“La bambina con la valigia”, storia di Egea Haffner
“È iniziato così per me ed Egea un lungo viaggio, emozionante e travolgente, che ci ha portato a conoscerci e a diventare amiche […] Ci vuole coraggio, per raccontare un momento storico che è ancora oggetto di feroci discussioni. Ci vuole fiducia, per aprire lo scrigno dei ricordi familiari e condividerli con i giovani lettori. Ci vuole uno sguardo attento al passato, ma proiettato fermamente nel futuro. Ci vogliono senso, energia, emozione. Ci vuole Egea Haffner”. Le parole della scrittrice Gigliola Alvisi, contenute nella prefazione de La bambina con la valigia, da pochi giorni in libreria (Piemme), svelano la genesi del progetto: scrivere e pubblicare il primo libro per ragazzi e ragazze dedicato alla memoria delle vittime delle foibe e all’esodo giuliano dalmata nel secondo dopoguerra, scegliere una storia privata per poterne raccontare una collettiva perché nella memoria di una famiglia si possono ritrovare altre esistenze, così accade per un evento storico ancora al centro di accesi dibattiti.
“Un esule, così come un profugo, non è un emigrante – scrive Alvisi -. Emigra chi parte per un altrove dove spera di trovare un lavoro e una vita migliore. Emigra chi sa che la sua famiglia, la sua casa e il suo Paese restano lì ad aspettarlo. Emigra chi può tornare, quando sarà in grado di esibire orgoglioso la sua nuova condizione. Un esule, invece, parte per sempre, consapevole che il suo passato verrà fagocitato da un mondo diverso: se mai tornerà, sarà uno straniero, un malinconico turista dai ricordi che non coincideranno con la nuova geografia. Un emigrante ha una meta, un esule ha solo un passato”.
Una fotografia in bianco e nero ritrae una bambina che tiene tra le mani un ombrello e una valigia: è il 6 luglio 1946 e quella bambina, che non ha ancora compiuto cinque anni, sta lasciando Pola per iniziare il suo viaggio da esule dopo aver perso il padre un anno prima, nel maggio del 1945, prelevato a casa da tre titini e, da quel momento, scomparso nel nulla, probabilmente inghiottito nel buio delle voragini carsiche. “Come mio padre, furono molte le persone prelevate dai titini e scomparse nel nulla. Come noi, furono molte le famiglie che non ebbero diritto alla verità – racconta Egea nel libro – Il numero preciso di quelle tombe mancate non fu mai calcolato. Ma anche quello delle vittime recuperate dalle circa cinquanta foibe individuate non è mai stato ufficializzato: qualche storico parla di 3000, qualcun altro di 4000, o forse di 5000 persone. Tante, troppe. Per i titini tutti gli italiani erano fascisti, anche se spesso quelli che gettarono nelle foibe erano semplici cittadini e perfino partigiani antifascisti che avevano combattuto contro i tedeschi. L’unica loro colpa era di essere italiani”.
L’immagine di quella bambina diventerà un’icona, il simbolo dell’esodo giuliano dalmata: il suo nome è Egea Haffner ed è la protagonista di questa storia.
“Nel giardino di villa Rodinis trovammo ad aspettarci Giacomo Szentiványi, il fotografo di famiglia, e lo zio Alfonso: avevano allestito un improvvisato set fotografico con un ombrello e una piccola valigia. A quel bagaglio simbolico lo zio aveva incollato un foglio di carta con la scritta ESULE GIULIANA N° 30001. Il numero si riferiva agli italiani in quel momento residenti a Pola”.
L’incontro tra Egea Haffner e Gigliola Alvisi è raccontato nella prefazione, ma come si è sviluppato il successivo lavoro di ascolto ed elaborazione della testimonianza? “Entrare nella storia di Egea si è rivelato per me un viaggio, un viaggio alla scoperta di un pezzo della storia italiana che non conoscevo, perché nascosto e non ancora indagato se non dagli storici di settore. Ma questa è una storia che deve essere raccontata, soprattutto ai ragazzi […] La lettura di quel periodo ci permette di capire cosa significhi ancora oggi essere profughi in qualsiasi parte del mondo”.
Scegliere una vicenda privata per fare luce su un evento collettivo di cui si sa ancora poco: “La storia non è solo quella che si studia sui libri, è anche fatta di piccole storie. E quando ci avviciniamo con l’emozione anche a una sola di queste piccole storie riusciamo a comprendere e a fare nostro l’intero scenario”.
Quando si racconta un evento storico drammatico come questo a dei lettori giovani quale linguaggio bisogna usare, è necessario prendere le distanze, restare un passo indietro o, ancora, praticare qualche censura?
“Si deve lavorare con rispetto. Non è necessario premere sull’acceleratore del dramma e dell’emotività, è bene fare un passo indietro. Nel libro, per esempio, noi abbiamo scelto di non inserire la testimonianza di un sopravvissuto, di un infoibato che riuscì a salvarsi. Una storia terribile che però non era necessario raccontare, perché dovevamo restare sulla storia di Egea. Abbiamo cercato di salvare la sua storia proprio come se fosse un diario, evitando di inserire altre vicende. Per quanto mi riguarda, dunque, ho cercato sempre di stare un passo indietro, fornendo tutti gli elementi utili per poter valutare, ma lasciando ai ragazzi la possibilità di farsi la propria idea sull’argomento”.
Francesca Boccaletto
Fonte: Il Bo Live – 10/02/2022