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Rivista Dalmatica Speciale Borovnica

Numero speciale della Rivista Dalmatica dedicato agli orrori di Borovnica

Il dossier destinato alla conferenza di Parigi del 1947 è un triste campionario di atrocità 

«Segreto – 5 ottobre 1945 – Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica e all’ospedale militare di Skofja Loka ambedue denominati della morte». Fin dal titolo della prima pagina dattiloscritta, il rapporto dei nostri servizi che emerge dal passato, fa accapponare la pelle. «Fucilazioni per nulla», «torture al palo», «lavori forzati», «scheletri viventi» sono le terribili parole che si ripetono nelle testimonianze dei soldati italiani catturati a guerra finita e sopravvissuti ai lager di Tito. Un rapporto dell’orrore secretato per 50 anni, che viene pubblicato integralmente la prima volta dalla Rivista dalmatica in occasione del 10 febbraio, giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo. «Lo curò mio nonno, Manlio Cace, ufficiale medico della Marina militare, per i servizi segreti, con l’obiettivo di presentarlo alla conferenza di pace che portò al trattato di Parigi del 1947, come prova delle indicibili violenze del regime jugoslavo ai danni degli italiani. Non sappiamo se fosse mai arrivato in quel consesso» spiega Carla Cace, presidente dell’Associazione nazionale dalmata, che scopre il rapporto segreto negli archivi romani del sodalizio. Oggi la drammatica relazione dei servizi, in anteprima per il Giornale, viene presentata al Parlamento europeo.

Le testimonianze sono rese ancora più drammatiche dalle foto dei sopravvissuti: fantasmi pelle e ossa con i segni delle torture, che a malapena si reggono in piedi. «Il loro stato è peggiore di quello dei reduci dei campi della morte tedeschi» si legge nella seconda parte con le fotografie. Non tutti nemici, ma pure militari che hanno aderito alla causa partigiana o sono stati catturati dai nazisti.

Nicandro Filippo, classe 1906, «fu fatto prigioniero nei primi di maggio, dopo quattro giorni di combattimento assieme alle formazioni partigiane per cacciare i tedeschi da Trieste». Il calvario inizia nel lager di Borovnica, in Slovenia, ad 88 chilometri dal capoluogo giuliano. «Alle sei si usciva per il lavoro, pesantissimo data la nostra debolezza causata dall’insufficienza del vitto; eppure si doveva lavorare ugualmente, altrimenti erano botte, calci e bastonature» racconta appena rilasciato da un letto dell’ospedale di Udine. «Ogni giorno infallibilmente moriva qualcuno nelle baracche; 2, 3, 4 morivano all’infermeria, soprattutto di diarrea» rivela Nicandro. Il soldato di sanità Guarnaschelli Alberto, di Pavia, fugge dalla prigionia tedesca, ma il 12 maggio viene catturato dai partigiani di Tito a Postumia. «Una mattina ci caricano in carri bestiame. Nel mio vagone eravamo in 118» come gli ebrei. Al campo di concentramento di Borovnica le punizioni sono terribili: «Mi pare di sentire ancora le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare anche due ore legati al palo con un sottile filo di ferro. Tutti svenivano durante quel supplizio e dopo la liberazione molti restavano con le braccia o con le mani anchilosate e bisognava che altri li aiutassero anche a mangiare e a spogliarsi». Il bersagliere Santamaria Gino, nato a Roma, descrive così la detenzione: «La vera vita d’inferno: bastonate, frustate, digiuni, malattie e sevizie fecero sì che quasi tutti fummo ridotti a scheletri viventi». Il rancio è una brodaglia e molti internati non hanno mai visto un pezzo di pane. «La fame era tanto forte che si divorava qualsiasi cosa capitava fra le mani – racconta il bersagliere – Così, lungo la strada che andava al lavoro (forzato nda), si raccoglievano l’erba e le foglie secche degli alberi o qualche frutto caduto e si divorava tutto immediatamente». A Borovnica «oltre 60 compagni sono morti di fame, malattie e di maltrattamenti. Altri 150 invece sono stati portati via e mai più nulla si è saputo della loro sorte».

Le fucilazioni scattano per futili motivi. «A Vipacco un prigioniero, sfinito dalla fame, terminata la sua scarsa razione chiese al cuciniere un supplemento. Un partigiano se ne accorse e gli sparò addosso a bruciapelo, freddandolo». La testimonianza è del sottobrigadiere della Finanza, Rapisarda Salvatore, prelevato dai titini a Trieste. «Un partigiano armato di moschetto mi chiede la fede matrimoniale che portavo al dito – racconta – Feci presente che si trattava di una cosa sacra e che non potevo dargliela. Il partigiano sogghignando dice: O me la dai o ti taglio il dito».

Un altro finanziere, Giribaldo Roberto, è testimone oculare della fucilazione di due compagni di prigionia. «Uno perché nel tentativo di evasione veniva fermato in mezzo al bosco – si legge nel rapporto – l’altro perché sorpreso in una casa ove era entrato per chiedere un pezzo di pane».

Le «marce della morte» sono altre occasioni di esecuzioni sommarie. Garbin Antonio, catturato a Velika Gorica dai tedeschi crede «nella liberazione da parte di soldati di Tito, ma ci accorgemmo subito di essere nuovamente prigionieri». Assieme ad altri 250 italiani viene incolonnato verso Belgrado. «In 20 giorni avevamo coperto una distanza di circa 500 km, sempre a piedi – testimonia – Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti però sono stati molti di più».

Cristina Di Giorgi, curatrice del numero speciale della Rivista Dalmatica scrive che «gli internati nelle circa cinquanta strutture organizzate e gestite dai miliziani comunisti di Tito sparse su tutto il territorio della Jugoslavia furono oltre sessantamila (tra loro ex soldati, ex prigionieri dei tedeschi, civili deportati da Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, partigiani e persino comunisti)».

Prima di morire di stenti a Borovnica i prigionieri vengono trasferiti in un improvvisato ospedale ricavato nel castello diroccato a Skofja Loka, tristemente soprannominato «il cimitero». Guarnaschelli racconta che «la stanza aveva sempre porte e finestre chiuse. Ogni notte morivano 2, 3 o 4 di noi. Ricordo che in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva: solo alla mattina si vedevano irrigiditi». I malati non potevano uscire neppure per i bisogni corporali: «In un angolo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Ed eravamo affetti da diarrea!». Nel campo della morte di Borovnica rimangono, dopo i rimpatri dei sopravvissuti, 400 italiani in mano agli aguzzini. Mignola Giuseppe, di Potenza, racconta che «il più spietato era un borghese che portava sempre uno scudiscio di gomma. Quanti ne ha fatti piangere quel disgraziato. Poi c’erano dei bambini di 12, 13 anni. Quei farabutti». E alla fine dichiara: «I partigiani di Tito più che uomini erano belve». Ungaro Giacomo ha un lasciapassare rilasciato dalle autorità jugoslave per tornare a casa a Bari, ma viene fermato lo stesso dai titini il 10 maggio 1945, vicino a Trieste, a guerra finita. Sopravvissuto a Borovnica ammette: «Ho invocato tante volte la morte» piuttosto che «sopportare lo strazio al quale eravamo sottoposti noi poveri italiani».

Fausto Biloslavo
Fonte: Il Giornale – 09/02/2022