Lettera aperta a Moni Ovadia
Egregio Moni Ovadia,
Le scrivo in merito al suo articolo apparso il 12 febbraio 2019 sul Manifesto e ripreso dal blog RemoContro dal titolo: Auschwitz e le Foibe di Salvini.
Innanzitutto, desidero presentarmi. Sono nato alla fine degli anni ’50 in un insediamento di profughi Giuliano-Dalmati a Roma. I miei genitori erano Esuli, come quelli di mia moglie. La mia famiglia, tradizionalmente cattolica, liberale, democratica (come quasi tutte dalle nostre parti), ha patito non solo l’Esodo dalla città natale, ma la persecuzione in tempo di pace per l’italianità, il tutto dopo aver avuto uno zio che rifiutandosi di combattere per i tedeschi, dopo l’8 settembre, venne deportato da Pola, dove era militare di Marina, a Dachau, insieme a tanti altri.
Vivo a Pomezia e quando Lei venne a presentare una Sua opera (L’Ebreo che Ride) alla Libreria Memoria, insieme allo strepitoso Vladimir Denissenkov, io ero presente. Ascoltai in religioso silenzio la Sua emozionante performance e, alla fine, in mezzo alla ressa, mi avvicinai timidamente e le dissi che ero un profugo di seconda generazione da un’isola dell’Adriatico; Lei prese dalle mie mani il libro che avevo appena comprato e mi scrisse una dedica che ogni tanto guardo con affetto: “ad Antonio che conosce le vie dell’Esodo”.
Le dico tutto questo non per piaggeria, ma perché dalla civiltà dove sono nato, dalla cultura dalla quale provengo, io, fieramente definito ebreo dell’Adriatico, l’ho sempre ammirata per la Sua arte; non per le Sue idee politiche, ma per la Sua umanità, diversa dalla mia, ma sempre umanità viva.
Parto, dunque, da ciò che ci unisce, come dice nel suo articolo: “Io considero ogni violenza perpetrata deliberatamente contro un essere umano innocente, un crimine ingiustificabile”. Basterebbe fermarsi qua. Ma c’è anche l’avversione alla pena di morte che ci salda, perché, anch’io come Lei: “credo che il valore della vita sia supremo”. Però, dopo questa frase riportata nel Suo intervento, tutto assume il sinistro sentire del giustificazionista. Mi spiego meglio.
Dalla promulgazione della legge 92/2004 – istitutiva del Giorno del Ricordo -, voluta con dignità e fermezza dal mondo dell’Esodo Giuliano-Dalmata, è seguita una stagione di testimonianza attiva che ha visto i protagonisti della prima generazione – insieme a discendenti e persone di buona volontà espressione di una società civile, libera ed amante della giustizia – raccontare: le vicende storiche patite in Istria, Fiume, Quarnaro e Dalmazia, le ragioni di un odio etnico ed, infine, le conseguenze nefaste per un intero popolo alla ricerca della ricomposizione di una propria identità.
A seguito di una simile mobilitazione spontanea e all’aumentare della diffusione di una conoscenza inizialmente labile su tali tematiche, in un contesto culturale via via sempre più sensibile, si è riscontrato l’aumento di azioni tese a fornire interpretazioni fuorvianti, giustificazioniste e riduzioniste verso atti abominevoli, quali sono, appunto, le esecuzioni avvenute sulla base dell’odio etnico (e di questo ne siamo testimoni diretti) e dell’ideologia politica.
A volte, assistiamo attoniti all’esclusione della nostra gente nella divulgazione storica che avviene, per esempio, nelle scuole e prendiamo atto di una narrazione della storia dell’Adriatico orientale dove l’elemento fascista è rappresentato come questione fondamentale dalla quale ripartire per comprendere, per quanto possibile, ciò che avvenuto dopo, ovvero ciò che è stato il dramma della pulizia etnica degli italofoni in Istria e Dalmazia.
Contestualizzare, è la parola d’ordine di chi giustifica.
Tuttavia, far partire la storia dell’Adriatico orientale dall’avvento del regime fascista del ’22 appare, evidentemente, come un limite alla comprensione di eventi complessi. Citare, per esempio, il rogo del Narodni Dom (la Casa del Popolo luogo di ritrovo della comunità slovena di Trieste) avvenuto nel 1920 dimenticando la questione del massacro di Spalato, accaduto pochi giorni prima, o altri fatti di sangue, come quelli di Maresego del 1921 (tanto per citare tre fatti di cronaca a testimonianza di un clima avvelenato riscontrato fin dal 1919), oppure, ancora, senza risalire più indietro, alla non restituzione a Venezia delle sue terre dopo il Congresso di Vienna ed omettendo la risoluzione del 12 novembre 1866 della Corona Austriaca, istitutrice della prima pulizia etnica contro gli italofoni in Dalmazia (1870-1900), porta ad una storia monca. Una narrazione della storia, appunto, dalla quale indurre chi ascolta a dire: “ah, beh, ma se le cose erano così allora si comprende che…”.
Nello storytelling giustificazionista lo schema è, più o meno, il seguente: rogo del Narodni Dom, appunto, snazionalizzazione forzata dell’elemento slavo nelle Nuove province italiane, aggressione della Jugoslavia, citazione della frase del generale Roatta, occupazione di Lubiana durante la Seconda guerra mondiale (che viene confusa ad arte con l’assegnazione dei territori carsici dopo il 1918 stabilita dal Trattato di Rapallo), campi di concentramento di Arbe e Gonars. Sempre in tale narrazione, contagiata sistematicamente dal morbo del presentismo, non viene citato cosa sia successo prima della Prima Guerra mondiale, né, soprattutto, cosa sia successo dopo il 1945, dimenticandosi non solo gli assassinî andati avanti fino agli anni ’50, ma anche, per esempio, la persecuzione di tutto ciò che suonava come italiano da parte della Chiesa cattolica croata, talmente ideologicamente violenta da durare da molto prima e molto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. (A fini puramente esemplificativi cito due fatti alla quale sono stato fisicamente presente: i) nel 1974 venivano divelte, nella chiesa del luogo dal quale proviene la mia famiglia, le iscrizioni in italiano di una Via Crucis, un’opera composta di 14 oli su tela del tardo ‘700 veneziano; ii) nel 2001, un parroco della medesima località bruciava, sotto i miei occhi, i libri parrocchiali perché, cito: “scritti in lingua italiana” – fatto, poi, che ha generato la vivace protesta di coloro che oggi abitano quel luogo, italofoni croati e croati dell’interno immigrati, tutti decisamente onesti intellettualmente).
Quale nesso dovrebbero avere tali eventi accaduti in tempo di pace con la guerra? È giusto ammazzare l’amico/parente/conoscente di un fascista, in quanto amico/parente/conoscente di un fascista? E anche se la risposta fosse sì, allora, dovrebbe essere giusto ammazzare l’amico/parente/conoscente di qualcuno che ha commesso altre nefandezze? La cronaca odierna offre spunti a volontà.
Il giustificazionista, dunque, raccontando solo una parte di verità, quella che conviene ad un gruppo ideologico, conduce chi ascolta alla cruciale frase: “ah, beh, ma se le cose erano così allora si comprende che…”. Ma è proprio in quel “si comprende che…” che si gioca la questione di una società civile: se si inizia a giustificare un abominio, poi si passa a giustificarne un altro, fino a giustificare la strage di Srebrenica ed altre ancora. E così la storia non avrà insegnato nulla e la Memoria sarà stata vana. Fino a sentir dire qualche pazzo che, prima o poi, dirà che gli eccidi nazisti in guerra dovrebbero essere contestualizzati!
“Qual è l’origine violenta delle foibe?” scrive nel suo articolo. Ma perché? Ha importanza? Se la vita è vita e va tutelata è importante conoscere il motivo di un crimine? Conoscendolo, ci farà inorridire di meno? Di certo conosceremo meglio la storia, ma allora sarebbe bene conoscerla tutta senza fermarsi alla fine della guerra e giustificare, per esempio, in tal modo anche:
- La morte, il 18 agosto 1946, di un centinaio di persone su una spiaggia a Vergarola, presso Pola, dopo l’esplosione di nove tonnellate di bombe giudicate inerti;
- La morte di don Francesco Bonifacio (beato della Chiesa cattolica), accoppato da quattro ‘guardie popolari’ l’11 settembre 1946;
- La morte di Ferdinando, Germano e Giovanni Gulin, arrestati il 29 novembre 1946, massacrati, rinchiusi dentro a dei sacchi e gettati in mare;
- La morte di don Miroslav Bulešic (anche lui beato), che per salvare il Pane eucaristico venne trucidato il 24 agosto 1947 dai partigiani;
- La morte di Federico Altin, deceduto il 12 settembre 1948 dopo aver subito l’amputazione della lingua dai titini, i quali non permisero al medico di prestare soccorso;
- La morte dei fratelli Zorovich, scomparsi nel 1956 mentre scappavano per mare in Italia (come mio suocero) e ritrovati dai pescatori qualche anno fa a largo di Cigale, presso l’isola di Lussino, con i crani bucati da un foro di pallottola.
Di casi come questi ne contiamo molti. Il dramma è che tutto ciò avveniva ben al di là della primavera del 1945. Come si può giustificare tutto ciò? Non credo che ci siano risposte accettabili. Per quanto violenta possa essere stata l’origine di una simile reazione: “una furibonda insistenza sulla vendetta non ha generato la pace” (cfr.: David Lindley: Incertezza, Einaudi 2007). Ed infatti, la rivoluzione comunista nei Balcani e, per qual che ci riguarda, sulla costa orientale dell’Adriatico, è miseramente fallita essendo stata abilmente usata dai nazionalismi che, per contro, ancora oggi covano sotto la cenere.
Proseguendo nel suo intervento leggo un concetto richiamato sovente sia nel bene che nel male: “Italiani brava gente?”. Rifletto e dico che non so dare una risposta. Non si può generalizzare. Qualcuno è buono e qualcuno no. Non furono brava gente quando accolsero con indifferenza le leggi razziali, non avendo pressoché nessuna reazione quando furono espulsi dalle scuole bambini di sei anni e non muovendo un dito quando i loro concittadini ebrei furono avviati alla deportazione e allo sterminio. Non furono brava gente quando tiravano i sassi ai profughi Giuliano-Dalmati stipati sui carri merci e quando versavano il latte destinato ai loro bambini preparato dalla Croce Rossa. Non furono brava gente quando i miei maestri di Roma (gente adulta…), negli anni ’60, mi tiravano fuori dal banco, mi mettevano in mezzo ad un’aula e, poiché parlavo solo il dialetto istro-veneto, mi schernivano e deridevano per l’incapacità di dire le doppie e le vocali aperte e chiuse, in mezzo ad una folla di compagni che mi guardavano come un pupazzo da prendere a calci, dentro e fuori la scuola.
Che i politicanti di questo popolo bambino, dalla memoria corta e beatamente sempre meno acculturato, abbiano da sempre cercato il proprio tornaconto non è una novità. Per esempio, il debito di guerra che lo Stato italiano, aggressore, doveva pagare alla Jugoslavia, è stato saldato con le case degli Esuli. Ovvio, una volta svuotate dai millenari occupanti, ai Governi di un’Italia stracciona e pezzente è sembrato un grosso affare usare quegli immobili per saldare un debito altrimenti mai onorabile. Peccato che per fare ciò siano stati violati i trattati internazionali siglati dalla stessa Italia e che impedivano l’esproprio dei beni dei cittadini di quelle terre. Ma questo è solo uno dei diversi diritti civili che noi, popolo dell’Esodo Giuliano-Dalmata, siamo ancora in attesa di veder rispettati dopo più di ’70 anni. Pare proprio che questa storia del rispetto dei diritti civili valga solo per una classe di persone, mai per noi, cittadini di serie B.
Del resto, la vulgata popolare sapientemente istigata da generatori di fake news come Piero Montagnani, dirigente del PCI del dopoguerra in quel di Milano, disegnava la nostra gente come: “relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza” (cfr.: L’Unità, Edizione dell’Italia Settentrionale, Anno XXIII, N. 284, sabato 30 novembre 1946). Insomma, la percezione della nostra gente era un po’ come l’ebreo per le popolazioni dell’Europa dell’Est: sgraditi cittadini detentori di grandi ricchezze (cfr.: Martin Pollack: Paesaggi contaminati, Keller, 2016). In definitiva, se i profughi erano ricchi, non c’era da farsi tanti scrupoli usando un loro bene immobile per far pareggiare i conti alla Patria.
I partiti politici hanno usato non solo la nostra storia, ma ogni storia umana a seconda della convenienza. Però, una lancia da spezzare a favore di Salvini non posso ometterla. A Basovizza, il 10 febbraio scorso, ero presente e il nostro Ministro degli Interni non è vero che ha equiparato Auschwitz alle foibe (si può sentire la registrazione), nel discorso si chiedeva quale diversità concettuale potesse mai avere un crimine verso un bambino sterminato in un campo nazista, rispetto ad un bambino scaraventato in una foiba. L’iperbole non poteva essere che retorica.
Ci si accapiglia sempre per le parole, ma al di là delle belle e giuste parole noi siamo qui, che ancora dobbiamo faticare a trasferire un concetto di Memoria in grado di generare un germe di positività nella nostra società, così come siamo in attesa di vedere i nostri diritti soddisfatti da una Stato che, anno dopo anno, ci dice: “ora no perché il momento è delicato”, tutto preso a risolvere la prossima emergenza…
Eppure vogliamo veramente sminare un Paesaggio contaminato, proprio perché un’urgenza di conoscenza, di giustizia, di verità, di equità ci è insopprimibile e non possiamo non cercare ogni via per una Memoria condivisa. Sappiamo cosa sia la sofferenza e l’emarginazione e non possiamo arrenderci in una battaglia di civiltà che desidera solo fare tesoro di un’esperienza negativa perché non accada mai più. E lo vogliamo fare integrando, non dividendo.
Anni fa, nel 2013, appena eletto ai vertici della più estesa organizzazione di Esuli Giuliano-Dalmati (L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, sorta a partire dai campi profughi disseminati in ogni provincia), mi recai dall’allora presidente dell’ANPI, il prof. Carlo Smuraglia. Era maggio ed entrai nell’elegante palazzina al quartiere Prati di Roma, sede dell’Associazione dei partigiani italiani, osservato dal personale come se fossi stato un marziano. Il professore fu molto gentile. Ci sedemmo attorno ad un tavolo ed esposi il motivo della mia richiesta di visita: “Professore, se vogliamo depotenziare una volta per tutte le polemiche, le battaglie, le violenze verbali, le strumentalizzazioni politiche, se vogliamo costruire una memoria condivisa, costituiamo un tavolo. Facciamo un gruppo di studio, mettiamoci dentro un po’ di Storici con la ‘S’ maiuscola, rovistiamo insieme nella storia, cerchiamo a fondo la verità, perché noi non ne abbiamo paura, sappiamo fin da ora cosa salterà fuori. La nostra gente, fino all’avvento della Terza Guerra di indipendenza, non aveva nemmeno il concetto di nazionalismo. Sulla nostra testa hanno giocato in maniera indegna poteri da noi mai cercati e lo hanno fatto fin dalla fine della Repubblica di Venezia. Ma la menzogna su di noi no! Cerchiamo assieme. Facciamo emergere la verità.”
Siamo ancora qui ad aspettare una risposta ad un’offerta che è sempre valida. Ma se questa risposta non arriva, allora è del tutto evidente che facciamo comodo per tenere alta una polemica da noi non voluta e non cercata.
Di chi sarebbe, dunque, la retorica?
La retorica sulle foibe non ci appartiene, perché noi siamo una parte di storia viva e, semmai, testimoniamo ciò che abbiamo subito. Di certo ci va stretta la retorica dell’antifascismo, quella che volutamente non comprende che se il 25 aprile l’Italia a sinistra di Trieste fu liberta, quella a desta fu occupata, e che quegli occupanti, sfruttando l’ombrello comunista, diedero luogo contro gli italofoni a ciò che è stato usuale nei Blacani fino agli anni ’90: azioni di pulizia etnica. Solo che, alla caduta del Muro, serbi, croati, bosniaci, herzegovzi, sloveni e montenegrini se le suonavano tra loro, mentre quarant’anni prima lo facevano tutti insieme contro una sola etnia.
Non è nel nostro DNA la divisione, ma l’accoglienza del diverso; non abbiamo una nostra famiglia che non sia mista (termine orribile ma che rende l’idea). Il più analfabeta dei nostri Esuli di prima generazione conosceva almeno due lingue e due dialetti. Chi toccava con un dito l’Adriatico orientale si metteva in contatto in maniera istantanea con una rete di rapporti e relazioni che non badava alla diversità di lingua, razza e religione.
Proprio perché vogliamo lavorare per la pace, noi, che non abbiamo mai rotto un vetro in vita nostra, desideriamo svolgere un lavoro condiviso sulla nostra memoria; un lavoro in cui offrire rispetto per le diversità altrui, chiedendolo con dignità per la nostra.
Per questo Le chiedo di aiutarmi ed aiutarci nel creare le condizioni affinché dentro la nostra società abbia inizio, finalmente, un clima di comprensione e condivisione reciproca, senza giustificare, ridurre, negare o contestualizzare i drammi di popoli o di singoli, ma semplicemente comprendendo. Sì, non credo che possa esistere altra strada se non la comprensione ed il rispetto reciproco. A ciò non può essere che aggiunta la conoscenza dei fatti. Di tutti i fatti. Dei soli fatti che delineino in maniera chiara ed univoca la Storia. Le interpretazioni possiamo lasciarle alle singole persone, ma è quanto mai necessario mettersi insieme per portare alla luce la verità ed infine operare per una giustizia morale attesa da lungo tempo, eppure sempre snobbata, minimizzata, declassata.
È per tutto ciò che mi piacerebbe portarLa a vedere la nostra terra e i nostri luoghi. Mi piacerebbe farLe vedere con i miei occhi una bellezza travolgente che non può non far sorgere un moto di bene verso la vita. Mi piacerebbe portarLa a Punta Pax Tecum in una giornata di bora chiara. MostraLe il Golfo del Quarnaro, avendo alle spalle Fianona e l’Istria e guidare il Suo sguardo da Abbazia fino ad Ossero e più giù ancora, in Dalmazia. Ed infine, meditare sui paesaggi che nascondono ancora vittime di un odio senza ragione che non deve mai più accadere. Ne va della nostra civiltà.
Antonio Ballarin
Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati
Roma, 19 marzo 2019