Protagonista: Antonietta Pagliaga
Autore: Antonietta Pagliaga
Queste pagine parlano di una vita piena d’amore.
L’amore riconoscente dei contadini slavi nei confronti di mio padre che si era rivelato essere uomo buono e giusto.
L’amore filiale verso una madre con la sua fatica di tirare avanti.
L’amore per me stessa, accresciuto da una nascita così particolare e ricca di presagi di benessere e incrollabile ottimismo.
Fortunatamente capace di vivere senza ansie i momenti difficili considerandoli quasi un’occasione di nuove opportunità.
L’amore per la città conosciuta da bambina nei suoi angoli più suggestivi.
L’amore amicale nel parlarsi al di là di una tenda, l’amore ammirato verso un’insegnante che sapeva aprire le porte della conoscenza.
L’amore preciso per il mio lavoro.
L’amore appassionato.
Di notte vorrei i pipistrelli, al mattino svegliarmi al canto del gallo, correre ricordando così l’attimo in cui vidi la luce in quella lontana domenica di giugno.
Io sono di Orsera, paradiso d’Istria, dove la mia famiglia, zii, nonni sono vissuti da quando esiste memoria.
Sentivo che i grappoli d’uva incurvavano le viti più del dovuto, i noccioli davano frutti grossissimi, i fichi sapevano di miele e scoppiavano, se non venivano raccolti per tempo.
Lungo la costa vivevano gli italiani che, come i miei parenti, lavoravano la terra, con l’aiuto di manovalanza slava dell’interno, tutto questo in armonia.
Meneghetta, vecchia levatrice del paese, si trovò un giorno (il 28-6-1942) ad aver a che fare con un parto più difficile del solito; cercò il dottore a casa, ma non lo trovò.
Il travaglio fu laborioso, si dette coraggio con un sorsetto, in quel caso, forse due.
Alla fine la bambina nacque e lei rimase sorpresa dal fatto di trovarsi davanti un esserino urlante, con addosso un qualcosa che le fece emettere esclamazioni di sorpresa, di meraviglia, infine di gioia.
Per lei la partoriente non esisteva più: “È nata con la camicia, guarda, guarda”, si ripeteva.
Non si accorgeva di non avere risposta alle sue esclamazioni.
A questo punto dobbiamo spiegare cosa successe: mia madre, Maria, non mi ha potuto raccontare esattamente che cosa sia la camisetta, perché non la poté vedere, essendo lei dopo il parto più di la che di qua.
La camisetta è parte di una membrana che si trova all’interno del sacco amniotico; per la rarità del caso che il bambino nascendo si porti addosso parte di questa membrana, le leggende popolari danno a ciò una valenza di buon augurio, cioè di fortuna, da qui il detto: nascere con la camicia.
Dobbiamo pensare che chi me l’ha spiegato è per molte mamme a Trieste, la persona più autorevole nel far nascere bambini, vuoi per anni di esperienza o passione per il suo mestiere una nota ostetrica.
Meneghetta esercitava invece in un piccolo paese, dove non nascevano continuamente bambini; non saprei dire se fosse una levatrice o se avesse cominciato questo lavoro per amore.
Ci possiamo immaginare come avesse reagito a questo fatto: era alla fine della sua carriera, in più una donna semplice e quindi superstiziosa.
Una vicina di casa, Maria de Salvatore, chiamata così, aggiungendo anche il nome del marito al suo, per distinguerla dalle altre Marie, arrivò, prima per aiutare la puerpera, poi per le esclamazioni che Meneghetta non tratteneva, era estate, in paese le porte si tenevano aperte.
Si accorse subito del pallore della partoriente e notò come mia madre si stesse dissanguando.
Tutto divenne concitato, tranne per la donna che continuava ad occuparsi della bambina, che nonostante tutto era sempre al centro della sua attenzione, perché di donne morenti secondo lei ne aveva viste tante.
Maria de Salvatore corse urlando fuori di casa, scendendo per la stradina che porta al mare.
“Il dottore, cercate il dottore!” gridava disperata: “Maria sta morendo!”.
Accorsero delle vecchie donne, attirate da quel gridare che le distoglieva dalle loro abituali e tranquille faccende di domenica a mezzogiorno, mentre i vecchi mariti si attardavano all’osteria chiacchierando e celiando, nell’attesa dell’ora di pranzo, mentre figli e nipoti godevano il giusto premio, crogiolandosi al sole, sguazzando nelle trasparenti acque di quel mare ancora tanto decantato.
Qualcuno pensò di scendere alla spiaggia.
Lui era là godeva di quella giornata, il cui sole a mezzogiorno procurava ancora una calda carezza, prima che giungesse luglio e la canicola che ne consegue, rimase in costume da bagno — non c’era tempo per vestirsi — corse alla casa, trovando la donna stremata e inzuppata nel suo sangue.
Fu tutto un daffare per trattenerla a questo mondo (non saprei descrivere come successe tutto, so solo che mia madre ebbe una grave emorragia per atonia dell’utero; una levatrice avrebbe saputo come comportarsi, da ciò deduco che Meneghetta fosse soltanto un aiuto).
Finalmente il medico tirò un sospiro di sollievo, mia madre era fuori pericolo, e ciò permise a lei di mostrare a tutti la bambina, con ancora la membrana addosso, fu sorpreso pure il dottore, anche per lui era la prima esperienza, visto che come medico in paese si occupava di tutto, dal far nascere bambini, al togliere un’unghia.
Meneghetta poté alfine dedicarsi tranquillamente alla bambina, che con la sua venuta al mondo aveva causato tutto quel casino.
Stette un’infinità di tempo a pulirmi, in quel momento ero solo sua.
“Questa bambina è nata con la camicia, e di domenica a mezzogiorno”, ripeté quasi a se stessa (anche se non ho mai capito cosa intendesse con questa domenica a mezzogiorno): entrambi i fatti sono di buon auspicio nella credenza popolare.
Il dottore, sollevato, rispose, scherzando alla donna: difatti, la sua fortuna è cominciata oggi, dovevo recarmi a Trieste, mi avete trovato per caso.
Così cominciò la mia vita, sicura che nulla di male mi sarebbe potuto accadere; così mia madre mi allevò con poca apprensione, cosa che non fece con i miei fratelli, contagiata da quelle profezie piene di ottimismo.
Mio padre, Innocente, nato nel 1900, era il più piccolo di 6 fratelli (Francesco, il primogenito, Silvio, Elia, Maria e Giovanna); lo avevano fatto studiare soltanto fino al ginnasio, al seminario di Capodistria, perché avrebbe dovuto, essendo lui el caganil, cioè l’ultimo, restare in casa ad occuparsi della terra, delle due sorelle nubili, che non avrebbero mai lavorato e della vecchia nonna Antonia, vedova.
Mia madre, Maria, invece era nata a Polcenigo, in Friuli, nel 1911; aveva quattro fratelli (Lisa, Gigia, Gigi e Fiore, il più piccolo ed il prediletto da tutti).
I miei genitori si erano conosciuti a Trieste, presso una famiglia benestante, dove mia mamma, fin da bambina, viveva come dama di compagnia della signora; era stata scelta per il suo garbo e finezza, qualità notate da conoscenti della famiglia in questione, recatisi a Polcenigo, per farsi confezionare scarpe da mio nonno, la cui maestria era nota fino a Milano; insegnava il suo mestiere a degli apprendisti con grande pazienza.
Il loro matrimonio, celebrato nel 1933 a Trieste, fu sempre osteggiato dalle due sorelle nubili del papà, che forse temevano di perdere l’ultimo fratello, unico loro sostentamento a quei tempi, vivendo i maggiori a Trieste, per le loro professioni.
Lui amava la campagna, anche se ripeteva sempre che la terra è bassa, lo capisco bene, non zappava, lo facevano altri, si occupava di cose più importanti, tagliare le viti e mettere d’accordo gli uomini, in questo era speciale, fu sempre rispettato nella sua vita, anche in seguito, fu chiamato: il sindaco di Gretta, per affetto e simpatia che suscitava.
Eravamo rimasti nel ‘42, ai tempi della mia nascita; ci portiamo nel ‘44 circa, non saprei con esattezza il mese giusto, si cominciò a sentire una sensazione di precarietà, il babbo decise di allontanarci da Orsera, ci mandò a Polcenigo paese d’origine della mamma, la scelta fu saggia.
Io avevo due anni, a quel tempo, mia sorella Liliana 10, lui ci rassicurò promettendo di raggiungerci al più presto.
Non avemmo sue notizie per molti mesi.
In paese c’era bisogno di requisire carne per l’esercito, lo richiamarono, suo malgrado dovette indossare la divisa; gli fu assegnata la mansione di recarsi dai contadini slavi, che quando non erano occupati sulla costa vivevano del bestiame, prelevare una vacca e farla quindi macellare.
Era un compito ingrato, che lui svolse, nella maniera più equa possibile, cercando di non togliere ai più poveri il loro unico sostentamento.
CIO GLI SALVÒ LA VITA!
Non si stava male a Polcenigo, c’era anche lo zio Fiore, fratello minore della mamma che era arrivato da poco e mi adorava.
Durante gli ultimi giorni di guerra, fu attirato, con un tranello, sulle montagne circostanti, e li venne ucciso in un’imboscata da una pallottola vagante: questa fu la tesi ufficiale, quando il corpo fu consegnato alla famiglia disperata.
La dinamica della sua morte non fu mai chiarita, per la mamma e la nonna, fu lutto per sempre nei loro cuori.
Di quel tempo, parlo del nostro arrivo al paese, ho ricordi vaghi, sbiaditi: ero molto piccola, la mia memoria è Liliana, mia sorella, che interpello continuamente, per capire bene la vicenda; la mamma, ancora lucida ed indipendente a 90 anni, ha una memoria ancora vivace ma confusa per le date.
La grande casa del nonno era situata in centro, con un cortiletto davanti al portone; le sue fondamenta erano costruite sul Gorgazzo, un fiumiciattolo che tagliava in due il paese.
Alla sua sorgente ci si arrivava risalendo verso il paese omonimo.
Una sorgiva spettacolare per la sua bellezza: l’acqua sgorgava da sotto una specie di picco roccioso, che in agosto si riempiva di ciclamini, l’odore era inebriante; tutto questo rendeva ancora più suggestivo lo specchio d’acqua, un imbuto, che in pochi metri diventava profondissimo, e l’acqua, che diventava di un blu incredibile tanto era intenso.
La curiosità che crea questo miracolo della natura miete tuttora nuove vittime tra speleologi e sommozzatori, che non si rassegnano alla sua inespugnabilità, da cui nascono svariate leggende.
Sono sempre stata affascinata dalla bellezza, amavo guardare tutte le foto e i dipinti delle chiese già da piccola; immaginarsi quando seppi che avevano affittato ad un giovane fotografo uno stanzino al piano terra di una casa vicina.
Progettai quindi di farmi fare una bella fotografia.
Lo andavo a trovare ogni giorno.
Egli era povero, non aveva di che scaldarsi, dunque eravamo in inverno, o quasi; nella stanzetta c’era un braciere sempre vuoto e allora io tormentavo la mamma di darmi un pò di brace, dal nostro fogoler sempre acceso ed ogni giorno gliela portavo, instancabile, fino a quando egli premiò la mia costanza: “Ci facciamo una bella fotografia, che ne dici?”
Corsi a casa trafelata, mi feci vestire, pettinare e fu così che ebbi la foto tanto desiderata.
Avevo solo tre anni, ma avevo già capito che la tenacia, unite alla costanza e alla pazienza, vengono sempre premiate: se si desidera una cosa, con tanto ardore, ed essa non è la luna, la si può ottenere.