Recensione di “La mia casa altrove”
Ambientato tra Trieste, l’Istria e la Bosnia “La mia casa altrove”, edito da Bottega Errante, segna l’esordio della triestina Federica Marzi al romanzo, una storia dai contorni noir che comincia con un incidente d’auto in Istria. Vittima, per fortuna solamente ferita e non in maniera particolarmente grave, una ragazza bosniaca, Amila, ormai residente a Trieste, che aveva preso in prestito la Panda, senza chiederlo alla legittima proprietaria, Norina, esule da Buie, la donna che aiuta in casa per assistere il marito malato di lei, Mariano. Norina, non vedendo l’auto ritornare al suo posto, avrebbe potuto pensare a un furto, ma ben presto, avvertita dalla polizia dell’incidente e accorsa da Trieste all’ospedale di Isola, dove Amila è stata ricoverata, avrà modo di chiarirsi con lei. Ma non ci riuscirà, non lì, non del tutto, almeno sulle ragioni per cui ha dovuto prendere l’auto di soppiatto.
Ed è da qui che, in pratica, prende avvio la storia che, attraverso i destini individuali dei suoi protagonisti, con la tecnica del flash-back, ci condurrà a quelli più grandi, dei popoli, i quali, non dimentichiamo, sono costituiti tutti da singole persone, ciascuna, appunto, con il proprio destino, diverso dall’altro. In questo caso, le vite, i destini di Norina e Amila, si inquadrano nel contesto più ampio delle due guerre che più hanno sconvolto i paesi al confine orientale d’Italia, cioè la Seconda guerra mondiale, per quanto riguarda l’Istria, e la guerra interetnica jugoslava che ha sconvolto l’ex Jugoslavia, in particolare, la Bosnia, per Amila. In questo senso, sia Norina che Amila hanno in comune la fuga, a causa delle rispettive guerre, dalle proprie diverse terre d’origine, con tutte le conseguenze, in questo caso, comuni: il primo riparo in un campo profughi, per Norina e la sua famiglia, il padre, la madre e la sorella Nevia, in quello di Padriciano vicino Trieste e per Amila e la sua famiglia a Jesolo, per poi anche Amila col padre Željko, la madre Selma e la sorella Majda arrivare a Trieste, dove studia, mentre il padre, ex professore, si occupa sindacalmente dei migranti.
Ma, pur nella diversità delle biografie, delle condizioni, delle generazioni, distanti tra loro, pur nella diversità delle guerre, qualcosa, anzi, qualcuno, le unirà, unendo con la sua persona entrambe le guerre che hanno segnato i destini di Norina e Amila. E lo scopriremo, questo, in seguito alle ragioni che hanno portato Amila a prendere di soppiatto l’auto di Norina per andare in Istria, ma che evitiamo di raccontare perché il romanzo consiste proprio in una sorta di montaggio, grazie al quale, un po’ alla volta, verremo a conoscere tutta la storia.
Ci limitiamo a dire che il motore di tutta la vicenda sarà Simon, uno dei nipoti australiani di Nevia, e pronipote quindi di Norina, alla quale Nevia scrive chiedendole di ospitarlo per un po’ di tempo nella sua casa. Non è che Norina ne sia entusiasta, perché ce l’ha con sua sorella Nevia che, a suo tempo, parliamo dei primi anni Cinquanta, senza dire nulla alla famiglia e, tanto meno, alla sorella, era emigrata in Australia, come in quegli anni sarebbero andati oltre oceano, non solo in Australia, ma negli Stati Uniti, in Canada, in Sudafrica, financo in Brasile, ben 70 mila esuli giuliani (mi preme fare un inciso a riguardo: è appena uscito un bel libro di Rosanna Turcinovich Giuricin, dal titolo “Esuli due volte – dalla propria casa, dalla propria patria” con saggio introduttivo dello storico Roberto Spazzali, edito dalla Oltre Edizioni, che affronta proprio questo argomento n.d.r.). Tornando al romanzo di Federica Marzi, scopriamo che con Nevia, ad andarsene da Trieste fu anche Franco Radoni detto Bacan, perché usava fare rumore con i suoi gesti e proclami, e non uno qualunque, ma il giovane del quale Norina stessa era innamorata, senza però mai avere il coraggio di cedergli come lui avrebbe voluto e le aveva fatto capire. E che delusione, che grande delusione fu per Norina scoprire che la sorella Nevia se n’era andata con la stessa nave, nello stesso viaggio, intrapreso da Franco Rodoni, circostanza che le aveva fatto capire di una relazione tra i due, della quale la sorella l’aveva tenuta all’oscuro. Non solo. Verrà poi a sapere che Nevia da lui aveva avuto anche una figlia, anche se alla fine si sarebbe sposata con un altro uomo, Carmine, con il quale ha avuto altre figlie, mentre lei e Mariano sono rimasti senza. A parte ciò quel rancore in lei non si era mai sopito, accontentandosi poi di sposare, appunto, il bonario Mariano.
Tutto, perciò, rende Norina ostile a quell’improvviso arrivo del pronitpote, e la sorella, intuendolo, temendo per quel torto del passato, nella lettera cerca di blandirla: “Siamo vecchie come il cucco. Mettiamo a posto le nostre cose, vuoi? Ma proprio questo, Nevia non avrebbe dovuto dirlo (…) Norina gettò spazientita i fogli sul tavolo. Le chiacchiere di cui sua sorella le riempiva la testa erano come ortiche: irritanti”. Anche perché Norina sospetta essere Simon, come in realtà è, il nipote anche di Franco Bacan.
Ma poi, ripensandoci, sì, accetta di ospitarlo. “Perché Simon era prima di tutto di Nevia. E da sua sorella non voleva niente. Le cose, fra loro due, non sarebbero mai potute tornare a posto”.
Con il flash-back siamo sempre ai momenti precedenti l’incidente. E alla storia di Norina si alterna quella di Alima, della sua famiglia, della loro casa a Zvornik sul confine tra Bosnia e Serbia, con tutte le problematiche del caso, dovute al fatto che lì, la buona convivenza tra etnie di un tempo – e lei era bosgnacca – era finita, e anche a Trieste la sua quotidianità scolastica era seminata da problematiche di carattere etnico e linguistico che la spingono a cambiare scuola, anche contro il parere del padre. Situazioni che hanno il pregio di dare spessore umano alla sua figura, quello spessore che la porterà a prendere la macchina di Norina e ad attraversare il confine a Dragogna, per finire poi contro un camion.
Ma, prima di tutto questo, c’è l’arrivo di Simon, c’è Amila che gli fa da cicerone, c’è l’amore tra i due e c’è anche una gita al paese d’origine della nonna di Simon, di Norina e di Franco Radoni detto Bacan. Insieme, Simon e Amila, scopriranno che il vecchio è tornato al villaggio e chiedono della sua casa, ci vanno, ma al loro arrivo è chiusa. “Ma che credevi, eh!” gli dice Amila “Pensavi di arrivare in un giorno qualsiasi e trovare tuo nonno proprio nella sua vecchia casa, in un paese fantasma?”. Così tornano a Trieste. Poi Simon, però, deve tornare in Australia, non senza prima passare per la Grecia dove ha un amico che lo aspetta, parte… Amila cerca di stare in contatto con lui, confidando in un suo ritorno. Nel frattempo, però, la ragazza scopre per caso, leggendo un giornale in lingua croata, una notizia di cronaca, che esiste un certo Franjo Radonic, “titolare di una società di autotrasporti, fondata insieme a un certo Danko Burić, uomo d’affari, politico e poi generale dell’esercito croato, un personaggio di spicco della guerra di indipendenza” contro il quale il Tribunale internazionale dell’Aia aveva emesso un anno prima un mandato di estradizione ecc.ecc. Ma subito in Amila nasce un sospetto, di quel Franjo Radonić, il sospetto che Franco o Francesco Radoni e Franjo (Francesco in croato) Radonic siano la stessa persona… così vuol fare una verifica. E tutta sola torna nel paese originario di Norina, Nevia, Franjo… Lasciamo al lettore il gusto di accompagnare Amila in questa scoperta.
Tutto sommato, un buon esordio, questo di Federica Marzi, anche se i tempi dell’azione appaiono forse un po’ troppo dilatati, accarezzate come sono le pagine – 326 sono davvero un po’ troppe in questo caso – dalla voglia dell’autrice di metterci dentro tanti aspetti e materiali che le urgono dentro, ma che finiscono col rendere, alla fine, la lettura più lenta di quel che merita. Ma credo che con il tempo, visto il buon risultato, la brava Federica Marzi saprà meglio frenarsi e abbandonarsi.
Diego Zandel
Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – 31/03/2022