Quelle giornate di dolore che non dobbiamo dimenticare mai
Si metta a confronto il 25 aprile e il 10 febbraio. Due date che evocano la storia italiana: la prima celebra “il giorno della liberazione“, la seconda “il giorno del ricordo“. L’ultima guerra mondiale è finita, e quelle due date sembrano ricordare due guerre diverse combattute dall’Italia: la prima vinta, la seconda perduta. E anche le manifestazioni sono opposte: il 25 aprile è celebrato in modo trionfale, bandiere al vento che, con gli anni, sono diventate sempre più rosse, lasciando in disparte il tricolore, comizi inneggianti a una nuova moralità, a un uomo nuovo italiano. Il 10 febbraio è un giorno di mestizia; è stato difficile introdurlo nel calendario delle celebrazioni, infatti ci è entrato tardi, nel 2004, e per molti, soprattutto tra quelli che festeggiano entusiasti il 25 aprile, sarebbe stato meglio che quella data non sottolineasse alcun evento particolare.
Due date per la stessa Italia, una che inneggia alla vittoria, l’altra che rievoca la tragedia della sconfitta. Sembrerebbe una schizofrenia storica, degna delle riflessioni di un illustre psichiatra. Sembrerebbe: in realtà quelle date raccontano una crudeltà politica. Le popolazioni che abitavano sulle coste dell’Adriatico orientale, nostri connazionali come quelli che vivevano nella Venezia Giulia, hanno pagato il prezzo della sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, come se quel nostro popolo fosse stato proprio quello a consentire i festeggiamenti del 25 aprile.
Ricordare questa realtà storica e politica è sempre stato poco conveniente, e ancora non è facile rievocare la tragedia di una parte del popolo italiano che si è trovata a vivere in una terra che fu romana, veneziana, italiana e che dal 10 febbraio 1947 era diventata jugoslava.
Capita che la gente di confine patisca, dopo le guerre, dolorose trasformazioni: terre che cambiano bandiera, lingue che diventano dominanti cancellando quelle precedenti, tradizioni sconvolte. Ma alle popolazioni italiane che divennero jugoslave accade quello è molto peggio. Furono le vittime designate di un genocidio. Tito, il capo comunista, voleva cancellare ogni traccia di italianità dalle nuove terre consegnategli dal trattato di pace. Gli italiani erano cultura, storia millenaria, civiltà d’arte: Tito non poteva ammettere questa superiorità civile degli italiani rispetto agli jugoslavi: un crogiolo di popolazioni tenute insieme da una violenta dittatura che, non appena ebbe termine con la morte del capo comunista, lasciò un vuoto di potere tale da consentire a quelle stesse popolazioni di accanirsi le une contro le altre, creando Stati tra loro violentemente ostili.
Gli italiani dovevano essere allontanati con ogni mezzo dalle loro terre; per loro si individuò un metodo di sterminio di massa estremamente pratico: le foibe. Molti riuscirono a fuggire per salvare se stessi e per continuare ad essere italiani. Esodo. Nella madrepatria come vennero accolti? Campi profughi, spesso indecenti. Povera gente che aveva lasciato tutto, vista con sospetto sia dalla politica nazionale sia dai loro stessi concittadini. Chi poteva abbandonare il paradiso comunista jugoslavo? Soltanto dei fascisti, solamente chi aveva conti in sospeso con la giustizia, ladri, malfattori.
Su quel 25 aprile, sul modo in cui ci si è arrivati e come poi si era sviluppato, sono state scritte montagne di libri, in particolare grandi romanzi da Calvino a Bassani, a Cassola, a Pavese… che sono entrati nel cuore della gente, creando la straordinaria epopea della Resistenza. Sui fatti ricordati il 10 febbraio, prima che quella data entrasse nel calendario ufficiale delle celebrazioni e dopo il suo ingresso, ci sono libri ma imparagonabile rispetto alla quantità dei volumi e all’altisonante autorevolezza degli autori che hanno narrato il 25 aprile.
Non sono uno storico, ho voluto raccontare le vicende che accaddero in quella parte d’Italia sulle coste dell’Adriatico orientale. I miei romanzi non hanno pretese di indagini storiche, non si focalizzano su problemi strettamente politici, anche se, è naturale, la storia e la politica sono continuamente evocate. Al centro dei miei romanzi, che hanno come argomento quei tempi ricordati il 10 febbraio, ci sono storie private di persone semplici con i loro affetti, i loro problemi quotidiani, che il destino ha fatto vivere in un periodo drammatico. La grande Storia della tragedia di quei tempi fa da crudele cornice alle piccole storie private dei miei personaggi. Il vero protagonista che attraversa questi miei racconti è l’amore nei giorni del dolore, della morte, della salvezza, della rinascita.
Nel primo romanzo, Quando ci batteva forte il cuore (Mondadori 2010), l’amore è quello vissuto in una famiglia, quando la decisione cruciale diventa scegliere tra la salvezza della vita, in particolare di un bambino, o l’impegno politico che può portare alla catastrofe. La scelta di un padre e quello di una madre, l’impegno irredentista di lei e la protezione della vita del piccolo figlio decisa da lui; la fuga, l’esodo.
Nel secondo romanzo, Rose bianche a Fiume (Mondadori 2014), protagonista è l’amore di un giovane ragazzo che, ribelle alle ferree regole dell’austera educazione del padre fascista, si schiera per la vittoria del comunismo titino. Le conseguenze della sua passione politica saranno devastanti quando Tito lo farà arrestare e deportare nel lager dell’Isola Calva, Goli Otok.
Il terzo romanzo, L’amore nel fuoco della guerra (Mondadori 2018) si svolge a Zara prima della sua distruzione. Un uomo e una donna cercano di far tornare i conti della loro vita passata tra incomprensioni e tradimenti, quando ormai non c’è più tempo per correggere gli errori, e la crudeltà della guerra diventa padrona delle loro anime.
Romanzi di esistenze lacerate dal terrore comunista, dalla guerra, dove la speranza della salvezza si intreccia col destino di morte. Piccole storie private con cui vorrei ricordare una grande Storia spesso mistificata, spesso dimenticata.
Stefano Zecchi
Fonte: Cultura e Identità – 10/02/2022