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Flashpoint Trieste Copertina

La Guerra Fredda al Confine orientale

Ufficiali dell’esercito indiano e neozelandese, agenti dei servizi segreti britannici e statunitensi, gerarchi nazionalsocialisti e comandanti partigiani jugoslavi intrecciano le loro vicende attorno a Trieste, città contesa fra angloamericani e “titini” nelle pagine di “Flashpoint Trieste. La prima battaglia della Guerra Fredda” (Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2017) dello storico e giornalista Christian Jennings.

La spinta finale delle armate alleate che hanno risalito lo stivale dall’estate ’43 in poi è dovuta non tanto al desiderio di favorire la cobelligerante Italia nella salvaguardia di quello che era il suo confine con la Jugoslavia, bensì alla necessità di assicurarsi il porto di Trieste ed i suoi collegamenti con l’Austria, al fine di garantire i rifornimenti per le truppe che saranno impegnate nella “denazificazione” dello Stato mitteleuropeo. I piani dei comandanti devono però fare i conti con la declinante combattività dei subordinati, i quali nelle ultime giornate di aprile 1945 hanno visto capitolare le truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana, ritengono conclusa la loro guerra e sperano solamente di tornare a casa (molti di loro hanno alle spalle anche la campagna dell’Africa settentrionale).

Ben più motivato appare l’altro concorrente in quella che fu “la corsa per Trieste”, vale a dire l’esercito di Tito. Intonando il grido di battaglia “Trst je naš” (“Trieste è nostra”), le formazioni partigiane nazionalcomuniste puntano lo scalo adriatico e vi giungono il primo maggio 1945 con alcune ore di anticipo rispetto alle avanguardie angloamericane. Cominciano così i Quaranta giorni di terrore e di massacri a Trieste, che vengono macabramente descritti, così come in precedenza sono state correttamente poste in evidenza tanto le stragi della prima ondata di uccisioni di massa nelle foibe (successiva all’8 settembre) quanto le crudeltà commesse nel campo di internamento della Risiera di San Sabba dai comandanti tedeschi della Zona di Operazioni Litorale Adriatico con il loro seguito di collaborazionisti ucraini, già protagonisti della Soluzione finale sul fronte orientale.

La definizione della linea Morgan il 9 giugno 1945 porrà Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola sotto Governo Militare Angloamericano nella cosiddetta Zona A, mentre la B (resto dell’entroterra triestino, goriziano ed istriano) ricadde sotto la giurisdizione militare jugoslava: in quest’ultimo ambito la persecuzione nei confronti degli italiani sarebbe proseguita ad opera della polizia segreta OZNA. Durante la Conferenza di pace, inoltre, sarebbe avvenuto secondo Jennings uno degli episodi che avrebbero portato allo strappo fra Stalin e Tito, poiché il Cremlino, temendo di dover cedere qualcosa con riferimento alle proprie istanze come contropartita, non perorò fino in fondo la richiesta jugoslava di annettere Trieste alla nascente Repubblica Federale.

Molto spazio nell’opera lo occupa quindi Tito, dipinto come un personaggio scaltro, deciso e cinico, capace di accreditarsi agli occhi delle potenze alleate come legittimo successore sul campo del governo in esilio (i partigiani nazionalisti cetnici avevano abbandonato la lotta di resistenza per collaborare con gli occupanti in chiave anticomunista) e ricevendo quindi il tesoro pubblico che era stato portato in salvo dopo la sconfitta dell’aprile 1941. Jozip Broz costruì un’armata partigiana che libererà quasi da sola il territorio nazionale e si spingerà anche al di là dei vecchi confini, mirando ad annettere le porzioni di Austria ed Italia nelle quali insistevano minoranze slave, massacrando in quel frangente le migliaia di collaborazionisti in fuga con le famiglie al seguito e respinti dalle truppe britanniche di presidio in Carinzia.

La tensione attorno al capoluogo giuliano crea del resto i presupposti già nella primavera 1945 per la rottura del fronte antifascista e lo sbocco verso la Guerra fredda; Winston Churchill, prima di venire sconfitto alle urne, rispolvera il suo carattere anticomunista, arrivando a pensare l’impensabile (Operazione Unthinkable appunto): armare 100.000 prigionieri tedeschi con i quali scatenare un nuovo conflitto contro Mosca, ma gli Stati Uniti frenano poiché attendono lo spiegamento dell’Armata Rossa in Estremo Oriente, per attaccare via terra il Giappone che ancora combatte.

Oltre ad esporre le vicende che a livello politico, militare e diplomatico condussero alla Guerra fredda, Jennings descrive episodi che avrebbero potuto degenerare, dando il via in maniera accidentale al nuovo conflitto: un soldato neozelandese ucciso da fuoco partigiano durante le trattative di resa del presidio tedesco di Opicina ovvero la guardia confinaria jugoslava decapitata alcune settimane dopo da un Ghurka che era stato offeso.

Lorenzo Salimbeni

Fonte: Comitato 10 Febbraio