943, in maniera non più rimediabile, non furono capaci di tali compromessi e moderazione, non meno accorti di loro si rivelarono tutti quegli statisti serbi e croati, in particolare durante l’era comunista, che non seppero vedere la bontà e la necessità, per la storia stessa e il progresso della Dalmazia, di preservarne il volto «italiano».
In ogni caso, la lungimiranza o le corte vedute, l’apertura o la chiusura verso le ragioni degli altri, non furono appannaggio solo dei principali statisti chiamati a confrontarsi con la questione dalmata. Monzali, difatti, illustra anche le posizioni tenute da politici di secondo livello, diplomatici, amministratori, giornalisti, economisti, imprenditori, al di qua e al di là dell’Adriatico. Pertanto, il suo libro non si presenta solo come un saggio di storia politico-diplomatica, ma anche di storia sociale e culturale Così, esso acquista pure il pregio di far conoscere al lettore personaggi, tra cui alcuni anche noti al grande pubblico, e che però pochi avrebbero saputo identificare come «italiani di Dalmazia». Sempre il lettore – ma pensiamo che questo fosse proprio l’obiettivo di Monzali – si ritrova comunque infine con l’amaro in bocca, riflettendo sull’occasione sprecata: sul «ponte dalmata» non realizzatosi e, anzi, trasformatosi in tragedia per migliaia di persone. La sola speranza che lascia il libro è che l’Unione Europea, integrando sempre più strettamente al suo interno le nazioni nate dalla dissoluzione della Jugoslavia, possa ricreare uno spazio condiviso in Adriatico, dove non sia più un tabù ricordare e «vivere» la Dalmazia come una terra nella quale, fino a non molto tempo fa, risiedevano tanti italiani con tutte le loro peculiarità.
di GianPaolo Ferraioli
Fonte: Corriere della Sera – rubrica “La nostra storia” di Dino Messina.