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Campi Profughi 109

Letterina di Natale dal campo profughi di Napoli nel 1953

Manca poco a Natale. Mio nipote Matteo nell’arrivare a casa mi dice: “Sai nonno, la maestra ci ha fatto scrivere la letterina di Natale per i nostri genitori. Devo metterla sotto il piatto”. Bravo! Gli dico. Cerca però di mettere in pratica quello che hai scritto. Ma tu, mi dice, quand’eri bambino la scrivevi la letterina? E come no, se ben ricordo ne ho scritte due, una in quarta e una in quinta elementare. In orfanotrofio avevo un bravo maestro che ce le faceva scrivere. Le ho conservate. Ora ti racconto, anzi aspetta un attimo che le cerco tra le mie cose. Eccone una.

Due paginette dai contorni dorati

La data è del 1953. Due paginette dai contorni dorati. Il maestro di nome faceva Dorato pure lui e ci aveva fatto scrivere così:

“Adorato babbo, nella grande ricorrenza della nascita del Bambin Gesù il mio cuore è colmo di gioia, anche perché come dal ritorno da una lunga crociera mi trovo festoso fra voi. Il grande sacrificio che fate nel tenermi lontano da voi, vi sarà ricompensato con la mia massima buona volontà allo studio affinché un giorno possa rendervi felice. A questa promessa unisco gli auguri più fervidi per le feste natalizie. Vostro affezionatissimo figlio Sergio”.

Ricordi d’infanzia

E qui ti vado a raccontare la storia della prima letterina.

Vestiti con la divisa da marinaretti, pieni di felicità, accompagnati da qualche Istitutore volonteroso, così si chiamavano i nostri guardiani all’orfanotrofio, prendevamo la Cumana il trenino che collega Baia al centro di Napoli. Ognuno poi scendeva alla fermata del paese dove abitava. Io scendevo a Fuorigrotta. Sai qui all’epoca iniziavano a costruire il S. Paolo, il nuovo campo sportivo del Napoli, ma lì vicino c’era un altro tipo di “Campo”, il “Canzanella”, una distesa di baracche recintate tutt’intorno di filo spinato dove all’entrata due poliziotti armati di fucile controllavano chi entrava o usciva, mettendomi paura.

In divisa da marinaretto

Nell’entrare avevo il mio bel daffare a spiegare a quelle teste dure che m’interrogavano come i gendarmi con Pinocchio che andavo dal mio pappi. Finché lui non arrivava quelli non mi mollavano, increduli, che un bambino abitasse in simil posto. Tant’è che lui protestò con loro per la maniera rude di trattare un bambino. La faccenda durò poco perché da ragazzino sveglio quale ero successivamente capii che bastava aspettare che quelli si girassero per scappare dentro e farli fessi.

Attraversavo di corsa le polverose stradine fino alla baracca B12, dove abitavamo. Entrando dentro c’erano 30 posti letto affiancati nel perimetro. Gli amici di papà mi accoglievano con affetto, come portassi loro una bella novità. Mi stimavo non poco nella mia divisa, sapendo che pure lui da giovane era stato marinaio.

Un miscuglio di lingue e di dialetti

Il Campo ospitava circa 600 uomini rimpatriati da ogni dove dopo la guerra. Molti erano delle nostre parti, istriani, fiumani, zaratini. Altri provenivano dall’Est Europa, Russia, Romania, Albania, altri dalle ex colonie italiane, altri avevano dei numeri stampati sulle braccia…. Un miscuglio di gente dai dialetti più strani, dalle storie personali le più travagliate. Uomini che avevano lasciato i loro affetti e in me li rivedevano. Pensa Matti, non ho mai visto una donna entrare in quel posto, solo maschi, trasandati e mal messi. Le nostre due brande stavano in un angolo della baracca. Papà aveva teso tutt’intorno un filo e con delle coperte ci nascondeva alla vista di chi passava dalla vicina porta.

Il bauletto di legno

Un tavolino era lì vicino, dove appoggiavo le mie cose, oppure facevo i compiti. La mia valigia era quel bauletto di legno color verde pieno di vecchie lettere, che tu hai visto in cantina, era appoggiato su quel tavolo e vuotato dalle mie cose fungeva da contenitore per il cibo. Le mosche erano abbondanti come pure i gatti…

Il Natale si avvicinava, ero il più felice dei bambini quando la sera uscivamo per fare un giro per la città. Il mio babbo mi presentava con visibile orgoglio a tutti coloro che conosceva e siccome era cliente dell’osteria “Da Don Luigi” pure a quel simpatico oste di Agnano dal pancione e viso rubicondo che mi sembrava uscito da un cartone animato e che mi prese in simpatia, utile per i miei futuri acquisti del mezzo litro di nero. Mezzo litro che papà mi mandava fuori ad acquistare per poi berselo con gli altri seduti attorno a una stufetta costruita con la latta dei bidoni di benzina vuoti che gli americani avevano lasciato sul territorio.

Passavano il tempo parlando del tempo loro migliore quando vivevano una vita normale in un contesto civile, delle aspettative future, ora abbandonati e dimenticati dal mondo. Dalla branda ascoltavo questi discorsi che non capivo, poi mi addormentavo.

Senza una mamma 

Ritorno un passo indietro, alla mia gioia di essere sotto braccio al mio papà, finalmente riuniti, dopo tanti anni di distacco dovuti all’esodo. Guardavamo con golosità, le vetrine allestite in un clima di luminarie e festaiolo. Mamme con bambini attorno, attiravano in me un po’ d’invidia, io non avevo mamma o figure materne. Sollevavano borse piene di cibarie che noi potevamo solo sognare. Ora comprendo quanta sofferenza avrà patito, papà mio, in quel frangente. Il cibo al Campo veniva distribuito alle ore 11 e alle 16 previa attesa in coda, era mio compito quello di fare la fila con le due gamelle in mano. Naturalmente ero sempre in compagnia di persona di fiducia.

Non mangiavo quella robaccia, papà non voleva e ogni giorno mi mandava a comprare pane, latte, uova, insalata, qualche mela, soprattutto pesce ovvero alici freschissime, che costavano poco. Quando papà le puliva e le metteva a sgocciolare mi raccomandava di fare bene la guardia perché il gatto nero era in agguato e rischiavamo di rimanere senza cena. L’acqua non era un problema sgorgava in continuazione da un tubo della baracca di fronte. I soldi per comprare, li guadagnava facendo più lavori possibili all’interno del Campo, anche quelli più umili come la pulizia delle strade o dei gabinetti, buchi sul pavimento che fungevano per l’appunto. La direzione del Campo faceva distribuire in occasione delle festività natalizie e pasquali, un cartoccio di zucchero pari a 3 cucchiai, e 2 pasticcini scuri tipo bignè a testa.

Privo di un piatto

La vigilia del Santo Natale la porta cigolava in continuazione; nella penombra della fioca luce vedevo figure d’esseri umani entrare piano augurandoci Buon Natale, depositare nel mio bauletto quel poco che avevano e uscire in silenzio. Sai, ho sempre pensato che la parola “solidarietà” per me è nata lì, dal cuore di quelle persone: onoravano Gesù Bambino, nato per dare speranza a noi e all’umanità.

La mattina di Natale era quasi un giorno come gli altri e io non ero ancora stato educato ai valori cristiani. Oltre ai dolcetti della vigilia si capiva che il giorno era diverso perché le persone si vestivano in maniera più decorosa degli altri giorni. Nei primi otto anni della mia vita sono successe tante cose; sì gli zii di Padova mi avevano fatto fare la prima comunione e la cresima, dandomi i primi valori della fede, però vivendo in quel posto dimenticavo presto tutte queste cose. Solo qualche anno più tardi ho avuto la fortuna di capire meglio tutto ciò, quando ho conosciuto l’amico di papà, Padre Tomaso. Ma rimaneva sempre quel problema. Mi chiedi quale problema? La letterina di Natale. Il maestro ci aveva raccomandato di metterla sotto il piatto. Giusto. Ecco il problema: io il piatto non ce l’avevo. Mangiavamo seduti sulla branda con la gamella sulle cosce e allora come si fa? Trovai la soluzione mettendola nella tasca della giacca marrone, l’unica che mio padre aveva potuto portarsi via da Fiume e che usava nelle occasioni migliori. La mia emozione era tanta, aspettavo con ansia che la indossasse e poi mentre la leggeva vedevo i suoi occhi.

L’importanza di un abbraccio

Vedi Matti, quando ci si sente amati come lo ero io, nulla era importante come quell’abbraccio che finalmente ci univa e mi rendeva felice e orgoglioso d’avere un papà tutto mio.

Si sa che i giorni felici volano. Passata l’Epifania, il 7 bisognava essere puntuali all’appello dentro il Collegio, con la tristezza che aleggiava nei nostri cuori. Durava poco però, perché pure io come te ritrovavo gli amici. Tu hai Antonio, Michele, Zain; io avevo Pasquale, Aldo, Gennarino e altri che non ricordo più, con i quali condividevamo i racconti delle vacanze che io ovviamente non potevo raccontare: potevo condividere solo i famosi pasticcini. Pochi giorni dopo finivano, non ce n’erano più, con la fame continua che causava l’aria buona di quel posto unico, senza auto o inquinamento, sole e mare, tanta vegetazione mediterranea, pineta, e tanti giochi, che variavano con il variare delle stagioni.

Giochi fatti di salti, corse, partite di pallone, gare di nuoto e tuffi in mare, o esplorazioni con la barca che avevamo in dotazione. Remando cantavamo canzoni napoletane con l’istitutore che ci accompagnava con la chitarra, sempre in amicizia e allegria, quella della più bella età, come la tua.

La vita è un dono prezioso

Piccolo mio, che vivi nell’epoca della pace e dell’abbondanza almeno qui da noi, e sei felice e sereno perché hai tanti giochi e persone che ti amano, ricordati che la vita è un dono prezioso da vivere con gioia, in qualsiasi situazione ti trovi. Tu hai dei talenti naturali e unici, hai grande sensibilità e credi nei valori dell’amicizia, quella vera senza confini razziali: ciò ti fa onore.

Se ho scritto queste cose mie, ma che altre volte ho ripetuto, come di solito facciamo noi nonni, è solo per ricordarti che le vicende che sono successe a me e a tanti altri bimbi che non hanno potuto raccontarle è solo perché uscivamo dalle rovine di una lunga guerra, voluta da gente cattiva, prepotente che odiava chi era diverso
da loro.

Un nipote: il più bel dono

Mantieniti sempre così col cuore in mano. I baci con cui mi riempi il viso al mattino, prima d’entrare a scuola, sono per me il più bel dono, il risarcimento a tante sofferenze e mi convinco a pensare che nonostante tutto io sia ancora una volta un nonno privilegiato.

Ciao Matteo e grazie!

Sergio Fogar
Fonte: La Voce del Popolo – 19/12/2021