La Croazia ha sdoganato il Giorno del Ricordo
In diplomazia certe volte si procede a passo di lumaca, a differenza della politica, dove tutto – teatro e teatrini – si svolge sotto i riflettori. I piccoli passi contano e certe volte questi portano a risultati positivi e a cambiamenti importanti. Così mi illudo di aver fatto qualche passo avanti anch’io, con il riconoscimento, da parte croata, del “Giorno del ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata”. Infatti, da quando era stato introdotto nel 2004 come un debito di riconoscenza verso la memoria delle migliaia di italiani che rimasero vittime di una violenza cieca e brutale messa dalla Polizia segreta jugoslava e con varie vendette, ispirate all’odio di classe o all’odio nazionale, l’Ambasciatore croato non presenziava alla cerimonia che si teneva in occasione del 10 febbraio, Giorno del ricordo.
Quando ricevetti l’invito per presenziare a questo evento, pochi mesi dopo il mio arrivo a Roma, risposi positivamente al Cerimoniale di Stato che me lo aveva inoltrato. Ma dovetti fare i conti con l’inerzia delle istituzioni: qualcuno della mia Ambasciata, evidentemente, aveva informato Zagabria delle mie intenzioni. E così ricevetti, il giorno prima della cerimonia, un’”istruzione” dal mio Ministero di non andarci. Sorpreso, chiamai il ministro degli Esteri, la mia collega di Università Vesna Pusić, che tentò di dirmi che “i tempi non erano ancora maturi” e che anche lei era sottoposta a un fuoco incrociato e aveva pertanto ceduto, perché le forze nazionaliste erano ancora molto forti nel Ministero e non voleva esporsi a un attacco mediatico. Naturalmente, mi mostrai contrariato e la accusai di opportunismo. E chiamai direttamente il Presidente della Repubblica, che mi diede ragione, ma mi suggerì di aspettare finché questo “tema scottante” non fosse stato “sdoganato” dalla sua imminente visita di Stato. A malincuore accettai questo compromesso e così di comune accordo decidemmo che durante la visita di Stato di Josipović a Roma egli avrebbe reso omaggio alle vittime delle foibe e dell’esodo nel suo discorso durante la cena di Stato al Quirinale. Il Presidente aveva capito bene il mio rammarico per essere stato intralciato nel mio operato dalla struttura burocratica del Ministero degli Esteri. Conosceva bene la mia storia personale e questo stato era anche un argomento, per lui, per scegliere proprio me per andare a Roma. Infatti, gli avevo raccontato che dopo che la mia famiglia materna, italiana, si era unita all’esodo – mia nonna, la bisnonna, un prozio con la sua famiglia, la sorella di mia madre con la sua famiglia e mia cugina – anche mia madre l’anno seguente aveva preso suo figlio, cioè me, e seguito la famiglia in Italia. I tempi erano duri, mio padre era finito in una specie di confino, ai lavori coatti; per fortuna era un ingegnere navale e la sua condanna l’aveva espiata nel cantiere navale di Lussinpiccolo. Ed era stato proprio lui allora che aveva suggerito a mia madre di prendere con sé “il piccolo” e di andarsene. I miei nonni paterni, croati, erano d’accordo, perché anch’essi non vedevano uno spiraglio di luce. Nonostante mio nonno avesse subito la prigionia fascista per aver aiutato un certo numero di ebrei a fuggire imbarcandoli clandestinamente sulle navi dei Paesi neutrali (era un spedizioniere, titolare di una grande ditta, nazionalizzata dopo la guerra), dopo la guerra aveva passato anche lui dei brutti momenti.
E così, mia madre e io finimmo allora nel campo profughi di Vicenza, a dividere la stessa cella – un box formato da coperte militari inchiodate su delle assi di legno – nel casermone dei carabinieri dirimpetto alla stazione ferroviaria. Io, piccolo e inconsapevole, non avevo niente da ridire, perché giocavo con la “mularia” e ogni tanto ricevevamo anche del cioccolato e caramelle dai vari attivisti di partito, monarchici e missini, che facevano la loro propaganda tra i profughi. Dopo un paio di mesi, visto che le promesse di essere sistemati e avviati a vita normale non si realizzavano, e dopo aver ricevuto la notizia che mio padre era stato amnistiato, mia madre decise di tornare a Fiume.
E così conoscevo bene la vita dei profughi – mia nonna e la bisnonna con le quali dividevamo la squallida cella (noi quattro dormivamo su due giacigli improvvisati) rimasero ancora due anni in quello squallore – proprio per esperienza personale. E invece, da parte paterna c’erano vittime di altro tipo: un prozio fucilato dai fascisti per aver fatto parte di un’organizzazione clandestina, la TIGR (irredentisti croati e sloveni), e un altro mio prozio, studente, fucilato come ostaggio durante l’occupazione italiana.
E così, dopo la visita di Josipović a Roma, con il suo placet, io presenziai l’anno successivo alla celebrazione del Giorno del ricordo. Con tutto il bagaglio della mia storia familiare, di vittime del fascismo da una parte, e di vittime del comunismo jugoslavo dall’altra, che con i suoi atti brutali aveva inquinato anche la resistenza antifascista, dietro la quale si celava il trionfalismo crudele dei vincitori.
E da allora, anche il mio successore a Roma prende parte alla cerimonia del Giorno del ricordo. E speriamo che un giorno i due Presidenti, di Croazia e Italia, possano ripetere il gesto di Mattarella e Pahor: la visita, congiunta, a una foiba dell’Istria e al campo di concentramento italiano di Arbe, come simboli di un tempo disumano e di una storia da non ripetere.
Damir Grubiša – 02/10/2021
Fonte: La Voce del Popolo