La ferrovia e lo sviluppo del Porto Vecchio di Trieste
Le salve dei cannoni delle navi ancorate nella rada di Trieste rimbombano nella Piazza del Macello, oggi Piazza Libertà. Una variegata folla di operai dalla periferia, borghesi dal centro cittadino e contadini dal Carso affollano le arcate della nuova Stazione ferroviaria.
Il vociare del popolino serpeggia nell’aria, scintilla di anticipazione e fermento. Quando le lancette degli orologi da taschino che ticchettano nelle tasche dei borghesi in attesa segnano le 10.30, un fischio penetra nell’aria, seguito dall’aleggiare di un fumaiolo e dall’ansito vaporoso di un treno in arrivo.
È il primo, storico, convoglio che viaggi sulla Ferrovia Vienna-Trieste. L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, accompagnato dall’imperatrice Elisabetta, scende dal treno tra le ovazioni della folla. Tra i vagoni del seguito, altrettanto omaggiato dai notabili e dai colleghi, discende le scalette l’ingegnere Carlo Ghega, fresco della nomina di Baronetto per l'(impossibile) costruzione della Ferrovia del Simmering. Il profilo albanese del cittadino austriaco che aveva lavorato in Veneto si volta a guardare il treno ormai fermo sui binari dell’ultimo tratto Lubiana-Trieste. Il suo volto, trasfigurato nel marmo, ancora resiste nel busto abbandonato in un angolo dell’attuale Stazione ferroviaria. Nello stesso 27 luglio 1857 di oltre 160 anni addietro Trieste festeggiava l’inaugurazione dell’acquedotto di Aurisina e l’accensione dei lumi a gas di via del Torrente, oggi via Carducci.
Si tratta oggigiorno di un anniversario dimenticato, se non dagli studioso di treni e ferrovie; eppure sotto il profilo puramente tecnico l’arrivo del primo treno diretto con Vienna fu l’evento che maggiormente condizionò la storia della città durante l’ottocento.
Le stime, a seguito del completamento della ferrovia Vienna-Trieste, prevedevano un traffico annuo di 200mila tonnellate; nel 1865, a meno di dieci anni dalla realizzazione della Ferrovia Meridionale e prima dell’apertura del canale di Suez, il volume aveva raggiunto il milione di tonnellate all’anno. I 577 chilometri della Meridionale, pur con l’oppressivo regime di monopolio della Südbahn, avevano portato un diluvio di merci, tali da imporre la creazione non di nuovi magazzini, ma di un quartiere portuale vero e proprio.
Un waterfront con magazzini e palazzine dell’amministrazione, industrie ed edifici di servizio, centrali energetiche e centraline elettriche. Una città nella città, innervata da una rete di 40 chilometri di binari e piazzole, connessi al cuore “pulsante” della Stazione ferroviaria.
I più lo chiamano il Porto Vecchio, altri “Punto Franco Nuovo”, altri ancora con originale crasi “Punto Franco Vecchio”. In realtà nell’ottocento era noto come Porto Nuovo e successivamente Porto Commerciale di transito. Una silloge che denunciava bene il carattere di assoluta novità della nuova zona portuale, la quale andava a costituirsi come uno scalo moderno, simile a Marsiglia, Amburgo e i grandi porti europei.
Nella prima metà dell’ottocento i porti conobbero infatti una rivoluzione copernicana connessa alle invenzioni dell’era industriale. Le navi si convertirono al motore a vapore e sostituirono gli scafi in legno con quelli di ferro, tagliando drasticamente i tempi di viaggio e i costi per le merci nelle stive. Conseguentemente materiali “umili” come legna e granaglie, in precedenza “snobbati” dalle navi, divennero improvvisamente di interesse commerciale, centuplicando l’interscambio globale, in sintonia verso l’ultimo quarto dell’ottocento con la corsa coloniale. Il porto pertanto non era più solo quel luogo dove ormeggiare le navi a vela e depositare le merci per l’emporio o le fiere itineranti, ma lo snodo chiave di un sistema di trasporti dove velocità ed efficienza dominavano incontrastati. Le maggiori dimensioni degli scafi favorivano dragaggi e fondali profondi, tornando a vantaggio di Trieste; la continua movimentazione delle merci richiedeva, a sua volta, gru a vapore e successivamente idrauliche, in grado di rilocare con rapidità le merci dalle navi; la stessa necessità di spostare i prodotti laddove fosse più conveniente venderli/acquistarli richiedeva una vicinanza immediata alla ferrovia.
È il paradigma del porto moderno, incentrato sulle operazioni di carico/scarico che Trieste ora cerca di differenziare, ad esempio tramite l’attività industriale (BAT) o scientifico-tecnica (Saipem). Le costruzioni del porto moderno richiedevano allora opere di difesa dalle mareggiate (la diga foranea, sul modello di Marsiglia); un sistema di sollevamento merci (le gru idrauliche della Centrale Idrodinamica); impianti ferroviari (tutt’oggi il Porto Vecchio conserva un’officina di inizio Novecento per la riparazione delle locomotive locali).
La fase progettuale iniziò nel giugno 1861, quando l’ingegnere Paulin Talabot, incaricato dalla Meridionale, presentò una prima proposta per il nuovo porto a Francesco Giuseppe. L’ingegnere era già noto in ambito portuale per aver rivoluzionato, con i fratelli Jules e Léon, e con l’ingegnere capo per le costruzioni marittime e opere stradali di Marsiglia H. Pascal, il porto marsigliese. Occorre notare a questo proposito che Marsiglia era porto franco dal 1669, tanto quanto Trieste e Fiume. Dopo una serie di modifiche proposte dal Podestà e dal presidente della Camera di Commercio, Talabot formulò nel 1862 un nuovo piano (Das Triester Hafen Project), il quale modificato dal collega Pascal venne adottato dalla Hafencommission imperiale il 27 gennaio 1865.
Il progetto approvato coinvolgeva la rada di nord est, dal Lazzaretto di Santa Teresa al Molo del Sale, con la costruzione di 4 moli paralleli e uno obliquo, protetti da una diga foranea con scogliera esterna, posta quest’ultima parallelamente alla linea di banchina. I lavori richiesero dapprima di interrare il Lazzaretto Nuovo, per poi procedere all’edificazione delle nuove strutture. I lavori, affidati alla Compagnia delle ferrovie Meridionali, avrebbero dovuto terminare nel 1873, ma i lavori si protrassero fino al 1891, a causa delle cattive condizioni del terreno, con continue opere di dragaggio e sistemazione.
Il Porto funzionò a segmenti: non appena un’area veniva ultimata, questa entrava a far parte dell’ecosistema portuale, utilizzando sin da subito i metri quadrati (e i magazzini) a disposizione.
I lavori per la diga sul modello marsigliese terminarono nel 1875 e tra il 1883 e il 1884 un primo nucleo di edifici fu completato e posto in attività (5, 8, 11, 12/a, 13a, 14). I lavori per i moli 0-I-II terminarono con la diga foranea nel 1875, il molo III nel 1879 e il molo IV appena nel 1887 (!).
Il 10 aprile 1880 nacque l’Ente Portuale, per volontà del Comune di Trieste e della Camera di Commercio, destinato a gestire l’attività portuale. Il nome completo era significativo del ruolo svolto: Oeffentliche Lagerhauser (Pubblici Magazzini Generali). L’abolizione del privilegio di Porto Franco di Trieste portò poi, dal 1891, a recintare il Porto nuovo con funzione di “zona franca”. Risalgono allo stesso periodo la maggioranza dei magazzini di grandi dimensioni, edificati con le più avanzate tecniche ingegneristiche dell’epoca, specie nell’uso della terra di Santorini, delle colonne di ghisa e del cemento armato. Paradossalmente già nel 1902, quando il Porto era finalmente operativo, iniziavano i lavori per il porto Francesco Giuseppe a S. Andrea.
Ma era alla fin fine un segnale positivo: i traffici crescevano, le merci affluivano e la città cercava nuovi spazi per un flusso logistico all’epoca dirompente.
Zeno Saracino – 23/10/2021
Fonte: TriesteNews