La nascita della comunità armena di Trieste
Il 24 aprile 1915 segnò l’inizio dello sterminio della comunità armena residente all’interno dell’Impero Ottomano: già in precedenza vi erano state persecuzioni e sopraffazioni da parte del Governo dei Giovani Turchi, ma nell’imperversare della Prima Guerra Mondiale si consumò il massacro di un milione e mezzo di persone. Ancor prima di questa catastrofe la diaspora armena si era diffusa in tutto il mondo e anche Trieste, dopo l’istituzione del Porto Franco nel 1719, ha accolto una comunità armena che ha contribuito allo sviluppo cittadino.
La nascita della comunità armena di Trieste:
un difficile inizio (1770-1810)
La crescita di Trieste negli anni centrali del Settecento, dapprima attraverso il (fallito) tentativo di Carlo VI d’Asburgo e successivamente con le riforme progressiste di Maria Teresa d’Austria e il figlio Giuseppe II, permisero un afflusso continuo “delli negozianti esteri“.
Si trattava di commercianti, bottegai e piccoli imprenditori attirati dalle possibilità offerte dal porto franco: non solo per le esenzioni fiscali, ma per la protezione religiosa e giudiziaria. Il tracciato razionale del borgo teresiano in via di costruzione nascondeva così un sottobosco caotico e mutevole di avventurieri e mercanti in cerca di fortuna.
Onde regolamentare quest’informe caos di religioni e lingue, le autorità austriache incoraggiarono la naturalizzazione, nella forma della richiesta di cittadinanza austriaca.
Occorre notare, a questo proposito, come si preferisse acquisire la cittadinanza austriaca invece che quella comunale, perché meno rigida, meno vincolata dalle leggi locali.
Attraverso queste richieste di naturalizzazione è possibile così tracciare la storia delle prime comunità etnico-religiose di Trieste: da quella dei greci, degli inglesi, dei francesi, giungendo agli stessi armeni.
L’anno domini 1773 viene tradizionalmente considerato il primo anno della comunità armena triestina, quando un gruppo di padri mechitaristi, che si erano staccati dall’isola di San Lazzaro a Venezia, giunsero a Trieste. Sotto le accoglienti ali dell’Aquila Bicipite miravano ad aprire una stamperia: naturale sbocco per il motto ora et labora et studia dei monaci armeni mechitaristi, incarnato tutt’ora dall’attività editoriale di San Lazzaro.
La congregazione ebbe sempre vita difficile a Trieste a causa di continui litigi tra i monaci su questioni economiche: le risorse della comunità vennero mal gestite e sull’intera impresa pesò non poco l’ombra della comunità armena di Costantinopoli, interessata alle franchigie del porto franco triestino. Sebbene tutto ciò danneggiò anche gli armeni secolari, nei primi decenni la presenza di un nucleo religioso permise di attirare i primi migranti armeni, per lo più mercanti. Verso il 1774 un suddito turco di fede armena, Giovanni Battista di Sarum, chiede la cittadinanza per sé e i suoi due figli, motivando di essersi stabilito “in questo porto franco con animo morandi per intraprendere il solito mio carriere di Commercio“. Secondo l’Intendenza commerciale era un “Mercante di stima” che aveva commerciato nelle Indie e in Turchia. Si registrava nello stesso anno un altro mercante armeno, stavolta di origini veneziane; e nel 1773 sappiamo esserci a Trieste il padre Giovanni Ariman dei mechitaristi e il direttore della Compagnia di Egitto Giorgio Saraff.
Quest’ultimo, com’era caratteristica di molti armeni ben integrati, era un prodigioso poliglotta che sapeva la lingua “turchesca, araba, armena e persiana” e che lavorava come interprete ufficiale per il Litorale e per il Magistrato di Sanità.
Verso gli anni Settanta del settecento, dopo che Maria Teresa concedette uno Statuto alla nazione armena a Trieste (30 maggio 1775), la comunità crebbe notevolmente.
Inizialmente, verso il 1774, soggiornavano a Trieste trenta armeni secolari e i monaci mechitaristi; verso il 1780/90 si giunse a un centinaio di armeni “triestini”.
Il Vescovo di Trieste, a questo proposito, utilizzò gli armeni per controbilanciare la presenza dei greco-ortodossi: “mi parrebbe potersene ricavare assai maggiori vantaggi, tanto più per reprimere la baldanza de’ Greci continuamente accrescendosi di gente misera, e pitocca, e mai cessano di ricercare maggiori Privileggi quali in poco tempo, li metteranno a livello con la Religione Dominante; ottimo sarebbe di controbilanciarli coll’introduzione di Religiosi, e famiglie, ricche, Armene“.
I negozianti per lo più provenivano dall’Europa, rispettivamente da Venezia, Livorno, Ancona, Lisbona, Ragusa; e dal Medio Oriente dal Cairo, da Smirne, da Costantinopoli e dalla Persia. Nel 1776 arrivarono 39 armeni; nel 1777 altri 26; per lo più negozianti, anche se non mancarono un sarto, un barbiere, uno stampatore, un gioielliere, dei pellicciai e alcuni studenti. La comunità, complice la presenza dei mechitaristi, andava formandosi nella sua eterogeneità di professioni e di ceti; eppure, passando agli anni Ottanta e Novanta del settecento l’immigrazione si arresta e la comunità decresce.
Come mai, a differenza che con i greci, gli ebrei, i serbi, la comunità non crebbe ai livelli di altre minoranze e non ebbe un ruolo di spicco a Trieste?
Le ragioni sono molteplici e difficili da inquadrare.
In primo luogo le beghe interne alla minuscola comunità di mechitaristi trapelarono fuori dalle mura della chiesa e presto diventarono note non solo a Trieste, quanto nelle principali comunità armene europee e orientali, scoraggiando gli armeni secolari a trovare rifugio presso il porto franco.
In secondo luogo ed è forse la ragione più grave che va controcorrente alla stessa tradizione armena capace di integrarsi con grande abilità nelle società nazionali, la comunità armena triestina fu sempre molto gelosa delle proprie autonomie: a differenza, ad esempio, degli ebrei, non s’integrò mai nel tessuto triestino, mantenendosi legata ai propri costumi e tradizioni. Non vi fu, durante il Settecento, quell’integrazione con la popolazione triestina e il suo progetto di città-porto.
Il consigliere dell’Intenza Commerciale di Trieste Giuseppe Pasquale Ricci scriveva che gli armeni sono una “nazione […] abituata alle violenze […] del Dispotismo orientale, e perciò è diffidente, e si allarma della sua ombra“. La psiche armena, secondo Ricci, era rimasta traumatizzata dalle persecuzioni religiose; e pertanto la difesa dei propri costumi e usanze rimase sempre ferrea, rinchiudendola in sé stessa.
Mentre altre minoranze ringraziavano Maria Teresa, nel caso degli armeni si ricordava più volte come i privilegi e le libertà concesse a Venezia fossero state maggiori rispetto a quelle di Trieste; spingendosi a protestare tanti, piccoli, errori nel campo delle consuetudini religiose. Ciò non piaceva a un sovrano quale Giuseppe II, la cui idea di libertà religiosa era però subordinata all’essere sudditi austriaci, prima al servizio dello stato e solamente dopo alla religione. Gli armeni chiedevano in quest’ambito un’autonomia e una libertà religiosa sproporzionata al proprio ruolo a Trieste.
Un ultimo fattore, infine, che va controcorrente alla tradizione plurilinguistica da sempre vanto degli armeni, era la conoscenza della lingua. Coll’eccezione di Giorgio Saraff, le piccole dimensioni della comunità armena e la gelosa difesa dei suoi privilegi impedivano però una conoscenza adeguata delle due lingue allora dominanti: italiano e tedesco. Le autorità asburgiche scrivevano e interloquivano nella lingua dello stato; mentre l’italiano era necessario quale lingua mercantile e di discussione giornaliera.
Gli armeni triestini erano così doppiamente incapacitati: avevano difficoltà nei rapporti con il governo, ma altrettanto difficile era il rapporto con le autorità mercantili e comunali.
I greci e gli ebrei che si erano trasferiti a Trieste in tal senso erano stati maggiormente astuti, perché si erano dotati di collaboratori che sapessero parlare il tedesco e l’italiano; almeno fino a quando le famiglie non acquisirono a loro volta dimestichezza con gli idiomi locali. Quando Vienna richiedeva maggiori dettagli sulle pratiche religiose armene, la comunità triestina non riusciva né a leggere, né a rispondere adeguatamente; e d’altronde non sapendo bene l’italiano aveva difficoltà a trovare chi le scrivesse al posto loro: “Molte dell’istesse intimazioni sono concepite in idioma alemanno, il quale non ci è noto, e li religiosi (N.D.R. cioè i mechitaristi) non hanno sufficiente perizia della lingua italiana per concepire le risposte, e dare quelle informazioni che sono demandate“.
Nessuno di questi ostacoli era in realtà insormontabile; si può ipotizzare come in futuro se la comunità fosse cresciuta, sarebbero arrivati gli specialisti e le famiglie disposte a integrarsi con Trieste e a realizzare quel legame tale da garantire una reale crescita.
Questo promettente inizio trovò però un ostacolo; e furono le tre occupazioni napoleoniche che a tutti gli effetti “congelarono” il flusso migratorio cittadino. Durante l’ultima (1810), la piccola comunità mechitarista venne chiusa; e senza il polo religioso la minoranza perse la sua “anima”. Tra le famiglie armene che rimasero a Trieste nei secoli vanno ricordati gli Hermet; la lettera dove si citano le “intimazioni” (16 maggio 1787) era di Giorgio Hermet; di un suo lontano discendente, ormai assimilato nell’ambiente triestino, sopravvive l'(irredentistica) via: Francesco Hermet.
Fonti: Tullia Catalan, Cenni sulla presenza armena a Trieste tra fine Settecento e primo Ottocento, in Storia economica e sociale di Trieste, La città dei gruppi l 719-1918, a cura di R. Finzi e G. Panjek, Trieste, 2001, vol. l, pp. 603-611.
Zeno Saracino – 15/08/2020
Fonte: Triestenews