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November 21st, 2024
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La comunità ebraica nella storia del confine orientale

Nel 1848, mentre in tutta Europa imperversava la “Primavera dei popoli”, la città di Trieste rimase quasi inerte. Quasi, perché, in solidarietà con i moti veneziani che portarono in auge la Repubblica di San Marco, nel più importante porto dell’Impero degli Asburgo una porzione della comunità italiana scese in piazza, ma la maggioranza della cittadinanza si mantenne neutrale ed il lealismo nei confronti di Vienna meritò alla città la qualifica di “Urbs fidelissima”. A fronte di questa delusione il giovane Giacomo Venezian, animatore dei patrioti triestini, raggiunse la Repubblica romana e morì nella sua difesa, inaugurando una sequenza che avrebbe condotto numerosi triestini ad esfiltrare per combattere nelle Guerre d’Indipendenza e nelle spedizioni garibaldine. Venezian, inoltre, proveniva dalla prospera comunità ebraica locale, la quale, soprattutto dopo aver visto le ampie libertà in materia religiosa che lo Statuto albertino concedeva, sposò convintamente la causa dell’italianità.

Altro illustre esempio di tale partecipazione è quello di Graziadio Isaia Ascoli, glottologo della comunità israelita goriziana, al quale si deve il fortunato conio nel 1863 dei termini Venezia Giulia, con il quale veniva indicata la regione ancora asburgica abitata prevalentemente da italofoni e racchiusa fra il Mare Adriatico e le Alpi Giulie (Gorizia, Trieste e Istria), Venezia Euganea e Venezia Tridentina, rimaste parimenti escluse dalle annessioni della Seconda guerra d’indipendenza e oggetto delle mire del neonato Regno d’Italia.

Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli appartenenti alle elités ebraica e italiana di Trieste si trovavano ancor più solidali nel desiderio di emancipazione dall’Austria-Ungheria. Gli uni in quanto osservavano con preoccupazione il consenso che aveva raccolto il Borgomastro di Vienna Karl Lueger, le cui politiche antisemite e generalmente sprezzanti nei confronti delle comunità non tedesche dell’Impero austro-ungarico destarono l’ammirazione fra i tanti di un giovane Adolf Hitler, gli altri poiché la politica filoslava di influenti circoli viennesi in funzione anti-italiana era ormai irreversibile. Eugenio Morpurgo, Eugenio Vivante, Teodoro Mayer e Giacomo Venezian (discendente dell’omonimo patriota, tra i fondatori della Società Dante Alighieri e caduto sul fronte carsico) furono gli intellettuali che meglio espressero l’adesione della comunità ebraica triestina alla lotta irredentista.

Gli esiti vittoriosi per l’Italia della Grande guerra destarono nelle province annesse iniziale entusiasmo e la stessa ascesa del fascismo, che si proponeva come sublimazione dell’italianità, suscitò tra gli ex irredentisti particolare sconcerto solamente nelle frange repubblicane e mazziniane. La proclamazione delle leggi razziali da parte di Mussolini proprio a Trieste in occasione di un viaggio sui luoghi della Grande guerra, ricorrendo il ventennale della vittoria, culminato con l’inaugurazione del Sacrario militare di Redipuglia, destò perciò un trauma nella componente ebraica giuliana, la quale si riteneva ormai partecipe della comunità nazionale italiana e non si era associata al flusso di ebrei che sulle navi del Lloyd Triestino salpavano alla volta della Palestina, infervorati dal progetto sionista e minacciati dalle politiche antisemite nazionalsocialiste.

Si trattò di un duro colpo nei confronti di esponenti della comunità ebraica italiana in generale, ma triestina in particolare, che avevano completato un percorso di assimilazione caratterizzato dall’adesione appassionata al percorso risorgimentale e perfino al regime fascista, visto come tappa finale del trionfo di quell’italianità in cui si erano identificati. Le cose sarebbero andate sicuramente peggio allorché l’8 settembre 1943 avvenne l’eclissi del Regno d’Italia sostituito dall’ingombrante presenza dell’esercito germanico e delle SS a supporto della nascente Repubblica Sociale Italiana. In particolare le province di Udine, Gorizia, Lubiana (annessa in regime di autonomia nel 1941), Trieste, Pola e Fiume entrarono a far parte della Zona di Operazioni Litorale Adriatico, in cui le prerogative della RSI erano puramente formali e di fatto si trattava di un governatorato militare facente capo all’Alto Commissario Friedrich Rainer, Gauleiter della Carinzia.

Rastrellamenti, perquisizioni ed arresti ridussero ai minimi termini le comunità ebraiche di Trieste, Gorizia e Fiume, radicate da secoli ed avviate ai campi di concentramento transitando attraverso la Risiera di San Sabba. Si trattava di una vecchia pileria del riso requisita dalle truppe tedesche giunte in città dopo la proclamazione dell’Armistizio che era stata adibita in prima battuta a campo di internamento per i soldati italiani fatti prigionieri in seguito allo sbandamento politico, militare ed istituzionale dell’8 settembre. Successivamente diventò un campo di prigionia in cui vennero detenuti in condizioni disumane partigiani, antifascisti ed intere famiglie ebraiche in attesa di essere avviati verso Dachau, Auschwitz e Mauthausen nell’ambito dello sterminio di 6 milioni di ebrei di tutta Europa. Il Vescovo di Trieste Antonio Santin cercò spesso di intercedere per molti dei prigionieri di questo campo, riuscendo ad esempio a far liberare l’ex volontario irredentista Giani Stuparich con la sua famiglia (sua moglie apparteneva alla comunità ebraica), ma non sempre riuscì ad ottenere la scarcerazione di ebrei che avevano contratto matrimonio con coniugi cattolici.

Punto di riferimento in Italia per l’arcipelago concentrazionario nazionalsocialista, la Risiera vide consumarsi tra le sue squallide mura anche durissimi interrogatori accompagnati da torture e violenze che si protraevano spesso sino alla morte del prigioniero. Onde ovviare allo smaltimento di questi cadaveri, l’essiccatoio che serviva per la lavorazione del riso venne convertito in forno crematorio, che fu distrutto dai tedeschi con la dinamite nella notte tra il 29 ed il 30 aprile 1945, alla vigilia dell’insurrezione del Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste che avrebbe costretto i tedeschi ad asserragliarsi in pochi punti strategici del centro cittadino in attesa di arrendersi ad un esercito regolare. Si calcola che oltre 8.000 persone siano transitate per la Risiera in direzione dei campi di concentramento, mentre la stima delle vittime qui uccise oscilla tra le 3.000 e le 5.000 unità.

Le forze di polizia teutoniche agli ordini di Odilo Lotario Globočnik si avvalsero nel loro spietato lavoro del supporto di collaborazionisti ucraini che erano stati fatti evacuare dalle località di origine causa il tracollo del fronte russo, ma dopo aver accumulato una macabra esperienza in fatto di operazioni di sterminio nell’ambito della devastante Operazione Reinhard. La lotta antipartigiana era altresì condotta secondo i dettami del «Bandenkampf», un manuale di operazioni antiguerriglia redatto sulla base dell’esperienza maturata sul fronte orientale che aveva indotto l’esercito tedesco ad attuare le più dure rappresaglie contro le forze della resistenza ed i loro presunti fiancheggiatori. In queste attività prestarono la loro opera anche gli uomini dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia, istituito nel 1942 allo scopo di fronteggiare la lotta partigiana slovena che dal territorio della provincia di Lubiana andava espandendosi all’interno delle comunità slave triestine e goriziane.

Dichiarata Monumento nazionale nel 1965, la Risiera durante gli anni del Governo Militare Angloamericano che fece seguito alla mancata realizzazione del Territorio Libero di Trieste previsto dal diktat del 10 Febbraio 1947, era stata adattata a Centro Raccolta Profughi a beneficio di una quota delle migliaia di istriani, fiumani e dalmati, che raggiungevano il capoluogo giuliano usufruendo delle opzioni previste dal Trattato di Pace ovvero con mezzi di fortuna e sfidando la sorveglianza armata jugoslava lungo il confine, nonché di dissidenti nei confronti dei regimi che andavano consolidandosi nell’Europa orientale.

Lorenzo Salimbeni