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QueiGiorni

“Quei giorni di Pola” una comunità travolta dalla cecità della Storia

Per il Giorno del Ricordo è tornato il libro di Corrado Belci considerato un classico della letteratura dell’esodo: dal volume “Quei giorni di Pola” (Leg, Gorizia 2018) pubblichiamo di seguito l’introduzione di Arrigo Levi.
Il lettore non si lasci ingannare dalla relativa brevità di questo libro di memorie, e nemmeno dal ritmo nostalgico ma sereno di quella che ne è la parte iniziale. Questo è un libretto tanto breve quanto prezioso, tanto pacato quanto appassionato.

Corrado Belci ha scritto – ricorrendo, per scelta deliberata, o inconsapevole, alla sua sapienza di vecchio giornalista – una narrazione tutta “in crescendo”, per l’intensità dei sentimenti che si nascondevano da sempre in fondo alla sua anima, e a cui ha finalmente deciso di dar voce, come per la drammaticità, che si fa di pagina in pagina più intensa, degli eventi rievocati.

Questa è, anzitutto, la storia di come un ragazzo diventa un uomo. Come tale, è un’ulteriore testimonianza di quella particolare miscela di forte passione politica e di innato buon senso ed equilibrio che rende Corrado Belci così caro a chi ha avuto la ventura di diventarne amico. (A me è capitato quando sia io che lui eravamo già piuttosto avanti negli anni, salvo un fugace incontro “alla corte” di Zaccagnini, in giornate tremende per la storia italiana, quando era in giuoco la vita di Aldo Moro, e nulla si poteva fare per salvarlo, se si ave va cara la sopravvivenza della democrazia in Italia).

Ma questo volumetto è anche l’appassionata rievocazione di una comunità ricca di una sua cultura e di una sua storia millenaria (chi visita Pola, ancora oggi, rimane quasi attonito dinanzi alla mole imponente dell’Arena romana, tra le più insigni testimonianze della grandezza dell’Impero). Ed è il racconto di come una comunità possa essere travolta e di fatto cancellata, in un breve arco di tempo, dalla cecità della Storia, della grande Storia. Spesso accade che, sforzandosi di capire l’evolversi di eventi di cui si è stati testimoni o vittime, si riesca a ricostruire con un’analisi scrupolosa, la catena di cause ed effetti che ha provocato questa o quella delle innumerevoli catastrofi, grandi e piccole, di cui è punteggiata la storia. Lo fa anche Corrado Belci, in un suo scritto.

Ma non per questo, al termine di un lavoro faticoso e quanto possibile obiettivo, si può trovare una Logica, meno ancora un senso di Giustizia, nella Storia. Si può solo guardare avanti, sforzandosi di costruire, nelle rovine di un passato che rima ne incomprensibile, una nuova realtà, in cui si esprima quell’ansia di giustizia e di logica, che la stessa tragedia che si è vissuta rende ancora più forte. Questo, in fondo, non è stato soltanto il destino di Corrado Belci da Pola, ma quello di tanti uomini della nostra generazione. In quei due anni il giovane studente liceale Corrado diventa uomo, democratico e democristiano per la vita, e giornalista, anzi perfino direttore di un piccolo foglio, che è l’ultima bandiera italiana a svento lare su Pola, quando la comunità italiana di Pola è or mai quasi tutta emigrata in Italia, prima del ritorno del potere titino.

Il racconto di quei due anni è punteggiato di eventi curiosi e un po’ straordinari: come I due brevi incontri ricercati disperatamente, da questo ragazzo che spera ancora di salvare la sua Pola, con Don Sturzo prima, e poi con De Gasperi ormai per garantire la continuità delle operazioni di esodo. Non riuscirà nel suo intento. Ma potrà sempre dire: “Ce l’ho messa tutta, ci ho provato”. Allora forse non se ne rendeva conto, ma da questi fallimenti uscirà più forte, più consapevole di quel lo che dovrà essere il suo destino nella vita, e il suo ruolo nella storia politica di quella che oggi si usa chiamare – con malcelato disprezzo e cieca incomprensione di ciò che ha significato per il progresso sociale, economico, civile e politico del nostro Paese – “la prima Repubblica”.

Ma non voglio anticipare quelle che sono le pagine conclusive di un racconto che acquista, in qualche momento, i ritmi di un vero e proprio “giallo”. Lascio al lettore il gusto di immergersi nell’atmosfera di suspence che, non so quanto deliberatamente, l’autore ha creato passo passo nella costruzione del suo racconto; come se lui, e noi, non ne conoscessimo già, purtroppo, la conclusione; o l’avessimo dimenticata.

Molti, forse, l’hanno davvero dimenticata. Anche per questo, non solo gli istriani saranno tentati di dire alla fine: grazie Corrado, che ce l’hai ricordata.

Fonte: Il Piccolo 02/02/2018