Trieste, 3-6 novembre 1954: il diario di una esule
6 novembre Sono stata a Trieste e ho vissuto giorni degni del nostro Risorgimento. Dalla fine della prima guerra mondiale unita all’Italia e dalla fine della seconda sfibrata dall’attesa e dall’incertezza, la città ha duramente sofferto il dramma della sua posizione di confine. Bisogna rileggere le pagine del “nostro riscatto” per comprendere l’entusiasmo di Trieste un’altra volta redenta. Il tricolore era esposto ovunque. I rappresentanti delle varie armi italiane erano acclamati e contesi. Le mule chiedevano (o prendevano) distintivi, stellette, penne dai cappelli degli alpini o dei bersaglieri di cui si ornavano come di trofei. La notte continuava il giorno per le strade e i ritrovi rimasti ininterrottamente aperti, dato il grande afflusso extracittadino. Anch’io ho partecipato attivamente, riuscendo a raggiungere (non so come) i punti nevralgici. A sera ero esausta, ma soddisfatta del mio contributo in presenza e in voce. Ma sarà meglio che proceda con ordine, perché anche i ricordi si accalcano, si confondono, pretendono la precedenza. 3 novembre Sono finalmente arrivata a Trieste. La prima impressione è stata esaltante: bandiere bandiere bandiere, a cui ho subito aggiunto la mia coccarda. E gente: persone che andavano in tutte le direzioni con sul volto un’espressione di esultanza. Dopo una breve sosta in casa della sorella di mia mamma, della quale sono ospite (impossibile trovare posto in albergo), mi precipito fuori sotto il sabiano inconfondibile cielo azzurro. Sulla porta di casa mia zia mi raggiunge: Bevi almeno el cafè. Lo bevarò co’ torno. E quando ti torni? Sono ormai al portone e faccio finta di non sentire. Quando torno? E chissà! Non ci sono più orari a Trieste. Le vetrine sono parate a festa di bianco rosso e verde. Parenti e conoscenti che incontro non si stupiscono di vedermi: oggi sono tutti a Trieste. Infine mi dirigo verso Piazza Unità. Dove Scelba dovrebbe fare un discorso. La folla attende paziente. Appuntato su un cappello goliardico vedo lo stemma zaratino dei tre leopardi. Apostrofo il suo possessore: Ti xe de Zara? Sì, anca ti? Anca mi! Giorgio è subito un amico, come se avessimo giocato insieme da bambini. Intanto è arrivato Scelba. Le sue parole sono entusiaste, vibranti. Si leva uno scroscio di applausi quando abbraccia il sindaco Bartoli. Noi invidiamo il Tribuno dell’Università che si pavoneggia maestoso sul palco col mantello cremisi e berretto con frangia da laureando. Giorgio mi raccomanda di procurarmi un berretto universitario per il giorno seguente. Tornerò a X stanotte a cior el mio, che no go portà – ironizzo. Ho l’impressione che sia tardi. Da un po’ è buio e la brezza marina fa sentire la sua umida carezza. Preferisco non guardare l’orologio, ma Giorgio cavallerescamente si offre di accompagnarmi. Il problema è farsi strada. Giorgio si mette ad agitare per aria il suo berretto. La gente incuriosita si ferma aspettando chissà quale novità… e noi passiamo. Arrivo a casa a ora imprecisa. Eco la picia (sic) – dicono. Mi addormento di colpo in preparazione della giornata campale di domani. 4 novembre Alle 7 passa Giorgio a prendermi. Ci avviamo fra la massa ancora verso Piazza Unità. Per fortunata combinazione la colonna si ferma in modo che veniamo a trovarci proprio di fronte alla tribuna presidenziale. Pochi metri dietro di noi c’è il mare. Basterebbe uno spostamento della folla per farci fare un bagno fuori stagione. E’ una mattina splendida rallegrata da un caldo sole (io per fortuna sono… all’ombra di un tricolore). Sull’alberatura della Amerigo Vespucci sono schierati i cadetti. Ai lati della tribuna fanno ala rappresentanze e gonfaloni di varie città. Mi godo lo spettacolo quando un gruppo di militari si schiera innanzi a noi. Sono i reduci di Al Alamein, che sostengono di essere quello il posto loro assegnato. E ci restano. Con un po’ di buona volontà (mia e degli altri) riesco ad insinuarmi fra di loro e a conquistare una ottima posizione. Spontaneamente parlo in dialetto e i miei orecchini vanno ad arricchire le collezioni di un aviatore e di un carrista. Mi rifaccio con il distintivo di un paracadutista. Aeroplani sfrecciano nel cielo. Giungono al confine e fanno una rapida virata. Scendono manifestini: una pioggia tricolore. Ne raccolgo qualcuno che conserverò per ricordo. I cannoni sparano a salve. Arriva il presidente Einaudi. Inizia la sfilata fra l’entusiasmo generale in continuo crescendo. Un veterano col piumetto arranca dietro i nuovi commilitoni in corsa. Nella confusione ho perduto di vista Giorgio. A casa, dopo un lauto pasto, sto per adagiarmi sopra una accogliente poltrona, quando arriva Giorgio: Dai, movite, dovemo andar all’Università, dove i dà la laurea a Einaudi. Come sempre le strade sono intasate dalla folla. Per vie traverse arriviamo infine all’Università, ma l’Aula Magna è stipata da Rettori, Docenti, autorità e da uno sparuto gruppetto di studenti. Neanche pensare di entrarci. Fuori dell’Ateneo è un fantasmagorico ondeggiare di cappelli goliardici variopinti. Arriva il presidente fra irrefrenabili ovazioni. Cossa se fa? – chiedo. Bisogna andar a San Giusto – risponde Giorgio. Guardo San Giusto: la Chiesa è in cima a un altro colle. Guardo la valle che bisogna superare. Penso che non ci sono mezzi di trasporto, che “me fa mal le scarpe” e dico: ’ndemo! Finalmente arrivati, ci sediamo su un gradino della scalinata e aspettiamo. Ma l’attesa è lunga. Un altoparlante sopra la nostra testa diffonde il discorso del Vescovo Santin, che prende spunto dal Salmo 126: «Quando il Signore ricondusse i reduci a Sion/ noi eravamo come trasognati». Continua esultando per la gioia di Trieste ritornata all’Italia, alla Madre, ma la sua voce trema mentre rivolge un pensiero doloroso e fraterno a coloro che «del gaudio non possono essere partecipi». Quello che è stato il sentimento latente di tutta la giornata, e che ho soffocato nell’azione, mi travolge: il ricordo di Zara lontana e la coscienza che la città, pur essa italianissima, ben difficilmente potrà essere riunita all’Italia. L’allocuzione del Vescovo è finita. Guardo Giorgio. E’ proprio una lacrima quella che mi sembra vedergli brillare fra le ciglia o è la mia commozione che me la fa vedere. La gente sfolla. Finalmente riusciamo a entrare in San Giusto. I bianchi marmi degli altari sono inghirlandati da garofani rossi e da verdi rami di ulivo. In silenzio ci sediamo malinconicamente in un angolo. Non preghiamo, per lo meno consciamente. Quando usciamo, ci accoglie un tramonto stupendo. Il disco rossastro del sole, nettamente stagliato sul cielo turchino, scende lentamente nel mare, mentre il pulviscolo dell’aria assume riflessi dorati. Alle spalle della città e del golfo che dominiamo, sulla nuda terra del Carso, si stende un velo violaceo, che va incupendo con le prime ombre. Lentamente prendiamo la via del ritorno. 5 novembre Sul tardi mia zia viene a svegliarmi. Peccato! Stavo sognando di essere una personalità e di stringere la mano al Presidente. Telefona Giorgio. Avevamo fatto un mezzo programma di andare a visitare Miramare. Ma io ormai ho esaurito la mia carica sportiva. Me spiase, ma parto ’pena magnà. Fra quatro giorni go da dar un esame. – dico. E’ la verità. Non sappiamo cosa aggiungere. Vegnirò a trovarte a X – si accomiata Giorgio. Durante il viaggio di ritorno mi accorgo che non ho l’indirizzo di Giorgio e che non mi sembra di avergli dato il mio.
L’Arena di Pola, 1 dicembre 2016